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sabato 31 agosto 2013

Anche in Croazia si ritorna alla S. Messa tradizionale

Da [Associazione SAN GREGORIO MAGNO] http://www.missagregoriana.it/?p=1416
di Michele Poropat

 La piccola chiesa di San Martino a Zagabria, a due passi dalla cattedrale, lo scorso 30 giugno è stata teatro di un avvenimento che non è eccessivo definire storico. Per la prima volta in Croazia da quasi cinquant’anni a questa parte, un novello sacerdote diocesano ha celebrato la sua prima Messa nel Vetus Ordo, la forma liturgica in lingua latina promulgata nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII, e liberalizzata dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Il novello sacerdote si chiama Marko Tilošanec, proviene dalla Diocesi di Varaždin, nel nord-ovest della Croazia (circa 370.000 fedeli), ed è stato ordinato il 22 giugno dal vescovo locale Mons. Josip Mrzljak insieme con altri quattro diaconi. Il giorno dopo la sua ordinazione, il reverendo Tilošanec ha celebrato la sua prima Messa secondo il rito

Convivenza tra le due forme del Rito Romano. Il pensiero di padre Augé

Il blog di Padre Augé Liturgia Opus Trinitatis , ignoto ai più, si fregia del titolo di unico sito internet al mondo che si sforzi di difendere la riforma liturgica (non consideriamo infatti il moribondo sito Vivailconcilio, pur partito tempo fa con la compiacente pubblicità di Radio Vaticana e dei quotidiani episcopali di mezza Europa). 
Di recente è stato pubblicato un breve articolo che contiene un'analisi di p. Augé, sulla convivenza tra le due forme del Rito Romano, dopo 6 anni di attuazione e applicazione del mai troppo "benedetto" Summorum Ponticum.
Prima di leggere il suo scritto, ricordiamo alcune caratteristiche dell'autore e alcune nostre riflessioni.
Padre Augé, è un liturgista di scuola bugniniana. Ed è quindi un fautore della Riforma conciliare e oppositore del Motu Proprio.
A giudicare dai suoi post pacati e riflessivi, egli non sembra però il classico modernista dissennato, per cui ogni avanzata verso una sempre maggiore desacralizzazione, deritualizzazione, distruzione della liturgia, è una conquista da esaltare. No: la sua è la posizione di chi ritiene si debba tornare ad un'applicazione seria e rigorosa del messale di Paolo VI. E riconosce il carattere solo "pastorale" del CVII. Ed è già buono.
Non solo: egli ha l'onestà di riconoscere che il problema liturgico esiste, eccome, nella disaffezione dei fedeli e nella diffusa sciatteria celebrativa. 
Il passo successivo di consapevolezza, che però dubitiamo possa compiere P. Augé, è arrivare alla conclusione che il Messale bugniniano, con le sue mille possibili permutazioni, e complice la natura umana che porta a prediligere le opzioni più povere e semplici, è per suo intrinseco dinamismo, per necessità, destinato ad essere sconciato, come attualmente avviene in molte celebrazioni. E la tendenza è destinata a peggiorare, via via che ci si allontana nel tempo e nella memoria dal modello tridentino da cui  il golem liturgico ha preso (sembianza di) vita.
Per noi "tradizionalisti", il ritorno di un po' di buon senso liturgico nella celebrazione ordinaria è un passo decisivo verso il recupero dell'ortodossia, della fede, del senso religioso. (E' anche con questo auspicio che abbiamo saluto con estremo favore il Summorum Pontificum e la lettera di "accompagnamento").
Per questo non possiamo che condividere alcuni spunti del P. Augé, come l'auspicio che si recuperi "la dimensione orante, l’atteggiamento di adorazione, il clima di silenzio che aiuta ad inoltrarsi nella celebrazione del Mistero".
Certo Augé non comprende perché per ottenere ciò servano latino, comunione in ginocchio, altare orientato, ecc.; ma questo è un limite del cerebralismo disincarnato dei liturgisti della sua generazione: non riescono a capire che l'uomo ha bisogno di segni e simboli concreti, "mistagogici", per assumere la dovuta attitudine interiore (p. Augé, come si può pretendere di recuperare 'l'atteggiamento di adorazione', se il fedele non lo lasciate inginocchiare?).

Quello che P. Augé non riesce o non vuole comprendere, perché obnubilato dai pregiudizi lungamente inculcati contro il vecchio rito, è che il metodo più sicuro per raggiungere il risultato che egli stesso auspica (ossia 'rimettere in carreggiata' il Paolo VI) è precisamente la maggior diffusione possibile della Messa tradizionale. Questa, per osmosi, per imitazione, per contagio, diffonde metodi celebrativi che riescono a riportare anche nella nuova Messa quegli elementi di cui Augé deplora la perdita (adorazione, silenzio, preghiera). Per averne la riprova, bastava vedere come celebrava la nuova Messa Benedetto XVI, o un prete biritualista qualunque.Possibile che un liturgista serio come P. Augé non comprenda che qualche dose di 'antibiotico tridentino' è il migliore puntello per impedire che il Messale di Paolo VI si trasformi ancor più in quella fiera dell'improvvisazione, della confusione dottrinale e della sciatteria che già ora (almeno fuori d'Italia, dove l'impronta tridentina un po' sopravvive ancora) è divenuta la regola?
No... non lo comprende. Basti leggere quello che ha scritto pochi giorni fa sul suo blog, (che riproponiamo). 
Ps. Siamo in sintonia con p. Augé su quanto afferma in coda al suo scritto: non è stato opportuno, nè cattolico, da parte di de Mattei, asserire che la Messa di Paolo VI sia facoltativa: si può certo criticare "costruttivamente", ma non respingere. Se così fosse lecito, allora cinque Papi avrebbero sbagliato a celebrarla?

Roberto


AGGIORNAMENTO al 3 settembre 2013.

Disturbato in ferie per polemiche inesistenti, preciso: 
- 1) questo blog pur prediligendo la Antica Liturgia, sente CUM ECCLESIA e si è sempre riconosciutocome  tradizionale-conciliare, nel senso più cattolico d termine, come il motto testimonia (rinnovamento liturgico della Chiesa nel solco della Tradizione, dove per rinnovamento si intende rinnovare la liturgia nuova -valida e legittima- con iniezioni di quella antica). Come mai solo ora si sollevano critiche? Dove sta lo scandalo? È un peccato auspicare una "cura" tridentina per la Messa NO?
-2) auspicare un miglioramento del messale di Paolo VI grazie ad innesti tridentini, per l'influenza e sotto l'esempio del Messale di Guovanni XXIII è un desiderio di Benefetto XVI , oltre che un'urgenza della Chiesa (quindi non è una nostra invenzione);
-3) in attesa di un ripristino in Toto della liturgia tridentina, l'unica soluzione (nonché l'unica via) è "tridentineggiare", cioè modificare, ieraticcizzare e migliorare quella bugniniana; 
-4) nel nostro post  l'aver auspicato una riforma "benedettiana" della riforma  (perché in pratica di quello si parlava) non significa affatto rinnegare la assoluta, indiscussa e oggettiva bontà del messale antico. Anzi: gli di riconoscono effetti "taumaturgici", come disse il papa Emerito nella lettera ai vescovi nel 2007. il nostro scritto è un auspicio per il male minore in risposta ad un prete "conciliarti sta" ma non estremista con cui , se pur con obiettivi e idee diversi, si condividono preoccupazioni comuni per il bene della Chiesa.


Due forme del rito romano possono convivere? 

di padre Augé, dal suo blog Liturgia, opus Trinitatis, del 19.08.2013



Poblet-2006.jpgFin qui le due forme della liturgia romana hanno litigato. Possono coabitare in pace? Il recente commissariamento dei Frati Francescani dell’Immacolata con Decreto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica dell’11 luglio 2013, in cui si decideva, tra l’altro, che i suddetti Frati per celebrare la liturgia nella forma straordinaria dovevano essere esplicitamente autorizzati dalle competenti autorità, ha provocato una forte reazione nel mondo tradizionalista legato al Vetus Ordo. Diversi esponenti di questo mondo hanno gridato allo scandalo e hanno invitato alla resistenza…
Alla luce di questi eventi e dopo sei anni e passa dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum, viene spontanea una domanda: la situazione attuale del rito romano con due forme rituali, ordinaria e straordinaria, è destinata a consolidarsi o è una situazione temporanea in attesa del ritorno ad una sola forma rituale?
Non esistono statistiche ufficiali per poter valutare la consistenza numerica e la collocazione geografica dei gruppi legati alla forma straordinaria del rito romano. C’è però l’impressione che il fenomeno pur essendo fortemente minoritario conosce un qualche esito tra i giovani. E’ quindi giusto domandarsi sulla possibilità o meno di un’eventuale e lunga coabitazione delle due forme celebrative.
La storia della liturgia dimostra che, in genere, le diverse tradizioni liturgiche nascono e si consolidano in un determinato ambiente geografico ed ecclesiale. L’origine delle liturgie orientali è strettamente legata allo sviluppo delle sedi patriarcali. I diversi riti hanno il sapore della terra dove sono nati e sono portatori della storia di una Chiesa locale. Anche in Occidente, le liturgie ambrosiana, ispano-visigotica e un po' meno quella gallicana hanno avuto uno sviluppo simile.
La liturgia romana ha una storia un po’ diversa. C’è una prima fase, che possiamo chiamare “classica”, in cui questa liturgia è strettamente legata nelle sue caratteristiche alla città di Roma. Nei secoli VIII/IX l’impero franco-germanico importa, copia e trasforma la liturgia romana aggiungendovi degli elementi locali. Nel secolo X questa liturgia ritorna all’Urbe e viene accolta con molteplici elementi franco-germanici. Dal secolo XI al XVI, la liturgia romana(-franco-germanica) è celebrata con diverse modalità locali nei paesi dell’Europa occidentale. Infatti, non c’è un’autorità centrale come la Congregazione dei Riti postridentina. Solo dopo Trento, viene imposta l’uniformità liturgica con qualche eccezione.
Oggi, alcuni fautori della pluralità rituale, e quindi della coabitazione delle due forme rituali del rito romano, guardano con interesse alla situazione della liturgia nei secoli anteriori a Trento in cui c’era un certo pluralismo rituale. Noto però che si trattava sempre di un fenomeno “localizzato”: su una base sostanzialmente comune, le diverse Chiese locali si esprimevano con una certa libertà rituale. Invocare questa situazione per difendere l’attuale pluralità di forme rituali del rito romano è fuori posto.
La normativa del Motu proprio Summorum Pontificum introduce una situazione inedita storicamente e problematica pastoralmente per diverse ragioni:

