Approfondito saggio su Martin Lutero, lontano dalla agiografia corrente, di moda oggi anche dalle parti di S. Marta.
L
(Articolo tratto
da Cultura&Identità.
Rivista di studi conservatori, anno IX, n. 15, Roma 25 marzo 2017, pp. 3-8)
Rivista di studi conservatori, anno IX, n. 15, Roma 25 marzo 2017, pp. 3-8)
Ermanno
Pavesi
È un luogo comune attribuire le cause della Riforma, o per lo meno
assegnare una grande importanza
alla pubblicazione delle novantacinque tesi sulle indulgenze che, secondo una
leggenda senza fondamento storico, Martin Lutero (1483-1546) stesso avrebbe
affisso alla porta della Chiesa di Wittenberg, in Sassonia, il 31 ottobre 1517.
In realtà Lutero avrebbe inviato una copia delle sue tesi ad alcune
personalità.
La responsabilità per la rottura con la
Chiesa cattolica viene spesso attribuita a quest’ultima per non aver accolto le
critiche di Lutero al modo con cui venivano predicate le indulgenze e al fatto
che le offerte raccolte sarebbero state utilizzate per mantenere lo sfarzo
della Chiesa rinascimentale a Roma.
È però difficile sostenere
che l’intento di Lutero fosse
solamente
la moralizzazione della Chiesa, se si tiene conto delle sue richieste,
formulate già agli inizi della Riforma, come l’introduzione del sacerdozio
universale di tutti i credenti; l’eliminazione degli ordini religiosi, in
particolare degli ordini mendicanti; la proibizione dei pellegrinaggi; l’abolizione
del codice di diritto canonico; la riduzione da sette a due del numero dei
sacramenti e così via.
Le Novantacinque Tesi rappresentano un
passaggio importante per l’eco che hanno avuto e per le discussioni che ne sono
seguite con le autorità ecclesiastiche e con altri teologi: però la questione
delle indulgenze ha avuto un ruolo marginale nel pensiero del riformatore e nel
conflitto con la gerarchia: «Significherebbe fraintendere completamente
Lutero, se si pensasse che per lui si fosse trattato solamente, o in primo
luogo, di eliminare la proliferazione della pratica delle indulgenze. Il
commercio con le indulgenze è per lui solamente un sintomo di una dottrina
penitenziale sbagliata che presuppone che l’uomo, che si trova sotto il potere
del peccato, quando fa quello che può con le proprie forze sarebbe in grado di
fare il primo passo verso la salvezza e quindi di ottenere la grazia di Dio»[1].
Effettivamente già prima delle Novantacinque Tesi Lutero si era mostrato sempre
più critico nei confronti di principi fondamentali della teologia cattolica,
come la questione se l’uomo con le sue forze può acquisire meriti, ovvero il
ruolo della grazia per la propria salvezza, ciò che rimanda al problema di
fondo se l’uomo è dotato di libero arbitrio, una questione della quale Lutero
si era occupato già da anni e che lo aveva portato su posizioni di critica
radicale alla teologia cattolica.
1. La crisi spirituale di Lutero monaco
Lutero ha iniziato la sua carriera
accademica nel 1508 tenendo un corso alla facoltà delle arti dell’Università di
Wittemberg sull’Etica nicomachea di Aristotele (384/383-322/321 a.C.). I
suoi studi successivi possono avere avuto un ruolo nella formazione del suo
pensiero, che troverà una prima formulazione sistematica nella Disputa sulla
teologia scolastica, del settembre 1517, nella quale critica la ricezione
del pensiero aristotelico nella teologia cattolica.
D’altra parte non si può trascurare la
crisi spirituale di Lutero, una crisi che era iniziata già anni prima delle
Novantacinque Tesi e che può spiegare l’atteggiamento sempre più critico nei
confronti della teologia e della dottrina cattoliche fino alla rottura
definitiva.
Lutero stesso ricorda di essere stato
un monaco zelante con un atteggiamento positivo nei confronti del Papa e della
gerarchia. Ancora nell’omelia del 1° agosto 1516, festa di san Pietro in Vincoli,
commentando il brano del vangelo di Matteo «In verità vi dico: tutto quello
che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che
scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (Mt 18,
18), Lutero sostiene il primato del papa.
