L.
E nel foglietto della Messa un inno al soggettivismo
di A. M. Valli dal suo blog del 12.07.2017
Domenica scorsa, 9 luglio, a Roma, e penso in molte altre chiese di
rito romano, è stato distribuito ai fedeli il foglio «La Domenica», con
le letture del giorno e le principali preghiere, per aiutare a seguire
la celebrazione della messa.
In genere, nell’ultima delle quattro paginette della pubblicazione,
c’è una riflessione su argomenti di attualità, e in questo caso c’era un
intervento sull’esortazione apostolica «Amoris laetitia». Un testo che
mi ha fatto nascere molte domande e mi ha lasciato alquanto perplesso.
Dopo una prima, veloce lettura mi sono detto: «Che diamine sta
scritto qui? Possibile?». Siccome c’era un caldo torrido, ho dato la
colpa a me stesso e al mio intorpidimento, poi però ho letto e riletto, e
siccome ad ogni rilettura mi sono sentito sempre più sconcertato, ho
capito che non era colpa del caldo.
Sotto il titolo «Prima la coscienza, poi le regole» (di per sé
altamente problematico, come dirò), troviamo questa iniziale
affermazione: «Tra le quattro parole che traducono il senso profondo
dell’esortazione “Amoris laetitia” (accoglienza, accompagnamento,
discernimento, integrazione) il discernimento è quello che merita uno
sguardo più attento».
Pensavo che, subito dopo, ci sarebbe stata qualche annotazione sul
significato del discernimento. Discernimento per arrivare a che cosa?
Discernimento guidato da chi, e come? Ma nulla di tutto ciò. Quella che
invece viene proposta è un’affermazione tanto perentoria quanto
indimostrata, e cioè che, «ricorrendo a questa scelta, il Papa intende
concedere alle famiglie cristiane una patente di maturità nella fede».
Ma che significa? Che vuol dire, precisamente, che ricorrendo al
discernimento il papa concede alle famiglie cristiane una patente di
maturità nella fede? Il papa non dovrebbe vincolare le famiglie, come i
singoli, alla legge divina? Ammesso comunque che sia così, e cioè che il
papa voglia concedere alle famiglie questa fantomatica patente sulla
base di un
imprecisato discernimento, quale sarebbe lo scopo finale? Non
si sa.
Proseguo nella lettura e trovo il seguente pensiero: «Per il
discernimento infatti, più che le regole, serve l’impegno personale.
Perché il discernimento, che si adatta alla situazione concreta della
persona, è più esigente delle regole. Ogni persona ha una “sua”
situazione. Pensare di stabilire tante “regole” quante sono le
situazioni vissute dalle persone nella loro vita di relazione vuol dire
infilarsi in un ginepraio inestricabile, tanto rischioso quanto
ingiusto».
Questo passaggio l’ho riletto anche più degli altri. E sulla mia
faccia, già stravolta dal caldo, si è disegnato un enorme punto
interrogativo. Dunque, sembra di capire, il discernimento (qualunque
cosa voglia dire) si regge non sulle regole, ma sull’impegno personale.
Ma quale impegno? Di che tipo? Per arrivare dove? Per fare che cosa?
Anche qui, nebbia. Eppure la conclusione, di nuovo, è categorica: questo
indefinito «impegno personale» è più importante della legge divina,
cioè di quanto Dio stesso insegna per il bene della creatura umana.
E che dire dell’affermazione secondo cui, poiché ogni persona vive
una sua situazione, pensare di stabilire tante regole quante sono le
singole situazioni vorrebbe dire «infilarsi in un ginepraio
inestricabile, tanto rischioso quanto ingiusto»?
Ciò che il testo sembra sostenere è che la singola situazione non può
essere normata, ma solo osservata attraverso la lente del
discernimento. Siamo dunque in quella che si chiama morale della
situazione, caratterizzata dal fatto che il giudizio sulle scelte non
avviene in base a una verità universale, espressa da una legge, ma in
base al modo in cui la singola situazione è vissuta dal soggetto che ne è
protagonista. Il che, volendo chiamare le cose con il loro nome,
corrisponde al soggettivismo. Non è la legge divina, universale e
vincolante, a determinare ciò che è bene e ciò che è male, ma la
coscienza del soggetto. Non solo: la legge universale, se applicata, non
corrisponde alla giustizia. Al contrario, ci conduce all’ingiustizia.
Questa prima conclusione, dal punto di vista cattolico, è di per sé
inaccettabile. Ma non è finita, perché subito dopo leggiamo: «E infatti
nell’”Amoris laetitia” il Papa non l’ha fatto». Non ha fatto che cosa?