1. In primo luogo, c’è la Costituzione Sacrosanctum Concilium che prescrive una riforma della liturgia romana “tridentina”, quella che i Padri conciliari conoscevano e celebravano. Conservare l’uso dei libri liturgici che sono stati “presi di mira”  (passi l’espressione) dai Padri conciliari è un fenomeno quanto mai anomalo, anzi per certi versi patologico. Il Concilio Vaticano II, pur avendo uno spiccato carattere pastorale, è un’espressione solenne del Magistero ecclesiale, che non può essere disattesa.

2. In secondo luogo, introdurre nel seno delle stesse parrocchie e diocesi due diverse forme rituali con calendari diversi, ecc. che ciascun fedele può scegliere secondo il proprio piacere, rende alla lunga difficile una vera pastorale unitaria. Benedetto XVI nella Lettera ai vescovi che accompagna il Motu proprio prevedeva l’arricchimento della forma straordinaria con l’inserimento di nuovi santi e nuovi prefazi… Passati più di sei anni, non si è fatto nulla perché si tratta e si tratterà sempre di un rompicapo per qualsiasi commissione di esperti che si prefigga questo compito: quali santi, con quali testi, in quale data... e con quali criteri…?

3. Una soluzione già attuata in alcune parti è la creazione di parrocchie personali per i frequentatori della forma straordinaria. A prima vista, in questo modo si osserva il tradizionale legame tra rito e comunità locale. E’ una soluzione però che non soddisfa tutti perché si tratta di fedeli che sono dispersi nelle diverse parrocchie e vivono talvolta a parecchi chilometri di distanza dalla sede della parrocchia personale. Inoltre, la moltiplicazione di diocesi, prelature e parrocchie personali richiederebbe un’attenta valutazione alla luce di una sana ecclesiologia perché si corre il rischio di creare ghetti, non comunità ecclesiali.

4. Secondo alcuni esponenti del mondo tradizionalista, una soluzione potrebbe essere la cosiddetta “riforma della riforma”, intesa (nel migliore dei casi) come un avvicinamento tra le due forme rituali creando in questo modo un rito che dovrebbe accogliere le decisioni fondamentali del Vaticano II (che però essi interpretano tal volta in modo minimalista). Quindi la nuova forma rituale non si dovrebbe allontanare troppo dai libri tridentini, cioè dovrebbe essere in “continuità” con essi (come amano dire coloro che propugnano questa soluzione). Noto che nella galassia tradizionalista, la Costituzione Sacrosanctum Concilium più che interpretata viene non di rado criticata, o, in parte, addirittura ignorata. Bisogna, poi, tener conto, dell’area dura e pura del tradizionalismo che vuole conservare i libri anteriori al Vaticano II senza cambiamenti di rilievo, o al più con qualche leggero ritocco formale. Come ho detto altre volte, una simile operazione potrebbe complicare ancora di più la situazione attuale creando tre gruppi contrapposti: coloro che accettano la riforma della riforma; coloro che rimangono fedeli ai libri anteriori al Vaticano II; coloro che continuano a celebrare coi libri riformati dopo il Vaticano II.

Non ho contemplato delle soluzioni “autoritarie”, in un senso o nell’altro, che pur alcuni propongono. Ad esempio, si direbbe che quando autorevoli esponenti del mondo tradizionalista, come in questi ultimi giorni Roberto de Mattei, Francesco Colafemmina, Maria Pia Ghislieri e altri parlano della forma straordinaria come della Messa tradizionale, della Messa di sempre, del rito millenario della Chiesa cattolica canonizzato dal concilio di Trento, di un rito che risale alla tradizione apostolica,… hanno fatto già una scelta di campo (ideologica) a favore esclusivo della forma straordinaria del rito romano fino ad arrivare a dire che “la Messa di Paolo VI è facoltativa e in quanto tale la si può criticare e respingere”.. Ho scritto queste righe cercando di tener conto delle diverse sensibilità, ma al tempo stesso ho sottolineato le “oggettive difficoltà” che, a mio avviso, comporta una lunga coabitazione delle due forme rituali. Se qualcuno ha altre soluzioni da proporre si faccia avanti… con argomenti!

Matias Augé
 *
Un lettore di p. Augé, a glossa dell'articolo sopracitato, ha indicato quale sarebbe, quindi, la conseguente, unica e migliore ricetta per ottenere un risultato ottimale (che manco a dirlo comprenderebbe l'abolizione del Motu Proprio e l'esautoramento dell'Ecclesia Dei.
Ecco il piano programmatico: 
 La soluzione migliore sarebbe la seguente:
a) ripristinare il regime di indulto, che ripristina l'unico rito vigente e la competenza episcopale;
b) lavorare accuratamente sui limiti della Riforma Liturgica, non in "regime parallelo", ma dall'interno dell'unico rito vigente;
c) Prendere atto che lefebvriani e affini non sono ancora maturi per riconoscere il loro errore e per riconciliarsi con la Santa Sede. L'ultimo documento di giugno, firmato dai tre Vescovi, è la pietra tombale sul tentativo di riconciliazione promosso da Benedetto XVI.
Non vi è alcun dubbio che questa posizione, che ripeto è l'unica a non cadere nelle spire di una lettura ideologica dell'ultimo 50ennio, ha bisogno di qualche tempo per poter essere realizzata. E passa necessariamente per l'esautoramente di quella Commissione Ecclesia Dei, che negli ultimi 6 anni aveva più volte scavalcato le competenze di Congregazioni Vaticane, facendo da "parafulmine" per fenomeni devianti come i Frati della Immacolata.

venerdì 30 agosto 2013

"Se tocchi la Messa crolla il Papato (Radicati nella fede)




SE TOCCHI LA MESSA CROLLA IL PAPATO

  Gran parte del cattolicesimo cosiddetto “conservatore” sta commettendo un errore gravissimo: per salvare ciò che resta della presenza cattolica nel mondo, per rendere più forte la missione della Chiesa nella società secolarizzata, per tentare un sussulto di orgoglio cattolico di fronte alla stanchezza dilagante di molti settori ecclesiali, sta puntando tutto sul Papa. Inoltre gestisce questa attenzione sul Papa esattamente come fanno giornali, televisione e siti internet, che esaltano la figura umana del pontefice sottolineando con orgoglio l'attenzione popolare sulla sua persona. Si comportano esattamente come fa il mondo senza fede o non preoccupato della fede, che parla dei raduni oceanici intorno al vicario di Cristo, dei suoi gesti eclatanti, delle scelte controcorrente che sembra fare.

 No, non è dal Papa che occorre partire, per salvare la vita cattolica tra di noi, non è proprio dal Papa, bensì dalla Santa Messa, dalla Santa Eucarestia.

 Per spiegarci ricorriamo ad un autore spirituale tra i più importanti del '900, Dom Chautard, abate della Trappa di Sept-Fons. In un suo testo in cui spiega la vocazione cistercense, Les cisterciens Trappistes, l'ame cistercienne, ad un certo punto l'abate benedettino racconta di un suo colloquio con il primo ministro francese Clemenceau, il famoso “Tigre”. Si era negli anni delle soppressioni degli ordini religiosi, e Dom Chautard era incaricato del delicato compito di salvare la presenza monastica in Francia. Così si trovò a colloquio con il radicale e anticlericale “Tigre”.

 Crediamo molto utile tradurre e trascrivere ciò che l'abate riferisce del loro parlare:

 “Mi accingerò - è Dom Chautard che parla a Clemenceau - a rispondere alla vostra domanda: Che cos'è un Trappista? Perché vi siete fatto Trappista? E per non allargarmi oltre misura, mi accontenterò di questo argomento: una religione che ha per base l'Eucarestia, deve avere dei monaci votati all'adorazione e alla penitenza.

 “L'Eucarestia è il dogma centrale della nostra religione. Lo si è chiamato il dogma generatore della pietà cattolica.

 “Non lo è il papato, come sembrate credere.
 “Il papato non è che il porta parola di Cristo. Grazie ad esso i fedeli custodiscono intatto il dogma e la morale insegnata da Gesù Cristo. Esso è la protezione che ci mantiene sulla strada tracciata in modo preciso dal nostro divino fondatore. Ma è solo Cristo che resta Via, Verità e Vita.
 “Ora, il Cristo non è un essere scomparso dove non sappiamo, né un essere lontano al quale pensiamo. Egli è vivente; abita in mezzo a noi; è presente nell'Eucarestia. Ed è per questo che l'Eucarestia è la base, il centro, il cuore della religione. Da là parte ogni vita. Non da altrove.