«Tutto quello che legherete sopra la
terra, ecc. Se Cristo non avesse affidato tutto il suo potere a un uomo, la
Chiesa non sarebbe perfetta. Perché non ci sarebbe nessun ordine, poiché
chiunque pretenderebbe di essere ispirato dallo Spirito Santo. Così hanno fatto
gli eretici. Se chiunque facesse valere il proprio principio, ci sarebbero
altrettante Chiese quante teste. Così [Cristo] non vuole esercitare alcun
potere se non per mezzo di un uomo e con il potere affidato a un solo uomo,
perché tutti siano riuniti per diventare una sola cosa. Ha rafforzato, poi,
questo potere, tanto da suscitargli contro ogni potere del mondo e degli
inferi, e dice: le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (Mt.
16,18)[[2]].
Quasi come se dicesse: “combatteranno e saranno incitati, ma non prevarranno”
in modo che si riconosca che questo potere proviene da Dio e non da uomini. […]
È meglio obbedire che essere vittima di stolti che non sanno quanto male fanno»
(Schriften 1512/18, einschließlich Predigten, Disputationen, WA
1, p. 69).
Al tempo di questa omelia
l’atteggiamento sempre più critico nei confronti della teologia cattolica non
aveva ancora intaccato la fede nel primato petrino.
Lutero dichiara di aver osservato
scrupolosamente la legge, come i farisei, e di avere celebrato con devozione la
liturgia: «Io ho difeso con maggior forza e maggior costanza il fariseismo e
il giudaismo di voi e dei vostri maestri. Se la giustizia della legge fosse
qualcosa, allora sarei rimasto nel fariseismo. Infatti io sono stato un fariseo
e ho rivaleggiato con maggior zelo nelle tradizioni dei padri di quanto non
facciano oggi gli pseudoapostoli. E tuttavia le ho abbandonate con tutto il giudaismo.
E come monaco ho sopportato cose molto più dure nelle veglie e nei digiuni di
tutti quelli che oggi mi perseguitano. Io sono stato superstizioso fino al
delirio e alla pazzia, anche a scapito del mio corpo e della mia salute. Tutto
quello che ho fatto, l’ho fatto con zelo e per Dio. Ho adorato pure il papa e
non cercavo prebende o ricchezze» e «Noi eravamo stati papisti migliori
di loro: abbiamo pregato e celebrato messa scrupolosamente» (2.
Galatervorlesung [Seconda lezione sull’“Epistola ai Galati”]
(cap. 1-4), 1531, WA 40/I, p. 134).
Lutero descrive il suo percorso
spirituale anche per affermare che, se criticava la teologia e la devozione
cattoliche, lo faceva con cognizione di causa: «In verità, avversari ciechi
e induriti non credono che io e altri siamo ugualmente esperti di fariseismo» (ibid.,
p. 134).
Ripensando alla sua religiosità di
monaco ritiene di aver avuto un atteggiamento non del tutto sincero e
autentico: «Noi pensavamo così: se mi confessavo e pregavo i salmi, allora
cominciavo a dire “Dio sii propizio a me peccatore”, in verità non mi
consideravo un peccatore» (ibid., p. 87).
Ma, ancor peggio, riteneva di aver
agito sotto il dominio del diavolo: «Fino a quando ero un monaco, ero
doppiamente cattivo. Stavamo tutti sotto la paternità del diavolo. […] Noi
non ci possiamo aiutare, se siamo in potere di un altro, né possiamo torcere un
capello al diavolo. Per questo sputa su tutta la forza del libero arbitrio,
delle messe e dell’astinenza. Tu devi dire questo: tu sei il povero diavolo»
(ibid., pp. 96-97).
Lutero si mostra riconoscente a Dio per
averlo illuminato nonostante la sua condotta: «Dio ha avuto pietà di me e mi
ha perdonato tali blasfemie e mi ha dato la sua grazia per questi meriti, che
io ritenevo ottimi. Così ho acquisito meriti, io che l’ho crocifisso[[3]]
non solo una volta, che oltraggiavo la fede, vivevo esteriormente bene e casto,
povero non mi curavo delle cose del mondo. Intanto con questa santità e con la
fiducia in me provavo sfiducia in Dio e ansia, ed ero blasfemo. Io ero la
latrina del diavolo e lui preferisce quei santi che perdono la loro anima.