Non si è infilato in quel «ginepraio tanto rischioso quanto ingiusto»
che sarebbe la legge divina universale. Ovvero ha abbracciato la morale
della situazione, ovvero il soggettivismo, ovvero il relativismo. E
questa sarebbe una cosa buona. Se le parole hanno un senso, ecco quanto
ci viene spiegato nel foglio «La Domenica» distribuito nelle parrocchie.
Ne prendiamo atto. E veniamo al finale.
«Il discernimento personale è più rispettoso, ma anche più
impegnativo. La “regola” è più comoda, il discernimento più severo. Dio
non pretende da noi un bene in generale, ma quel bene che rappresenta
ciò che è meglio per noi in quella determinata situazione, alla luce
della nostra vita di relazione. Quindi il “massimo bene possibile”, che
si può realizzare solo con il discernimento».
In che senso il discernimento personale sarebbe più rispettoso di
quanto lo sia la legge? Più rispettoso, sembra di capire, significa qui
più comprensivo. Ma siamo sicuri che mostrandoci più comprensivi siamo
più rispettosi? Si è davvero più rispettosi quando si è più tolleranti,
più flessibili, meno legati alla verità? O, al contrario, si è più
rispettosi quando si prende la legge come punto di riferimento
vincolante nella certezza che è stata voluta per il nostro bene?
Quanto all’idea secondo cui la regola sarebbe più comoda, mentre il
discernimento sarebbe più severo, ancora una volta viene da chiedersi:
che vuol dire? In che senso la regola sarebbe più comoda? Dobbiamo
concludere che il buon Dio, con i dieci comandamenti, avrebbe scelto la
via della comodità? Sarebbe stato meglio se si fosse scomodato e avesse
aggiunto ai comandamenti svariate postille per ogni singolo caso? E che
significa che Dio non pretende un bene in generale ma ciò che è meglio
per noi in una certa situazione? Vuol dire che il bene oggettivo non
esiste, ma esiste solo il bene soggettivo? Ma se non esiste il bene
oggettivo, come facciamo a sapere che cosa è bene e che cosa è male in
una data situazione? Su che cosa fondiamo la valutazione? Di nuovo, la
conclusione a cui arriviamo è che vale solo l’esperienza soggettiva, la
quale è buona in sé, al di là di ogni norma e ogni legge universale
oggettiva. Ovvero: l’uomo è dio per se stesso. Ovvero: l’uomo non ha
bisogno di Dio.
E ora leggiamo le ultime righe: «L’applicazione rigorosa della legge
richiama invece il concetto di “minimo male realizzabile”, lo stesso
atteggiamento farisaico del tipo “rispetto il sabato e sono tranquillo”.
Ma il Vangelo non dice così».
Domanda: perché l’applicazione della legge dovrebbe richiamare il
concetto di «minimo male realizzabile»? In che senso? Dunque il buon
Dio, donando all’uomo le tavole della legge, aveva in mente non il bene
della sua creatura ma il minimo male realizzabile? Dunque la nostra
santa madre Chiesa, insegnando la verità e l’applicazione della legge
divina, si accontenta del minimo male realizzabile anziché cercare la
salvezza di ogni creatura? E perché l’applicazione della legge dovrebbe
portare a un comportamento di tipo farisaico? Se per farisaico, come
sembra di capire, qui si intende ipocrita, dobbiamo forse concludere che
coloro i quali hanno a cuore la verità, e dunque il rispetto della
legge universale, vincolante per tutti, sono necessariamente ipocriti e
quindi falsi e impostori?
Il testo si conclude in modo perentorio: «Ma il Vangelo non dice
così». Davvero? Che cosa dice il Vangelo, cioè Gesù? Non dice forse
«quello che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi»? Non dice forse «e i
due saranno una carne sola»? Non dice forse «va’ e d’ora in poi non
peccare più»? Non mette forse in guardia chi «trasgredirà uno solo di
questi precetti»? Dice «andate e ammaestrate tutte le genti» o dice
«andate e discernete caso per caso»?
Torniamo ora al titolo: «Prima la coscienza, poi le regole». Ripeto:
se facciamo della coscienza un assoluto, e non parliamo di coscienza ben
formata mediante la Parola e la legge divina vincolata alla verità,
finiamo dritti dritti nel soggettivismo. È dunque questo che insegna
oggi la nostra santa madre Chiesa?
Un testo come quello che abbiamo ora analizzato potrebbe figurare
degnamente nel Bollettino dell’Associazione Soggettivisti Incalliti
(tranquilli, non esiste, l’ho inventata adesso, tanto per intenderci),
ma trovarmelo di fronte nel foglio «La Domenica», distribuito in
migliaia di parrocchie con tanto di nullaosta di un signor vescovo, mi
lascia sgomento.