 “Voi non ci credete. Ma noi ci crediamo, noi. Crediamo fermamente, risolutamente, nel fondo del nostro essere, che nel tabernacolo di ognuna delle nostre chiese, Dio risiede realmente sotto l'apparenza dell'Ostia.

 E' chiaro, il dogma centrale del cristianesimo è la Santa Eucarestia, tutto parte da lì, non da altrove... e se diminuisce la fede nel dogma centrale, nella Santa Eucarestia, tutto crolla nel cristianesimo, nella Chiesa. E non è stato forse così in questi anni? Pensiamo alle nostre chiese, con dentro Cristo “abbandonato”. Si è fatto di tutto per nascondere il tabernacolo, e quando non lo si è nascosto in qualche antro secondario, con la scusa che lì i fedeli avrebbero adorato meglio, quando lo si è lasciato centrale nella chiesa, lo si è coperto con tutto e di più: con i tavoli per celebrare la nuova Messa e con tutto un ciarpame di cose che rivelano solo, oltre il cattivo gusto, il disordine mentale del cattolicesimo di questi anni, che non ha certo fatto dell'Eucarestia il dogma centrale della fede. Pensiamo alla quasi scomparsa nelle chiese della genuflessione e del raccoglimento: in chiesa bisogna custodire il silenzio, sempre, perché Dio è presente nel tabernacolo: è Lui che fa vera la nostra preghiera, e non il nostro agitarci e il nostro fare baccano.

 Ma Dom Chautard nel suo lungo discorso a Clemenceau, arriva a parlare della Messa, ascoltiamolo:
 “La Messa, è il sacrificio divino del Calvario che si riproduce ogni giorno in mezzo a noi. Tutti i giorni, il Cristo offre a Dio la sua morte per le mani del prete, esattamente come in cielo nella Messa di gloria egli presenta a suo Padre le cicatrici gloriose delle sue piaghe per perpetuare l'efficacità redentrice della croce. Tutti i giorni, alla Messa, il Cristo rinnova l'opera immensa della redenzione del mondo.

 “E a questo avvenimento, il più grande che possa accadere sulla terra, più importante che il rumore degli eserciti, più salutare che la più feconda delle scoperte scientifiche, voi pensate che potremmo assistervi senza un fremere di tutto il nostro essere... non ci si abitua alla Messa. O allora che sarebbe la nostra fede?
(…) All'Amore crocifisso, noi cerchiamo di rispondere con un amore crocifiggente... Voi vi scandalizzate del nostro genere di vita; lo trovate contro natura. Sì, lo sarebbe se noi non avessimo la fede nell'Eucarestia. Ma crediamo al divino Crocifisso e l'amiamo; e vogliamo vivere come lui, noi che per la comunione partecipiamo alla sua vita.

 Carissimi, ma è ancora questa la fede realmente vissuta nella maggioranza delle nostre chiese. La Messa è ancora intesa così? Come il sacrificio divino del Calvario? Chi parla con questa chiarezza della Messa? Al di là dei cosiddetti “tradizionalisti”, c'è ancora qualcuno che si esprime in questo modo parlando dell'Eucarestia?

 È avvenuto uno spaventoso mutamento nella fede e nel vissuto di quasi tutti i cattolici, e si chiama protestantizzazione: come dicevano i Cardinali Ottaviani e Bacci a Paolo VI nel loro Breve esame critico: “il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.”

 Anche qui è ribadito ciò che è stato detto da Dom Chautard: il centro del cattolicesimo è l'Eucarestia, è la Messa; il Concilio di Trento fissando definitivamente i canoni del rito aveva eretto una barriera per salvare l'integrità del magistero...

 Così è drammaticamente avvenuto che toccando i canoni del rito tutto è andato insieme, nulla sta più in piedi nel “nuovo” cattolicesimo. Martin Lutero lo aveva detto, non perdete tempo ad attaccare il papato, combattete la Messa cattolica e il papato crollerà con essa.
 Per questo, per amore alla Chiesa tutta, della sua dottrina e della sua disciplina, per amore del Papa Vicario di Cristo in terra, siamo chiamati semplicemente a custodire il rito della Messa così come fissato da Trento e da San Pio V. Non c'è nulla di più urgente perché la Chiesa, il Papa, possano vivere.

Jean Madiran (1920-2013) - in memoriam

Da Romualdica:
 [Il 31 luglio 2013 è morto il pensatore e scrittore cattolico francese Jean Madiran (1920-2013), al secolo Jean Arfel, oblato benedettino dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux con il nome di fr. Jean-Baptiste. In prossimità del trigesimo, trascriviamo di seguito la nostra traduzione dell’omelia pronunciata nel corso del funerale – svoltosi il 5 agosto 2013, presso la chiesa Notre-Dame des Armées, a Versailles – da Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Abate del monastero di Le Barroux.] 

Signori Sacerdoti, 
Signori Canonici, 
Cari Padri, 
Carissima Michèle,
Cara famiglia Arfel, 

 San Bernardo diceva in un’omelia che gli occhi sono quanto di più eccellente vi sia nel corpo, malgrado la loro piccolezza. Diceva questo pensando alla visione beatifica. Avrebbe potuto dirlo anche vedendo gli occhi di Jean Madiran, perché egli aveva degli occhi eccezionali. Non solo in ragione del loro fascino, gioiosi e scoppiettanti – uno sguardo infantile –, ma anche per quel timore reverenziale che si provava davanti all’acutezza del suo sguardo. Jean Madiran era fatto per la luce, ma era anche un uomo che illuminava, senza compromessi. Ben presto si è rivolto verso la luce. Giacché prima di diventare un maestro, come lo hanno salutato in numerosi omaggi – fra cui quelli di Philippe Maxence,

Frati F.I. di Firenze, a Ognissanti: riprenderà regolarmente la Santa Messa da domenica prossima


FONTE:
Dal Coordinamento Toscano Benedetto XVI apprendiamo la bella notizia che : 

"... la richiesta formulata dai Frati francescani dell'Immacolata di Firenze per il ristabilimento della S. Messa in rito antico è stata accolta dal commissario apostolico p. Fidenzio Volpi. 
Le celebrazioni ripartiranno nella Chiesa di S. Salvatore in Ognissanti, da domenica prossima, primo settembre, alle ore 12 e avranno la stessa cadenza prevista in precedenza, ossia Domenica e festivi, ore 12 Feriali, ore 8 ...
La chiesa di S. Salvatore è a poche centinaia di metri a piedi dalla stazione ferroviaria di Firenze Santa Maria Novella".

A.C.

Risposta di Rino Cammilleri a Vittorio Feltri sul Papa

di Rino Cammilleri (da Basta Bugie, http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=2906 )

 L'ultimo di luglio mandai questa "risposta" a un articolo di Feltri sul «Giornale». Ma la condanna di Berlusconi ne impedì la pubblicazione per mancanza di spazio. 