Allora lui se la ride. Mentre lui regna nel disprezzo e nell’oltraggio di
Cristo e nell’abuso di tutti i beni di Dio. Di questi peccati non mi sono
accorto allora. Se fosse venuto Hus [Jan (1371-1415), riformatore boemo, condannato
al rogo durante il Concilio di Costanza del 1414-1418], io avrei procurato
legno e paglia, se non materialmente, almeno con il consenso del cuore. Niente
in confronto a meretrici e ladri, perché questi provano rimorsi di coscienza.
Noi invece ci volevamo giustificare. Noi siamo arrivati alla grazia di Dio in
questo modo, per questa via, oltraggiando la grazia, la maestà, la fede e il culto. Allora io c’ero immerso» (ibid.,
pp. 137-138)
Dopo essersi reso conto dell’inutilità
e addirittura della pericolosità delle opere, Lutero deve tirarne le
conseguenze: abbandonare la regola del suo ordine e le forme tradizionali di
religiosità. «Per venti anni ho avuto rimorsi per i miei peccati e volevo
placare l’ira di Dio con i miei sforzi. Però, come si dice: tanto più a lungo,
tanto peggio. Ma è necessario dimenticare tonaca, tonsura, messe e
pellegrinaggi» (ibid., p. 85). La pratica delle virtù non lo aiutava
a diminuire le tentazioni, anzi: «Bisogna castigare la carne perché non
esaudisca i suoi desideri, anche quando è sobria, come è capitato a me: quando ero completamente
sobrio, ho avuto le
maggiori tentazioni» (2. Galatervorlesung [Seconda lezione
sull’“Epistola ai Galati” (cap. 5-6), 1531, WA 40/II, p. 115)
e per questo dubitava della propria salvezza: «In convento pensavo di essere
dannato quando sentivo i desideri della carne» (ibid., p. 92).
Lutero descrive anche il suo travaglio
interiore: «Così mi è successo, così l’ho provato. Quando un uomo vuole
diventare pio per mezzo della legge, cerca di formarsi un habitus moltiplicando
le sue azioni. Questo primo atto per placare l’ira di Dio. Con questa idea
incomincio a fare delle opere; presto nasce il dubbio: ma hai pregato
rettamente? Ti sei distratto. Così diventano cento carri di peccati e così i
peccati crescono senza fine, fino a quando si acquisisce l’habitus della disperazione:
ah se fossi un guardiano di bestiame, ah se fossi rimasto nel mio stato» (WA,
40/I, cit., p. 615).
La sua sofferenza spirituale lo ha
portato a separare nettamente Gesù da Mosè, la redenzione per fede dalla
giustificazione per la legge, e rimprovera ai suoi superiori di una volta di
averlo angustiato con le loro opinioni, mentre considera fortunati i suoi
seguaci che sono stati risparmiati da un tale indottrinamento. Cristo «[…]
quindi non è un Mosè, un legislatore, ma un elargitore, misericorde e
salvatore; nient’altro che puro dono di misericordia ed elargitore. Così deve
essere descritto Cristo, chi lo fa in modo diverso, angustierà la coscienza,
come le dottrine dei miei superiori che sono entrate come olio nelle mie ossa.
Voi dovete essere molto riconoscenti, che non siete stati indottrinati con
opinioni pestifere. Io sono stato corrotto da tali opinioni e impallidivo
quando sentivo il nome di Cristo. Ora io devo rivoltarmi, per dannare queste
vecchie opinioni e assumerne nuove» (ibid., p. 298).
2. L’omelia sui vizi capitali
Temi che caratterizzeranno la Riforma
protestante si incontrano già in testi degli anni precedenti. In una omelia sui
peccati capitali del 3 agosto 1516[4],
Lutero distingue due fasi nella vita del cristiano: dapprima l’uomo deve
praticare opere buone e astenersi dalle cattive secondo l’uomo sensibile, cioè
digiunare, vegliare, pregare, lavorare, avere compassione, servire e obbedire.