«Prima la coscienza, poi le regole». Letto e riletto, il titolo mi ha
rimandato a qualcos’altro. Naturalmente mi è tornata alla mente la
«Lettera al Duca di Norfolk» del beato cardinale Newman, nella quale il
grande convertito al cattolicesimo sostiene che, dopo un pranzo, in un
ipotetico brindisi, volendo introdurre la religione, brinderebbe al
papa, ma prima alla coscienza e poi al papa. Tuttavia, come ha spiegato
molto bene Joseph Ratzinger commentando il celebre brano, Newman con
quella sua espressione non volle certamente spezzare una lancia a favore
del soggettivismo. Quando parlava di coscienza, Newman si riferiva alla
coscienza illuminata dalla rivelazione e dunque dalla legge divina. La
sua non era la via della soggettività che afferma se stessa, ma la via
dell’obbedienza alla verità oggettiva, perché (sono ancora parole di
Ratzinger) «solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la
coscienza riceve valore, dignità e forza».
Insomma, dire «prima la coscienza, poi le regole» per un cattolico,
semplicemente, non ha senso. Perché la coscienza, per non cadere vittima
della soggettività autoreferenziale, ha bisogno della verità, dunque
della legge, dunque delle regole.
Poi però, dopo aver pensato al Newman spiegato da Ratzinger, mi è
tornato alla mente anche il metodo dell’ipnopedia di cui parla Aldous
Huxley in «Il mondo nuovo».
Mi direte: che c’entra adesso l’ipnopedia?
L’ipnopedia è una tecnica che consiste nella somministrazione di
stimoli uditivi a un soggetto addormentato, così che i concetti
trasmessi siano inconsciamente assimilati in profondità. Nel romanzo
distopico di Huxley l’ipnopedia è impiegata dal regime politico
imperante perché i sudditi possano interiorizzare slogan utili al regime
stesso, e naturalmente la ripetizione esclude la spiegazione, perché
l’obiettivo è condizionare, non consentire un’adesione razionale.
Ora provate a ripetere in continuazione: «Accogliere, accompagnare,
discernere, integrare». Non stancatevi. Lasciate che diventi una sorta
di mantra tibetano. Ecco, bravi, così: «Accogliere, accompagnare,
discernere, integrare». Non chiedetevi il perché è il percome. Non
lasciatevi distrarre dalla questione del significato. Ripetete e basta.
Lasciatevi rapire dal suono, così bello, così buono, così politicamente
ed ecclesiasticamente corretto. E poi aggiungete: «Prima la coscienza,
poi le regole». E ancora, e ancora. Lasciatevi cullare. Non pensate.
Liberate la mente. «Accogliere, accompagnare, discernere, integrare.
Prima la coscienza, poi le regole». Non fatevi domande. Le domande non
servono più. Il significato non ha più importanza. Conta solo il suono.
Fatto? Bene, fratelli. Benvenuti nella Neochiesa.
Aldo Maria Valli
P.S. L’autore della riflessione pubblicata da «La Domenica» è un
giornalista, un collega che conosco e stimo. Vorrei rinnovargli amicizia
e stima, ma davvero non riesco a capire come possa aver scritto ciò che
ha scritto. Abbiamo raggiunto un grado di confusione ormai ben più che
preoccupante.
Ormai i poveri cattolici che nonostante tutto, conservano la fede, sono sottoposti a pressioni psicologiche e costrizioni, quando non con persecuzioni, caratteristiche dei feroci regimi dittatoriali come quelli marksista-leninisti e nazisti...e sud americani.
RispondiEliminaIl tornado Bergoglio è il giusto castigo che segue alla "primavera del Concilio".
RispondiEliminaPiù che primavera mi sembra un bell'inverno inoltrato, ed anche dei più rigidi!
RispondiEliminaGrazie a Bergoglio abbiamo la possibilità di apprezzare l'importanza dei veri Papi che avevamo
RispondiEliminaQuesti illusi preti non sanno più cosa inventarsi, spesso in malafede, per attirare in chiesa la gente e specie i giovani che hanno diseducato alla fede cattolica, per sentirsi seguiti nelle loro narcisistiche apostasie e nella loro necessità di danaro. Sperimentazioni deliranti ed espedienti da avanspettacolo sono ciò che resta della Chiesa cattolica, che non è più quella di Cristo ma del misero uomo, nella sua deriva dottrinale e morale.
RispondiEliminaCodesti immondi foglietti che si riempiono di parole opportuniste e vacue, tralasciando e occultando i veri tesori della vera liturgia, non leggeteli.
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