 IL PAPA DE NOANTRI 

 Caro Vittorio, hai fatto bene, il 31 u.s., a elogiare lo stile semplice e alla mano del nuovo papa. In effetti, la tua simpatia è condivisa da un sacco di gente del Terzo Millennio. Tuttavia, la tua tirata sui «papi di prima» mi ricorda quella canzone di Luigi Tenco che faceva: «Signor curato, hai detto che la chiesa è la casa dei poveri, però l'hai rivestita di tende d'oro e marmi colorati; come fa il povero a sentirsi come a casa sua?». Nella sua demagogia marxistico-sessantottina il cantautore suicida avrebbe voluto che il povero trovasse pure in chiesa lo squallore di casa sua, così da dover tenere il muso sempre chino nel brago senza mai portarlo alzare al cielo, a quello splendore che attende nell'Altra Vita gli sfortunati di Questa e di cui lo sfarzo delle chiese era figura (segno, promessa, speranza). 
Ma tu, pur non credente come ti dichiari, sei indenne dal qualunquismo materialista Anni Settanta, perciò lo sai bene che la Regina d'Inghilterra si presenta, tutt'oggi, al Parlamento con la corona (e che corona!) in testa, lo scettro, lo strascico e i paggi. E gli inglesi, che non sono certo baluba, sanno perfettamente distinguere tra l'ottantenne Elizabeth Windsor e il Capo del Commonwealth nonché della Chiesa d'Inghilterra. Tu dirai che stiamo parlando di un regno millenario che è stato anche l'impero più vasto della storia. Sarebbe facile rispondere che la Chiesa Cattolica è bi-millenaria, e che il suo Capo è anche Pontefice, cioè ha ereditato la carica suprema che fu dell'Imperatore Romano, il che ci porta indietro di un ulteriore millennio.
Ma se non ti piacciono i re e le monarchie, va a vedere nella capitale americana (una repubblica che ha solo due secoli) l'enorme affresco non a caso intitolato «Apoteosi di George Washington», opera dell'italiano Brumidi e ricoprente la volta del Capitol (i.e. Campidoglio, perché gli americani ci invidiarono fin da subito Roma e la sua storia), in cui il primo presidente statunitense (che non era neppure nobile, però vestiva come un sovrano europeo e portava una dentiera fatta coi denti di schiavi negri) è raffigurato mentre sale nell'Empireo circondato da tutte le divinità dell'Olimpo.
Tu trovi ridicole le scarpe rosse dei papi prima dell'attuale e dici che se ti presentassi in redazione con calzature del genere tutti sghignazzerebbero. Tuttavia, io stesso ho visto in redazione seri giornalisti con gli occhiali rosso magenta, alla Mughini, e pantaloni dello stesso colore, alla Lerner. Perché dovrebbero ridere solo per un paio di scarpe? Eppure dovresti saperlo che l'abito del papa ha colori simbolici: il bianco della «veste della follia», con cui Erode rivestì Cristo, il rosso della porpora di cui Gesù fu coperto (colore del sangue ma anche regale, perché Cristo è il Re dei Re). I preti vestono di nero per distinguersi come persone consacrate e i cardinali di rosso per indicare la disposizione al martirio. Dirai che sono cose superate, cose da Medioevo, cose dei tempi in cui l'abito faceva il monaco e costituiva una «card» di presentazione (gli aderenti a una corporazione dovevano portarne l'abito, come si vede nei ritratti di Dante, che faceva lo speziale).
Tuttavia, ancora oggi i militari e i poliziotti vestono un abito speciale, e così i magistrati. Perfino i commessi di McDonald's ne hanno uno, e nessuno ci trova nulla di strano.
I segni e i simboli sono importanti, come non si stanca di ripetere nei suoi romanzi-bestseller planetari Dan Brown, anche se la gente non li capisce più (ma basterebbe spiegarglieli). Per questo san Pio X dietro al letto «da papa» nell'appartamento vaticano si fece approntare un pagliericcio, nel quale effettivamente dormiva. Un altro papa santo, Pio V, sotto le vesti pontificali portava il rozzo saio francescano
[in realtà era domenicano; n.d.r.] , che non tolse mai (potrei moltiplicare gli esempi, ma mi manca lo spazio). Però in giro si faceva portare sulla sedia gestatoria, quel palanchino che tu trovi ridicolo. Reggere il quale era un onore riservato solo ai gentiluomini più nobili di Roma, che non erano certo dei poveracci costretti alla faticata. Perfino il «predecessore d'immagine» di papa Francesco, il beato Giovanni XXIII, lo usava, con tanto di flabelli piumati attorno. Ed era il «papa buono», uno che «parla come mangia», adorato dalle folle per la sua bonomia. Tuttavia, il popolo sapeva bene che su quella sedia sopraelevata non c'era Giuseppe Roncalli, bensì il Vicario di Cristo, Cristo Re, Re dei Cieli, sì, ma anche dell'umanità pellegrina sulla terra.
Così come la gente, anche la più umile, sa bene che l'immaginetta che sta baciando è solo «figura» della Madonna, dei Santi, di Gesù.
Un papa «vecchio stile», come Pio XII, non esitò a sporcarsi di sangue tra le macerie dei bombardamenti di San Lorenzo, e il popolo romano non a caso si rivolse a lui, il più ieratico dei papi, quando tutti gli altri erano scappati.
Certo, un papa «d'immagine» è quel che serve ai nostri tempi, e Francesco sembra averlo capito.
Tuttavia, compito primario del Vicario di Cristo è convertire la gente, non essere simpatico a tutti i costi.
A te sta simpatico, bene. Ma non mi pare che ti abbia convertito. Comunque, la Grazia usa vie misteriose, e chissà che, tramite il «papa simpaticone», non si infili anche nel tuo cuore.

Novus Horror Missae: la stola moderna

Pontificale...

dal Sito Pius .info

AGGIORNAMENTO AL 3 settembre 2013

Ci scrive un lettore svizzero, che ha partecipato all'ordinazione   sacerdotale (cui la foto fa riferimento -!!!-) e  rimprovera MIL di superficialità, dicendo che non si tratta di stole ma di realizzazioni fatte dai bambini. Bella catechesi, Se questo sono i frutti!! 
Lo ringraziamo ma lo vediamo pure noi che questa "realizzazione" è posta sopra la casula e quindi non funge da insegna sacerdotale in senso stretto, ma ha la foggia di "stola". (E il fatto che sia stata regalata

Biancavilla : la figlia di Santa Giovanna Beretta Molla per l’Anno della Fede

Biancavilla ( Catania )
In occasione della grande festa estiva in onore della Madonna dell’Elemosina, Patrona della cittadina etnea, è stata esposta solennemente nella Basilica Santuario l’antichissima icona portata nel XIV secolo dai profughi albanesi fuggiti dalla loro patria a dopo l’invasione e la persecuzione degli islamici.
Il Parroco della Collegiata Basilica Santuario Canonico Agrippino Salerno ( che tutto "investe" nella Liturgia e nella Carità ) e l’Associazione Mariana “Maria SS. dell’Elemosina” in questo Anno della Fede hanno impresso alla festa estiva un significato tutto particolare invitando il 23 agosto scorso la Dott.ssa Gianna Emanuela Molla, figlia di Santa Giovanna Beretta Molla, “ nata dall’ultimo respiro della madre” a tenere una Conferenza sul tema : “Solo l’amore è credibile”.
Parlando nella chiesa stracolma di fedeli, di sacerdoti e di religiosi  l'ultima figlia di Santa Giovanna Molla ha sottolineato che " l'amore è lo specifico della fede cristiana e che si esprime nella vita di tutti i giorni”.
Ha scritto il Dott. Alessandro Scaccianoce dell'Associazione Mariana : “ L’amore… non può dirsi a parole (come direbbe Dante “Ben poco ama colui che può esprimere a parole quanto ami”). 
L’amore si contempla; l’amore è bellezza. 
Lo ha spiegato chiaramente Gianna Emanuela Molla, che venerdì sera è stata in Santuario per rendere la testimonianza della sua Santa mamma: Santa Gianna Beretta Molla, una vita spesa nell’amore per il Signore, per il marito Pietro, per i figli e per i suoi pazienti. 
La testimonianza di Gianna Emanuela – per la prima volta in Sicilia dopo la canonizzazione della Mamma – ha toccato il cuore dei molti presenti, alcuni venuti da Caltanissetta, da Enna e persino da Palermo. 
Nel racconto della vita ordinaria di Santa Gianna è stato possibile cogliere la bellezza della santità, di una santità ordinaria che rende la vita piena di amore, degna di essere vissuta. 
Una santità alla portata di tutti, ha spiegato la figlia, possibile per tutti. 
Il segreto della felicità, per Santa Gianna, era “vivere momento per momento e ringraziare il Signore per ogni circostanza”: anche di fronte alla malattia, che ha compromesso la sua vita. 
Tuttavia dal suo sacrificio è scaturito un fiume immenso di carità e di amore alla vita. 
Dappertutto, infatti, fiorisce la devozione a questa Santa mamma, che insegna come sia possibile anche oggi vivere i valori della vita e dell’amore come dono di sè. 
A suggello di questa splendida serata, Gianna Emanuela ha donato alla Basilica Santuario una preziosissima Reliquia della sua mamma: si tratta di 11cm di pizzo dell’abito indossato per la prima Comunione da Santa Gianna Beretta Molla. 
Siamo certi che questo ricordo speciale di Santa Gianna porterà sulla nostra comunità ecclesiale ulteriori grazie e benedizioni, particolarmente per le nostre famiglie”.
Il Santuario Basilica di Biancavilla vanta un organizzatissimo gruppo liturgico ( cerimonieri, ministranti, cantori, organisti e persino violinisti ) straordinariamente affiatato e preparatissimo in ambedue le forme del rito romano .
La preghiera e il decoro liturgico caratterizzano il comune impegno ai piedi dell’altare di tanti giovani che Sabato 24 agosto hanno rinnovato l’Atto di consacrazione al Cuore Immacolato di Maria di tutti i membri.
Auguriamo agli amici della santa tradizione della Chiesa di essere ospitati dai devoti e dinamici gruppi liturgici siciliani.

Ad Jesum per Mariam”

A.C.



Foto : 

- la Dott.ssa Gianna Emanuela Molla “ nata dall’ultimo respiro della santa mamma” con il Parroco-Prevosto e il Presidente dell'Associazione Mariana 
- la locandina realizzata dai giovani dell'Associazione " Santa Maria dell'Elemosina "

giovedì 29 agosto 2013

Frati F.I. Alla vigilia delle Professioni perpetue... l’invito di P. Volpi all’ammutinamento


               
     L’invito di P. Volpi all’ammutinamento
              e la nostra supplica ai Francescani dell’Immacolata
                    di Cristina Siccardi da Riscossa Cristiana 28 agosto 2013




Suora«Istigazione all’ammutinamento», questo, in forma implicita, ma chiarissima, il messaggio che emerge dal primo documento pubblico del Commissario apostolico, Padre Fidenzio Volpi O.F.M.Cap., incaricato dalla Sacra Congregazione dei Religiosi di commissariare l’ordine dei Francescani dell’Immacolata.
Si tratta di un documento – uscito oggi sul sito ufficiale dei Francescani dell’Immacolata – di grande importanza, visto che pare anticipare e, comunque, è informato alla medesima mentalità che produrrà le decisioni sul destino dell’Ordine, decisioni che il Commissario renderà note il 30 agosto p.v. La lettera, datata 31 agosto 2013, giorno in cui si terranno le professioni perpetue dell’Ordine, è rivolta ai «Carissimi giovani» che pronunceranno i voti in quel giorno, e ha l’obiettivo, benché lo stile sia ammantato di paternità,  di porre in chiaro ai prossimi membri religiosi l’insanabile contrasto fra il Commissario stesso, che pretende di incarnare tutto il potere della Chiesa, ed il fondatore, Padre Stefano Manelli. Citando Hans Urs von Balthasar (1905-1988)[1], si cerca di mettere i figli contro i padri, con un sistema che ricorda quello sovietico, contrapponendo l’autorità di questi a quella dei commissari del potere, autorità quest’ultima presentata come sempre ed indiscutibilmente superiore, ai limiti dell’infallibilità:
«Il teologo Von Balthasar in un saggio sulla spiritualità (Verbum Caro) sosteneva che quando una realtà religiosa ed ecclesiale si preoccupa essenzialmente di distinguersi dagli altri ponendo le proprie convinzioni come unica eccellenza a cui fare riferimento, è segno di una chiusura che non può che danneggiare il futuro stesso della Chiesa. Come potrebbe esserlo, aggiungo io, una certa confusione tra i fini ed i mezzi, per cui i testi, i suggerimenti, gl

La liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità

Da Romualdica

 Sapete di quali tesori siete depositari? Alla fine del secolo VI, nel momento in cui l’Impero romano in piena decadenza passa il testimone della cultura al mondo cristiano, la Chiesa è in possesso dei più bei gioielli del suo tesoro liturgico, tra i quali bisogna contare le preghiere del Messale e specialmente le ammirevoli collette che precedono la lettura dell’Epistola. Charles Péguy scopriva con stupore che c’è un santo per ogni giorno; dovete inoltre sapere che ogni giorno c’è una preghiera destinata a guidare i vostri passi sulla via stretta. Queste preghiere, cesellate da anni di fede da mani fini e sapienti, dovete saperle a memoria, studiarle e meditarle, perché vi si trova lo spirito incorrotto del cristianesimo contenuto sotto forma di massime scolpite nel bronzo, e non c’è niente di più adatto da mettere in pratica come le alte certezza dell’anima: queste preghiere sono regole di vita. Il nome di colletta è stato dato alla preghiera che introduce le letture della Messa e che ritroviamo a conclusione di tutte le ore canoniche, poiché era recitata davanti ai fedeli, riuniti all’inizio della Messa. La secreta (preghiera sulle offerte) e il postcommunio devono il loro nome al posto che occupano nel dramma del sacrificio eucaristico. La colletta, come il prefazio, era un tempo improvvisata dal celebrante, quando sant’Ambrogio e sant’Agostino — in un’estasi comune — alternavano per la prima volta ut fertur, i versetti del mirabile Te Deum. Poi lo Spirito santo fissò divinamente la giovane preghiera della Chiesa come l’età matura fissa i tratti dell’infanzia. In alcune raccolte di orazioni erano conservati i brani meglio riusciti, e vi si possono riconoscere le preghiere dovute a san Leone Magno grazie alla perfezione del ritmo e al rigore del pensiero: la regola salvò l’ispirazione fissandone l’eccellenza. Ai nostalgici della Chiesa delle origini, in preda al creativismo, messa da parte la loro incredibile pretesa, rispondiamo che si può essere bambini solo una volta nella vita. Per fortuna, oggi, grazie alla pietà delle generazioni passate che ci hanno trasmesso questi gioielli della nostra liturgia, se un giovane barbaro entrasse in una chiesa per ascoltare una Messa, sarebbe messo direttamente in comunicazione con il pensiero di un Padre della Chiesa del secolo IV. Secondo un’usanza molto antica, il celebrante invita la comunità al raccoglimento con l’avvertimento solenne del Dominus vobiscum. «Il Signore sia con voi!», dopo di che i fedeli rispondono: «E con il tuo spirito». Il Signore dev’essere con il sacerdote per renderlo degno di esprimere i voti della comunità. Dev’essere con i fedeli per renderli attenti alla preghiera. Il sacerdote prega allora ad alta voce, o canta, la colletta con un tono recitante nel quale solo due note sposano la forma letteraria propria delle orazioni del Messale che si chiama cursus. Parleremo più avanti di questa forma letteraria destinata a sottolineare lo svilupparsi del pensiero. Molto presto, senza dubbio sin dal secolo IV, si fecero delle raccolte di preghiere che costituiscono la ricchezza del nostro patrimonio liturgico. Alla fine del Messale troverete delle collette che si possono aggiungere, secondo i bisogni, alla preghiera del giorno. Sono le orazioni per casi particolari: per domandare la pioggia, per allontanare la tempesta, per difendersi dal demonio, per domandare la pazienza, la castità, nonché quella meravigliosa orazione per domandare la grazia del dono delle lacrime: pro petitione lacrymarum. «O Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fonte d’acqua viva per il popolo assetato, strappa dalla durezza del nostro cuore lacrime di compunzione: affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per la tua misericordia, la loro remissione». Verrà un giorno nel quale alla Sorbona saranno difese tesi di laurea sulla bellezza letteraria delle preghiere della Chiesa? Il Breviario, il Messale, il Processionale contengono una quantità di orazioni straordinarie per eleganza di stile, penetranti e profonde per pensiero. Le nostre collette sono tra le testimonianze più antiche della pietà della Chiesa primitiva; esse sono sopravvissute a lente trasformazioni della liturgia e risultano di considerevole interesse. Due caratteristiche meritano di essere sottolineate: la ricchezza dottrinale e il valore pedagogico. Ricchezza dottrinale Il campo della liturgia costituisce in sé un «luogo teologico» di una ricchezza inesauribile, una specie di rete di verità dottrinali sparse, non ordinate sistematicamente. Péguy diceva bene quando affermava che la liturgia è una «teologia distesa». Quando il canto dell’Exsultet, sgorgante di poesia, si eleva nella notte pasquale, il dogma della Redenzione illumina le menti di un bagliore proprio che non è altro se non lo splendore del vero: l’Exsultet, il Lauda Sion, il Dies Irae sono dogmi cantati che infondono direttamente nell’anima luce e amore. Dom Guéranger diceva che «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità»; un’affermazione che all’epoca suscitò qualche stupore. I materiali che servono agli artigiani della teologia speculativa sono contenuti nella Preghiera della Chiesa, come quelli nelle cave di pietra che servono per la costruzione del Tempio: è in questo tesoro che attingono i teologi di tutti i tempi per illustrare e affermare il dogma. Padre Emmanuel André, abate di Notre-Dame de la Sainte-Espérance, trovava la dottrina della grazia nelle orazioni del Messale. Queste preghiere risentono delle lotte dottrinali del secolo IV, minacciato dall’eresia pelagiana; Pelagio minimizzava le conseguenze del peccato originale e ignorava la necessità della gratia sanans, ossia la grazia che guarisce. L’eresia pelagiana è una delle forme correnti di naturalismo che si ripresenta in ogni epoca. Padre Emmanuel non voleva contrapporre tesi a tesi; costruiva la sua teologia della grazia nel solco della preghiera della Chiesa. Le orazioni lo aiutavano a mettere in luce l’assoluta necessità della grazia divina nell’ordine della salvezza. È una perfetta spiegazione della lex orandi che stabilisce e fissa la lex credendi. Ricorderete che recentemente abbiamo ricevuto un esponente dei pentecostali: non abbiamo avuto difficoltà a provargli la novità inquietante di una preghiera che s’indirizza esclusivamente alla terza Persona, sottolineando il carattere trinitario delle nostre collette, che si elevano al Padre, mediante il Figlio, nello Spirito. La stessa orazione della festa di Pentecoste espone questo modo di preghiera: la sequenza della Messa — una specie di effusione libera che s’indirizza al solo Spirito santo — dev’essere considerata come una glossa del versetto alleluiatico; la colletta resta trinitaria. «Nihil inovetur nisi quod traditum est». Ecco ciò che insegnano le preghiere liturgiche. Ci istruiscono sulla Maestà di Dio, sull’abisso della nostra miseria, sul modo di comportarci davanti a Dio e di come indirizzare a Lui le nostre richieste per essere esauditi. Valore pedagogico La liturgia è anche — e soprattutto, come ideale — una norma di preghiera. Possiamo affermare che essa ci offre il più antico e il più onorato dei metodi di preghiera. A partire dal secolo XVI si è molto parlato di orazione e di metodi di orazione. Santa Teresa d’Avila dichiarava che avrebbe voluto stare sulla cima di una montagna per convincere, se fosse stato possibile, tutto l’universo dell’importanza dell’orazione. Ma la preghiera, a partire dal secolo XVI, è stata fortemente segnata dall’umanesimo del Rinascimento e l’orazione si è trovata sottomessa a investigazioni e vaneggiamenti umani. Era fatale che lo sviluppo della psicologia inclinasse gli spiriti a forgiare metodi d’orazione nei quali dominava l’aspetto analitico e discorsivo. Durante i primi secoli della Chiesa la preghiera non aveva cessato d’irrigare i terreni dove si coltivava la vita spirituale. Dunque, come pregavano gli antichi? Usavano dei metodi? Sembra evidente di no. L’orazione scaturiva spontaneamente dall’intimo grazie all’ufficio divino. Il fiume dei misteri liturgici alimentava le prime generazioni di cristiani, come i quattro fiumi del Paradiso, senza che dovessero inventare altri metodi di accesso al santuario della vita interiore. La liturgia è stata, nelle età della fede, la grande educatrice dei figli di Dio. Gli inni, i salmi, il canto gregoriano, l’ordine sacramentale versavano nelle anime la luce delle verità della fede e spingevano l’uomo a guardare verso Dio piuttosto che a sé stesso; a cantare le «mirabilia Dei», in dissolvenza, come gli scultori dei capitelli di Chartres si eclissavano davanti al loro soggetto. Grazie alla liturgia, il primato era dato alla vita teologale e contemplativa. Le collette acquisiscono a tale proposito un considerevole valore pedagogico. Considerate l’importanza delle parole dell’orazione. Talvolta un’invocazione maestosa ci mette di fronte all’onnipotenza divina — «Omnipotens sempiterne Deus…» —, altrove la Chiesa è nominata per prima: «Ecclesiam tuam, Deus…», oppure «Familiam tuam». L’orazione si colora allora di affettuosa tenerezza. In altre occasioni l’uso di un verbo forte mette in rilievo l’azione divina: «Fac, Domine…», «Presta, quaesumus Domine…». In seguito il corpo dell’orazione esprime l’oggetto della richiesta, la quale è indicata con poche parole che indicano gioia, cosicché l’oggetto principale di una festa si trova perfettamente riassunto nella sua colletta. Ecco per esempio l’orazione della Messa di mezzanotte: «O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo». Con arte, la liturgia ci fa passare da una realtà creata alla sua analoga di livello superiore: dalla luce del Natale alla luce celeste, dal visibile all’invisibile. L’orazione della Messa dell’aurora invita a passare dal piano dell’essere al piano dell’agire; in poche parole ecco stabilito il fondamento della morale: «La luce che, per la fede, brilla nelle nostre anime, rifulga nelle nostre azioni» («In nostro resplendeat opere quod per fidem fulget in mente»). Così ogni festa ci fa domandare una grazia speciale con una dolcezza e una precisione che conduce l’anima direttamente al centro del mistero celebrato. Siamo illuminati su cosa domandare, sul come dobbiamo chiedere, sul perché è necessario interpellare. L’orazione dell’Immacolata Concezione sviluppa armoniosamente l’ordine delle quattro cause; quella della quarta domenica dopo Pasqua attira verso l’alto i nostri cuori con una soavità che solo il latino può rendere: «ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda ubi vera sunt gaudia», «affinché nei cambiamenti di questo mondo i nostri cuori restino fissi là dove si trovano le vere gioie». Il latino delle orazioni ci fa pregare con tanto gusto ed esattezza, che la traduzione talvolta è impossibile. Come tradurre parole come: «ostia», «pietas» o «devotio»? A venti secoli di distanza, la parola calcata sul latino appare vuota della sua sostanza o ha cambiato significato. In latino hostia significava vittima di un sacrificio con spargimento di sangue e devotio consacrazione irrevocabile. La parola pietas, così sbiadita dall’uso continuo, avrebbe bisogno — onde non tradirne il vero significato — di una lunga perifrasi che le possa ridare la sua linfa antica e sacra. La pietas romana, virtù nazionale, carica di un senso carnale e religioso, significava sia l’attaccamento alla terra, la fedeltà, la gratitudine, sia il culto reso agli dèi, ai parenti, alla patria, e ancora alla famiglia, alla casa, ai penati. Si percepisce cosa la parola pietà, bagnata dall’acqua del battesimo, potesse significare per i primi cristiani. Alla tenerezza paterna di Dio l’anima illuminata dal Verbo rispondeva sicut naturaliter rifluendo verso il focolare beatificante della vita trinitaria. Alcuni tra voi si domanderanno come pregare con le orazioni del Messale. La prima condizione è di sapere leggere; scienza poco comune, contrariamente a quello che si crede, e che comporta due operazioni: scrutare e soppesare. Consiglio a chi tra voi vuole ispirarsi alla santa liturgia per alimentare la propria vita di preghiera, d’imitare il metodo dei cercatori d’oro. Il ciclo dell’anno liturgico è simile a un grande fiume carico di riti, canti e poemi. Vi si trovano anche brevi formule brillanti di un vivo splendore che si possono paragonare a pagliette d’oro. Leggere lentamente il proprio del Messale è un eccellente metodo di preghiera, setacciare per così dire giorno dopo giorno l’acqua di questo fiume e cogliere con cura ciò che risponde alle attese e al desiderio dell’anima. La colletta della domenica diventerà, sotto la guida della Chiesa, una gustosa meditazione e un’esortazione pratica per tutta la settimana. Potremo così portare, incise nella nostra mente, le formule delle preghiere preferite, arricchite da brillanti massime che illuminano la nostra strada. 
Ecco qualche esempio preso a caso: 
 «Sic transeamus per bona temporalia, ut non amittamus aeterna» [1]. «Sacramentum vivendo teneant quod fide perceperunt» [2]. 
«Sine te nihil potest mortalis infirmitas» [3]. 
«Ad promissiones tuas, sine offensione curramus» [4]. 
«Da nobis fidei, spei et caritatis augmentum» [5]. 
«Discamus terrena despicere et amare caelestia» [6]. 
«Auctor ipse pietatis!...» [7]. 