Una volta vinta la lussuria della carne, deve stare attento a non insuperbirsi
e a sopravvalutarsi nei confronti di Dio e degli altri. Così Lutero procede esaminando
i possibili vizi capitali, come il compiacimento per le proprie opere, la
sicurezza di sé senza più il timore di Dio, il sentirsi superiori agli altri
dando giudizi severi sul prossimo. Nella parte finale dell’omelia, una metafora
paragona l’uomo a un cavallo: come il cavallo va dove lo conduce il cavaliere,
così gli uomini di Dio non devono curarsi delle opere esteriori se non come
preliminari, ma devono piuttosto farsi guidare dallo Spirito di Dio. Non
sarebbero loro, infatti, a decidere cosa fare, perché spesso finirebbero
addirittura con il fare non quello che si erano proposti, ma, con una coscienza
tranquilla, dovrebbero lasciare che sia Dio ad agire in loro, mentre quelli che
cercano una giustizia a misura dell’uomo sensibile cadrebbero in disperazione.
In questa omelia incontriamo già alcune
tesi che caratterizzeranno le concezioni della Riforma: con una lapidarietà che
è difficile rendere in italiano Lutero afferma che, per lo meno gli uomini di
Dio, sono guidati dallo Spirito, «Non agunt, sed aguntur» (WA 1,
cit., p. 73), non agiscono, ma vengono mossi. Inoltre viene enfatizzata la
contrapposizione tra lo stato d’animo di chi si sforza di essere giustificato
per mezzo delle opere, un compito impossibile che porterebbe alla disperazione,
e la “coscienza tranquilla” di chi affida a Dio la propria giustificazione.
Questa affermazione acquista un significato particolare se la si confronta con
le descrizioni che Lutero ci ha fornito delle sue condizioni spirituali come
monaco, quando, cercando di giustificarsi con le opere, era diventato depresso
e delirante.
3. La Questione sulle forze e
la volontà dell’uomo senza grazia
Alla fine di settembre del 1516 Lutero
presiede una disputa sulla Questione sulle forze e la volontà dell’uomo
senza grazia[5].
Lutero riconosce la particolare dignità
dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, ciò che lo rende atto a
ricevere la grazia, ma che, di fatto, sarebbe solo chiuso in se stesso, e nei
rapporti con le altre creature cercherebbe unicamente il proprio interesse,
svilendole.
«L’uomo in ragione della sua anima [creata a]
immagine di Dio è adatto alla grazia di Dio, con le sue sole forze sottomette
alla vanità qualunque creatura di cui si serve, poiché ricerca solo se stesso e
ciò che è della carne. […] Infatti, l’uomo senza la grazia, è un albero
cattivo, che non può produrre nessun buon frutto, e che non può servirsi della
creazione a lode e gloria di Dio, cioè per il fine per cui è stata creata. Ciò significa sottometterla alla vanità.
Cerca solo il suo interesse e ciò che appartiene alla carne»[6].
L’uomo vecchio non sarebbe in grado di
conoscere la propria vocazione più profonda e di amare Dio, sommo bene, ma si
limiterebbe a beni parziali, che verrebbero snaturati e che non sarebbero
neanche in grado di appagare le sue aspirazioni.
«L’uomo vecchio è vanità delle vanità,
completamente vanità e rende vane anche le altre creature, anche se sono buone.
È chiaro che l’uomo vecchio è colui che non ama con totale purezza Dio, che non
ha fame e sete [di Lui], ma con la ragione e con lo spirito presume di
essere saziato dalle creature, anche se uno fatto per essere saziato solamente
da Dio, solo da Dio può essere saziato»[7].
A causa delle ferite del peccato
originale tutte le azioni umane sarebbero viziate da egoismo e
autoreferenzialità, per questo anche quelle che sembrano giuste e oneste
avrebbero motivazioni egoistiche: «L’uomo vecchio è chiamato carne non solo
perché viene guidato dalla concupiscenza dei sensi, ma perché, anche se casto,
sapiente e giusto, non è rinato nello spirito grazie a Dio»[8]. Senza la grazia di Dio la pratica delle
virtù non farebbe acquisire meriti, ma se uno le praticasse otterrebbe solo una
minore punizione, «non perché questi [Fabricius] è buono, ma solo
perché è meno empio [di Catilina:] non perché [Fabricius] ha le
vere virtù, ma perché si discosta meno dalle vere virtù»[9].
Il peccato originale renderebbe anche
impossibile adempiere pienamente i comandamenti di Dio: «Senza la grazia di
Dio l’uomo non è in grado di osservare in alcun modo i suoi precetti [di
Dio] e prepararsi in senso proprio o improprio alla grazia, ma in verità
rimane necessariamente sotto il peccato»[10].
La tesi che l’uomo senza la grazia non
è in grado in alcun modo di osservare i comandamenti divini, lo pone di fronte
a un compito impossibile: da una parte riceve da Dio i comandamenti, dall’altra
non è in grado di osservarli. Lutero nega che l’uomo sia dotato di libero
arbitrio e offre anche una sottile spiegazione per conciliare la sua critica
del libero arbitrio con la percezione comune di essere padroni delle proprie
azioni, una tesi che può apparire contraddittoria: «La volontà umana, senza
la grazia, non è libera, ma è serva, per quanto non contro voglia»[11].
Come si può sostenere che la volontà umana non è libera, ma che le azioni non
vengono compiute contro voglia? La volontà senza la grazia pecca, sarebbe
schiava del peccato e non sarebbe libera di perseguire il bene, ma l’uomo «[...]
ha un libero arbitrio per il male, per il piacere per le malvagità e o serve
se tratto in inganno in modo occulto, oppure in modo manifesto, se lui stesso è
persuaso»[12].
Questa tesi concorda in parte con la
concezione della volontà come è stata
formulata,
per esempio, da san Tommaso d’Aquino (1225-1274): la volontà non dispone di una
“libertà assoluta”. La volontarietà di un atto non viene compromessa dal fatto
di essere “mossa” da uno stimolo interno del corpo o proveniente dall’esterno,
ma consiste piuttosto nella facoltà di scegliere fra differenti possibili
risposte allo stimolo: quando la volontà comincia a volere qualcosa, è
necessario che ci sia qualcosa che ha iniziato il processo volitivo[13]
e il fatto stesso che il primo inizio di un’azione volontaria si trovi al di
fuori della volontà stessa non mette in discussione la libertà di questa azione[14].
Per Lutero, però, l’uomo decaduto a
causa del peccato è solo carne,
non è illuminato dallo spirito, non può orientarsi al bene, ma è totalmente
soggetto a desideri e pulsioni della carne e a istinti egoistici. L’uomo
sarebbe quindi limitato nelle sue scelte e, in questo senso, sarebbe schiavo,
ma d’altra parte asseconderebbe l’inclinazione della concupiscenza e le
pulsioni verso le cose malvage, ciò che non avverrebbe controvoglia.
Un atto umano sarebbe solo il prodotto
finale di un processo o di un’attitudine che lo condizionerebbero. Utilizzando
una terminologia moderna, si potrebbe dire che un atto volontario procede da
una motivazione inconscia, e che l’uomo accondiscende consapevolmente a una
pulsione inconscia.
Può sembrare un concetto complicato, ma
si pensi alla persona con una dipendenza da alcol o da droga: la dipendenza lo
costringe a bere alcol o a consumare una droga, ma la persona è spesso convinta
di farlo liberamente, e di poter smettere quando lo volesse, ma la dipendenza
non lo lascia agire altrimenti.
4. La metafora dell’albero cattivo
Sempre nella Disputa sulle forze e
la volontà dell’uomo senza grazia, per descrivere la condizione dell’uomo
dopo il peccato originale Lutero ha utilizzato la metafora dell’albero cattivo
che può produrre solamente frutti cattivi. Analogamente, le azioni dell’uomo
decaduto sarebbero necessariamente cattive. Si tratta di una metafora molto
importante che può aiutare a comprendere alcune tesi del Riformatore.