In queste ultime parole — «Voi che siete l’autore stesso di ogni pietà» —, che arte di commuovere il cuore di Dio! C’è una grande dolcezza nel pregare con le stesse parole e accenti dei primi cristiani rinati dall’acqua battesimale, ascoltando le medesime letture, intonando uguali canti, attenti come loro alla misteriosa voce dello Spirito e della Sposa che dice: «Vieni, Signore Gesù!». 

______________________
 Note: [1] «Affinché passiamo tra i beni temporali senza perdere quelli eterni» (colletta della terza domenica dopo Pentecoste).
[2] «Concedi di conservare nella vita quel sacramento che ricevettero per la fede» (colletta del martedì di Pasqua).
[3] «Senza di voi la debolezza della nostra natura mortale non può nulla» (colletta della I domenica dopo Pentecoste).
[4] «Fai che corriamo senza ostacoli verso i beni da te promessi» (colletta della XII domenica dopo Pentecoste).
[5] «Accresci in noi la fede, la speranza e la carità» (colletta della XIII domenica dopo Pentecoste).
[6] «Impariamo a disprezzare le cose terrene e ad amare quelle del cielo» (postcommunio della Messa del Sacro Cuore).
[7] «Voi che siete l’autore stesso di ogni pietà» (colletta della XXII domenica dopo Pentecoste).

 [Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 59-70]

"Siano come sono, o non siano"