La metafora presuppone una radicale
contrapposizione tra corpo e anima, tra carne e spirito. La psicologia antica e
medievale distingueva nella parte passionale dell’anima due tendenze
particolari, quella concupiscibile e quella irascibile: con la tendenza
concupiscibile si desidera il bene, con quella irascibile si cerca di
combattere gli ostacoli al raggiungimento del bene: Dante Alighieri (1265-1321)
descrive nel Convivio come le due passioni dovrebbero esser cavalcate
dalla ragione[15].
Per Lutero, però, senza l’aiuto della grazia l’uomo sarebbe solo carne e tutta
l’attività umana sarebbe determinata da passioni e istinti, con la ricerca del
proprio interesse e del proprio soddisfacimento[16].
Sarebbe la concupiscenza a guidare il comportamento dell’uomo incapace di
superare il proprio egoismo. Questo porta a una valutazione negativa del
sacramento della confessione come viene concepito dalla teologia cattolica. Con
l’esame di coscienza si cerca di riconoscere i singoli peccati e, grazie alla
confessione sacramentale, si può ottenerne l’assoluzione raggiungendo uno stato
di grazia. Per Lutero si tratta di un errore, l’uomo decaduto non commette
singoli peccati cedendo alla tentazione della concupiscenza, ma la
concupiscenza in sé sarebbe peccaminosa, per questo sarebbe illusorio fare un
esame di coscienza con l’intenzione di riconoscere comportamenti peccaminosi e
quindi di confessarli allo scopo di sradicare ciò che c’è di male in noi. Sarebbe come pretendere di sanare un albero
cattivo solo eliminandone alcuni frutti cattivi, come se il resto fosse buono,
mentre tutti frutti che verranno saranno necessariamente cattivi. La
confessione sacramentale creerebbe quindi l’illusione di poter sradicare
temporaneamente il male nell’uomo.
La metafora dell’albero cattivo
rappresenta anche una critica radicale dell’etica e della teoria delle virtù,
come sono state formulate per esempio da Platone (427-347 a. C.) e da
Aristotele: l’uomo deve praticare le virtù per raggiungere il proprio fine, e
l’esercizio delle virtù aiuta a migliorare moralmente l’uomo. Ma se l’albero è
cattivo tutti gli sforzi per sanarlo sarebbero inutili. Anche cercando di
praticare le virtù l’uomo sarebbe comunque mosso da motivazioni egoistiche, e
il richiamo a valori morali sarebbe ipocrita.
Non sarebbe possibile un autentico
amore né per Dio né per il prossimo, e non sarebbe neanche possibile acquisire
dei meriti davanti a Dio. Le azioni che l’uomo compie senza l’aiuto della
grazia non potrebbero essere distinte in cattive, e quindi peccaminose che
devono essere confessate, e buone, le “opere” che invece farebbero acquisire
dei meriti davanti a Dio, ma tutte sarebbero frutti dell’albero cattivo. Questo principio mette in discussione
radicalmente la visione cattolica: se tutte le azioni, le opere, non servono ad
acquisire meriti, la pratica religiosa, le virtù, i voti religiosi e le opere
di misericordia non contribuirebbero alla propria salvezza, anzi, proprio tale
presunzione diminuirebbe la fede in Cristo, l’unico redentore.
La confessione sacramentale alimenterebbe
poi la superbia, l’uomo si arrogherebbe la facoltà di contribuire attivamente,
tra l’altro con la contrizione e successivamente con la penitenza, alla remissione
dei peccati, ciò che sarebbe possibile unicamente per mezzo della grazia divina
che viene concessa gratuitamente. L’uomo quindi vorrebbe mettersi al posto di
Dio e sminuire l’opera redentrice di Gesù Cristo, come se l’agnello di Dio non
fosse stato in grado di togliere tutti i peccati del mondo, ma fosse ancora
necessario un contributo del peccatore.
5. Crisi spirituale e Riforma
Lutero stesso descrive dettagliatamente
la sua crisi spirituale, i suoi scrupoli, lo zelo che non gli dava pace
nell’esame di coscienza per cercare tutti i possibili peccati e che lo spingeva
a impegnarsi nelle opere di devozione, con digiuni e veglie, ma quanto più
cercava di liberarsi dal peccato, tanto più se ne sentiva schiavo, quanto più
si impegnava, tanto peggio si sentiva, arrivando alla disperazione. Lutero si è
persuaso che tutti i suoi sforzi erano vani e che neanche i sacramenti lo
aiutavano. In questa condizione si è
convinto, a causa delle conseguenze del peccato originale e senza l’aiuto della
grazia, di non essere dotato di libero arbitrio, di non poter scegliere tra
bene e male, e quindi se peccare o no, ma di non poter non peccare. Solo la
grazia elargita gratuitamente da Dio lo avrebbe potuto giustificare, mentre
tutte le opere, l’osservanza della Legge, tutte le cerimonie e la maggior parte
dei sacramenti della Chiesa cattolica sarebbero non solo inutili per la
giustificazione, ma distoglierebbero addirittura dalla vera fede. Lutero ha
pensato di trovare in un’interpretazione radicale della contrapposizione tra
carne e spirito, soprattutto nelle lettere di san Paolo, la giustificazione
scritturale per il suo pensiero e, conseguentemente, anche il fondamento per la
sua critica alla Chiesa cattolica.
N.B. Le citazioni di testi di Lutero sono da D.
Martin Luthers Werke. Kritische Gasamtausgabe. Weimarer Ausgabe [in sigla WA
+ n. vol./tomo], 127 voll., Hermann Bohlaus Nachfolger, Weimar 1883-2009;
per brevità sono riportate nel corpo del testo e non in nota.
[1] Wilfried Härle, Einleitung
[Introduzione], in Michael Bayer (a
cura di), Martin Luther. Latein-deutsche Studienausgabe, 3 voll., 2a ed. riveduta, Evangelische Verlagsanstalt, Lipsia
2016, vol. I, Der Mensch vor Gott, pp. XI-XLII (p. XV).
[2] La citazione è la seconda parte del versetto che suona
integralmente: «E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la
mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa».
[3] Cfr. «Chiunque cerca la grazia per mezzo delle opere
crocifigge Cristo. Ogni monaco crocefigge Cristo re, non nella sua persona ma
nel cuore suo e di altri» (WA 40/I, p. 326).
[4] Cfr. De vitiis capitalibus in merito operum et opinione
sanctitatis se efferentibus (WA 1, cit., pp. 70-73).
[5] Cfr. Quaestio de ve viribus et voluntate hominis sine gratia,
in M. Beyer (a cura di), op. cit., pp. 1-17.
[6] Ibid., p. 2.
[7] Ibidem.
[8] Ibid., p. 4.
[9] Ibid., p. 6.
[10] Ibidem.
[11] Ibid., p. 8.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. San Tommaso d’Aquino,
Summa theologiae, I-II, q. 9, a. 4 resp., Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo (Milano) 1988, p. 602.
[14] Cfr. ibid,
q. 9, a. 4 ad 2.
[15] Cfr. «Veramente questo appetito conviene essere cavalcato dalla ragione;
ché sì come uno sciolto cavallo, quanto ch’ello sia di natura nobile, per sé,
sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che
irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, alla ragione
obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono
cavaliere» (Dante Alighieri, Convivio,
4, 24, 6).
[16] Nelle opere di Lutero questa teoria della tendenza concupiscibile
e di quella irascibile compare molto spesso per descrivere il disordine di queste
tendenze tanto verso ciò che attrae quanto verso ciò che provoca istinti
aggressivi. Con amore disordinato verso le cose e ira immotivata.
Dotta dissertazione sull'ideologia di uno psicopatico fobico, etilista, razzista, maniaco sessuale.....Va bene che siamo in regime di 'psichiatria democratica', ma vale proprio la pena di logorarsi il cervello per un soggetto simile con saggi dottrinali piuttosto che con una cartella clinica?
RispondiEliminasemmai Uno psicopatico guarito da un abietto moralismo che fa dell'uomo un essere spregevole non degno dell'amore di Dio.
RispondiEliminaFratello, guarda che anche noi cattolici crediamo che l'uomo non è degno dell'amore di Dio, ma qualcosa di buono siamo pur capaci di farlo, non siamo proprio "spregevoli".... 😁
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