Sint ut sunt, aut non sint

 di Roberto de Mattei  da Corrispondenza Romana 27 agosto 2013

loyola-and-jesuit-theologians«Sint ut sunt aut non sint» (siano come sono, o non siano) è una frase che secondo alcuni storici sarebbe stata pronunciata dal preposito generale dei Gesuiti Lorenzo Ricci, di fronte alla proposta di “riformare” la Compagnia di Gesù, accomodandola alle esigenze del mondo. Si era nella seconda metà del XVIII secolo e i Gesuiti rappresentavano il baluardo contro cui si infrangevano gli attacchi dei nemici esterni ed interni alla Chiesa. I nemici esterni erano capeggiati dal “parti philosophique” illuminista, quelli interni erano frastagliati in correnti ereticali che, sotto il nome di gallicanesimo, giurisdizionalismo, regalismo, febronianesimo, pretendevano di piegare la Chiesa ai voleri degli Stati assoluti.
I Gesuiti, fondati da sant’Ignazio di Loyola, difendevano con vigore il primato del Romano Pontefice, a cui erano legati da un quarto voto di obbedienza. I sovrani assoluti, influenzati dalle idee illuministiche, avevano iniziato ad espellere i Gesuiti dai loro regni, accusandoli di pervertire l’ordine sociale. Ciò però non bastava. Occorreva trasformare dall’interno la Compagnia, ma poiché il generale dei Gesuiti si opponeva, non restava che sopprimerla, e solo un Papa poteva farlo.
L’occasione si presentò alla morte di Clemente XIII, il 2 febbraio 1769. Lo storico Ludwig von Pastor, nel XVI volume della sua Storia dei Papi (tr. it. Desclée, Roma 1943), descrive con ricchezza di documentazione le manovre che si svolsero prima, durante e dopo il Conclave che, dopo ben 3 mesi e 179 votazioni, vide, il 14 maggio, l’elezione del francescano Lorenzo Ganganelli, con il nome di Clemente XIV. Il nuovo Papa fu eletto a condizione che abolisse la Compagnia di Gesù. Pur non mettendo per iscritto una promessa formale, che avrebbe comportato la simonia, il cardinale Ganganelli prese questo impegno con gli ambasciatori delle Corti borboniche. Lo Spirito Santo non mancò di assistere il Conclave, ma la corrispondenza alla grazia divina dei cardinali non fu certo adeguata, se la loro scelta si appuntò su un prelato che Pastor definisce «un carattere debole e ambizioso, che aspirava alla tiara» (op. cit. p. 66).
Il 21 luglio 1773, con il Breve Dominus ac Redemptor, papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, che all’epoca contava circa 23.000 membri in 42 province. «Questo Breve del 21 luglio 1773 – scrive Pastor – rappresenta la vittoria più manifesta dell’illuminismo e dell’assolutismo regio sulla Chiesa e sul suo Capo» (p. 223). Il padre Lorenzo Ricci, venne incarcerato in Castel Sant’Angelo, dove morì il 24 novembre 1775. Clemente XIV, lo precedette nella tomba il 22 settembre 1774, un anno dopo la dissoluzione dell’ordine. La Compagnia venne dispersa, ma sopravvisse in Russia, dove la zarina Caterina II rifiutò di dare l’exequatur al breve di soppressione. I Gesuiti della Russia Bianca furono accusati di disobbedienza e ribellione al Papa, ma assicurarono la continuità storica dell’ordine, mentre in altre nazioni ex-Gesuiti promuovevano, nello spirito ignaziano, nuove congregazioni religiose.
Nel 1789 scoppiò la Rivoluzione francese e si aprì per la Chiesa un’epoca drammatica, che vide l’invasione giacobina della città di Roma e la deportazione dei due successori di Clemente XIV: Pio VI e Pio VII. La resistenza alla Rivoluzione fu assicurata in questo periodo soprattutto da un’associazione segreta, le “Amicizie cristiane”, fondate a Torino dall’ex-gesuita svizzero Nikolaus Albert von Diessbach.
Dopo quarant’anni, finalmente, con la costituzione Sollicitudo omnium ecclesiarumdel 7 agosto 1814, Pio VII revocò il Breve del 21 luglio 1773 e dispose la completa ricostituzione della Compagnia di Gesù in tutto il mondo, «sembrandogli grave colpa innanzi a Dio se in un tempo così calamitoso avesse sottratto più oltre alla nave della Chiesa quei validi ed esperti rematori» (Pastor, op. cit., p. 421).
Un Papa francescano, Clemente XIV, soppresse i Gesuiti, nel 1773. Sarà il gesuita papa Francesco a sopprimere o, peggio ancora, a “riformare”, un Istituto francescano nel 2013? I Francescani dell’Immacolata, non hanno il passato di gloria dei Gesuiti, ma il loro caso presenta qualche analogia con quello della Compagnia di sant’Ignazio, e rappresenta soprattutto una sintomatica espressione della profonda crisi in cui si dibatte oggi la Chiesa cattolica:
Fondati dal padre Stefano Maria Manelli nel 1970, i Francescani dell’Immacolata conducono vita evangelica e penitente, e si sono contraddistinti, fin dall’origine per il loro attaccamento alla morale e alla fede tradizionale. Il Motu proprio con cui Benedetto XVI ha restituito piena cittadinanza al Rito romano antico ha rappresentato per essi la possibilità di vivere, anche sul piano liturgico, questo amore alla Tradizione. Padre Manelli non ha mai imposto il Vetus Ordo, ma lo ha suggerito ai suoi Frati, le cui ordinazioni sacerdotali negli ultimi anni sono state fatte da eminenti principi della Chiesa nella linea della “riforma nella continuità” di Benedetto XVI.
Dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e per le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA), oggi presieduta dal cardinale João Braz de Aviz, dipendono congregazioni, maschili e femminili, che hanno abbandonato, in tutto o in parte, l’abito religioso e che vivono nella rilassatezza morale e nel relativismo dottrinale, senza nessun richiamo da parte delle autorità competenti. I Francescani dell’Immacolata rappresentano una pietra di contraddizione, che spiega il desiderio della CIVCSVA di “normalizzarli”, ossia di riallineare la loro vita religiosa agli standard vigenti. La presenza di un piccolo nucleo di Frati “dissidenti” ha offerto alla Congregazione l’occasione per intervenire, con l’invio di un Visitatore, mons. Vito Angelo Todisco, il 5 luglio 2012. Sulla sola base di un capzioso questionario inviato ai Frati da mons. Todisco, senza incontrarli personalmente, la CIVCSVA ha disposto, l’11 luglio 2013, il commissariamento dell’Istituto, con un Decreto che contiene un’interdizione, assolutamente illegittima, di celebrare la Messa tradizionale.
Nei prossimi giorni e settimane conosceremo meglio il piano del Commissario, Fidenzio Volpi, di cui però si possono già intuire le grandi linee: isolare il Fondatore, padre Manelli; decapitare il Consiglio a lui fedele; trasferire in periferia i Frati “tradizionali” e attribuire il governo centrale dell’Istituto ai dissidenti; affidare le case di formazione a Padri non sospetti di simpatie “tradizionaliste”; sterilizzare le pubblicazioni dei Francescani che affrontano temi “controversi”; in particolare, evitare il “massimalismo” mariologico, l’eccessiva “rigidità” in campo morale, e soprattutto ogni critica, sia pur rispettosa, al Concilio Vaticano II; aprire l’Istituto al “dialogo ecumenico” con le altre religioni; limitare la celebrazione del Vetus Ordo a situazioni eccezionali; snaturare insomma l’identità dei Francescani dell’Immacolata, che è cosa peggiore del sopprimerli.
Se questa deve essere la “riforma”, c’è da augurarsi una separazione tra le due anime che attualmente convivono all’ interno dei Francescani dell’Immacolata: da una parte i Frati che interpretano il Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione della Chiesa e che in questo spirito hanno riscoperto il rito Romano antico, in tutta la sua verità e bellezza; dall’altra parte coloro che reinterpretano il carisma del loro  Istituto alla luce del progressismo postconciliare. La cosa peggiore è la confusione e la crisi di identità. E oggi, il garante dell’identità dei Francescani dell’Immacolata, non può che essere il loro fondatore, padre Stefano Maria Manelli, su cui pesa la responsabilità delle decisioni ultime. L’unico che può ripetere, come è già accaduto nella storia: Sint ut sunt aut non sint.

"Signore, dacci santi sacerdoti".

Don (fr.) Emil Kapaun (1916-1951) è stato dichiarato Servo di Dio nel 1993 e fu un prete cattolico,  cappellano dell'esercito degli Stati Uniti nella guerra di Corea (in cui fu anche fatto prigioniero per 7 mesi, durante i quali aiuto e confortò i propri compagni di sventura). Continuò poi il proprio ministero sacerdotale che il suo ruolo di cappellano gli chiedeva, incurante della cattiva salute, fino alla morte arrivata perchè rifiutò le cure pur di non far mancare l'assistenza spirituale e il conforto dei sacramenti ai propri commilitoni, per il bene delle loro anime.
L'11 Aprile 2013 il presidente degli USA ha conferito la Medaglia d'Onore per il servizio reso durante la Guerra di Korea.

La foto, che lo raffigura mentre celebra la Messa da campo, risale al 7 Ottobre 1950, e si può notare l'altare "particolare" 
Il sacerdote, probabilmente fu ritratto nel momento del Dominus vobiscum, prima della benedizione finale. 
 
Come don Kapaun, anche oggi ci sono tanti sacerdoti che tra mille sacrifici, santificano il popolo di Dio a.m.D.g. Ma sono sempre pochi e troppo nascosti. A loro il nostro sostegno. Dio ve ne renderà merito.
 
fonte: sito father Emil Kapaun

mercoledì 28 agosto 2013

L'arte del discepolo

Da Romualdica:

Dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935), mio Padre secondo l’istituzione e il diritto, lo fu anche di fatto, per avermi ammesso ai voti solenni di religione nella sua abbazia di Sept-Fons, e per avermi dato qualche piccola cosa in più. Dom Chautard si poneva come un maestro assai deciso quanto all’essenziale della vocazione monastica: l’orazione. “Figlio mio, fate orazione?”, questo era l’invariabile ingresso in materia quando riceveva uno dei suoi monaci. Con una tale insistenza, che rispondeva alla sua convinzione profonda, imprimeva un marchio nei nostri spiriti; ci dava un impulso per il resto della vita. Appartiene in effetti al padre di fissare per sempre le priorità. Dom Chautard amava la santa Scrittura, soprattutto i Vangeli e le Lettere di san Paolo. Aveva sofferto la penuria di dottrina spirituale che si viveva alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX. Don Bremond non aveva ancora attirato l’attenzione sull’interesse degli scritti degli spirituali. Nondimeno, Dom Chautard era riuscito a scovare alcuni scrittori accettabili: Mons. Gay., Mons. De Ségur, Dom Vital Lehodey, più tardi Dom Marmion. Apprezzava il piccolo libro dal titolo Lo spirito di santa Teresa del Bambino Gesù. Fra gli scrittori anteriori, aveva saputo scegliere i gesuiti Grou e Lallemant; di Bossuet, il piccolo trattato Maniera breve e facile per fare l’orazione nella fede. Li citava spesso. Di san Francesco di Sales, gli Incontri spirituali; qualche lettera di santa Jeanne de Chantal sull’orazione. Risalendo ancora più indietro, amava gli scritti di santa Teresa d’Avila. Le Conferenze IX e X di Cassiano, e naturalmente la Regola del nostro santo Padre Benedetto, da cui traeva in ogni circostanza dei princìpi di vita spirituale. Non gli sarebbe mai venuta l’idea di fare legittimare questi princìpi dai voti della sua comunità, né di discutere della loro attualità nei crocicchi. L’uomo che sente il bisogno di seguire la folla per farsi ascoltare non è un maestro. Dom Chautard coltivava il gusto spirituale, accoglieva ogni domanda pertinente, comprendeva i problemi di ciascuno. Ma quando insegnava, bisognava ascoltarlo! Non sospendeva la sua dottrina all’acquiescenza dei suoi ascoltatori. Non me lo immagino proprio dichiarare al proprio uditorio, dopo ogni istruzione – come oggi fanno taluni –, giudicando ciò di un effetto eccellente: “Vi ho detto quel che penso; ma non v’impedisco di pensarla diversamente, se avete avuto una diversa esperienza”. Attitudine completamente non intelligente! Perché proporre un insegnamento e lasciare nello stesso tempo ciascuno libero di sottrarsene? Perché gettare in un solo colpo nella palude quanto si sta costruendo? Da parte sua, Dom Chautard sapeva mostrarsi perentorio: “Per questa strada, figlio mio, non perverrete mai all’unione con Dio”. Una volta detto, bisognava trarne le conseguenze. Poiché non si è mai troppo fermi quando s’insegna; soprattutto quando s’insegnano delle verità o dei comportamenti che svolgeranno un ruolo nelle scelte importanti e nei destini. Fare delle scelte, e insegnare al discepolo a fare le medesime scelte: è sempre da lì che occorre partire. Un indicatore stradale non decide nulla, e il suo compito è svolto per il solo fatto che reca uno dei segnali del codice. Il ruolo di un maestro non si può limitare a questo. La sua mansione non consiste nell’indicare indifferentemente tutte le strade possibili, ma egli deve decidere quale occorre intraprendere. Giacché voi gli avete conferito il diritto di escludere e di affermare, il diritto di dirigere le vostre preferenze. Diversamente, la vostra ricerca non sarebbe seria. Da parte mia, ho subito i metodi di più di un pedagogo; varie influenze si sono esercitate su di me. Ora, oggi, non mi ricordo che di tre o quattro maestri i quali furono fermi nella loro lezione ed esigenti. Provo gratitudine e ammirazione per questi pochi che sapevano imporsi per la loro autorità magistrale. Non mi ricordo degli altri. Brave persone senza potenza persuasiva, costoro non mi sono stati utili. Sono solo esistiti? E adesso, verso costoro, presi in blocco, provo qualche amarezza che abbiano accettato, a mio riguardo, la loro propria inconsistenza. Dom Chautard ebbe dei discepoli; li ha meritati. Ma direte: “Altri tempi, altri costumi”. Sì e no. In ogni caso, per quanto qui ci occupa, la storia della spiritualità dimostra che i costumi delle anime, come quelli di Dio, non cambiano con i tempi. Se la Chiesa, a seconda delle epoche e precisamente durante la nostra, ha molto cambiato nella sua maniera di fare, per contro, in ciò che riguarda la vita delle anime che cercano Dio, non potrà mai dire “a partire da quest’anno, Dio ha completamente modificato il suo modo di fare”. In questo ambito, occorre dunque sempre tornare alle medesime leggi. Ricordo la prima testimonianza che ho inteso a proposito del monastero di Sept-Fons. Credo si debba situare verso il mese di novembre del 1928, a Friburgo. Ricevemmo alla tavola di famiglia due monaci di Maredsous che passavano per andare al nuovo priorato di Corbières. Durante la cena, si parlò del mio probabile ingresso in un monastero cistercense. Quando uno dei commensali precisò che forse si sarebbe trattato di Sept-Fons, uno degli onorevoli benedettini dichiarò: “A Sept-Fons, secondo il Reverendissimo Abate di Maredsous, si trovano ancora dei giganti della preghiera”. Questo apprezzamento avrebbe fatto piacere a Dom Chautard, non per l’espressione un po’ magniloquente, ma perché significava l’essenziale di ciò che egli desiderava. Giacché allora io ignoravo tutto della vita di preghiera, non compresi se non vagamente cosa potesse significare questa specie particolare di gigantismo. Nondimeno mi sentii lusingato che si dicesse questo della mia futura comunità; m’immaginavo già di parteciparvi! Vent’anni dopo, Dom Godefroid Belorgey O.C.S.O. (1880-1964) mi diede la consegna seguente: “Per voi, continuate il tempo di presenza, le ore di presenza davanti al tabernacolo”. Voleva perpetuare la razza di giganti? Non ci pensava, senza dubbio. Sapeva che nella professione monastica, non si tratta né di statura elevata né soprattutto di prestigio. Lui che conosceva queste cose dall’interno, non avrebbe detto “giganti della preghiera”, piuttosto: fedeli alla preghiera. All’epoca, d’altronde, non avrei compreso il termine “fedele” meglio di “gigante”. Com’è possibile che il termine “fedele”, il più bel complimento che si possa fare a un innamorato, convenga anche a un monaco? Lo comprendo meglio ora, precisamente grazie a quelle ore davanti al tabernacolo. Fedele? Colui che l’usura non può mai vincere; né quella del soggetto, né quella – apparente – dell’Oggetto!

[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 10-14, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

Gesuita della Pontificia Università Javeriana di Bogotà (Colombia) esalta il "diritto all'eutanasia"

Qui da Gloria.tv su segnalazione di un lettore, abbiamo trovato questo video. 
Un padre gesuita pro eutanasia (Colombia)
 
totus catholicus  20/08/2013 00:45:16
Il Padre gesuita Carlos Novoa (docente alla Pontifica Università Javeriana di Bogotà) in un debate nella tv colombiana (programma "Dos puntos"), dell'anno scorso (2012), ha esaltato il "diritto all'eutanasia".

Il video è stato ripreso da http://youtu.be/FPBa5yStERs
 

martedì 27 agosto 2013

Congregazione per il clero: pubblicato un articolo sulla Messa quotidiana per ogni sacerdote. Anche in assenza di fedeli

Su segnalazione di un nostro lettore, che ringraziamo, riproponiamo questo bellissimo articolo, pubblicato sul sito uffciale della Congregazione per il Clero clerus.org , nella sezione "Anno della Fede". 
Roberto




La celebrazione quotidiana della Santa Messa anche in assenza di fedeli



È noto che, in tempi recenti, alcuni sacerdoti, fortunatamente assi pochi, osservano il cosiddetto «digiuno celebrativo», consistente nella pratica di astenersi di tanto in tanto o persino settimanalmente, in uno dei giorni feriali, dal celebrare la Santa Messa, privandone così anche i fedeli. In altri casi, il sacerdote che non svolge cura pastorale diretta ritiene non essere necessario celebrare ogni giorno, se egli non ha possibilità di farlo per una comunità. Infine, alcuni ritengono che, nel meritato periodo di riposo delle proprie vacanze, abbiano il diritto di «non lavorare», e pertanto sospendono anche la Celebrazione eucaristica quotidiana. Cosa dire di tutto ciò? Riassumiamo la risposta in due punti: l’insegnamento del Magistero e alcune considerazioni teologico-spirituali.



1. Il Magistero

È indubbio che nei documenti magisteriali non si trova affermata la stretta obbligatorietà, per il sacerdote, della celebrazione quotidiana della Santa Messa; ma è altrettanto evidente che essa viene non solo suggerita, ma persino raccomandata. Offriamo alcuni esempi. Il Codice di Diritto Canonico del 1983, nel contesto di un canone che indica il dovere dei sacerdoti di tendere alla santità, indica: «I sacerdoti sono caldamente invitati ad offrire ogni giorno il Sacrificio eucaristico» (can. 276, § 2 n. 2 CIC). Alla cadenza quotidiana della celebrazione essi vanno preparati sin dagli anni di formazione: «La Celebrazione eucaristica sia il centro di tutta la vita del seminario, in modo che ogni giorno gli alunni [...] attingano soprattutto a questa fonte ricchissima forza d’animo per il lavoro apostolico e per la propria vita spirituale» (can. 246 § 1 CIC).

Sulla scorta di quest’ultimo canone, Giovanni Paolo II ha sottolineato: «Converrà pertanto che i seminaristi partecipino ogni giorno alla Celebrazione eucaristica, di modo che, in seguito, assumano come regola della loro vita sacerdotale questa celebrazione quotidiana. Essi saranno inoltre educati a considerare la Celebrazione eucaristica come il momento essenziale della loro giornata» (Angelus, 01.07.1990, n. 3).

Nell’Esortazione apostolica post-Sinodale Sacramentum Caritatis del 2007, Benedetto XVI ha innanzitutto ricordato che «Vescovi, sacerdoti e diaconi, ciascuno secondo il proprio grado, devono considerare la celebrazione come loro principale dovere» (n. 39). In ragione di ciò, il Sommo Pontefice ha tratto la naturale conseguenza:
«La spiritualità sacerdotale è intrinsecamente eucaristica. [...] Raccomando ai sacerdoti “la celebrazione quotidiana della santa Messa, anche quando non ci fosse partecipazione di fedeli” (Propositio 38 del Sinodo dei Vescovi). Tale raccomandazione si accorda innanzitutto con il valore oggettivamente infinito di ogni Celebrazione eucaristica; e trae poi motivo dalla sua singolare efficacia spirituale, perché, se vissuta con attenzione e fede, la Santa Messa è formativa nel senso più profondo del termine, in quanto promuove la conformazione a Cristo e rinsalda il sacerdote nella sua vocazione» (n. 80).

Erede di questi ed altri insegnamenti, il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, curato dalla Congregazione per il Clero in una recentissima nuova edizione (2013), al n. 50 – dedicato ai «Mezzi per la vita spirituale» dei sacerdoti – ricorda: «È necessario che nella vita di preghiera del presbitero non manchi[...] mai la Celebrazione eucaristica quotidiana, con adeguata preparazione e successivo ringraziamento».

Questi ed altri insegnamenti del Magistero recente radicano, come è naturale, nelle indicazioni del Concilio Vaticano II, che al n. 13 del Decreto Presbyterorum Ordinis dice:«Nel mistero del Sacrificio eucaristico, in cui i sacerdoti svolgono la loro funzione principale, viene esercitata ininterrottamente l’opera della nostra redenzione e quindi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, la quale è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa, anche quando non è possibile che vi assistano i fedeli».

2. Principali motivi

Sarebbe già sufficiente la citazione di queste indicazioni magisteriali per incoraggiare tutti i sacerdoti alla fedeltà alla celebrazione quotidiana della Santa Messa, con o senza presenza di fedeli. Aggiungiamo tuttavia, nel modo più breve possibile, anche l’esplicitazione dei principali motivi teologico-spirituali che sottostanno alle indicazioni della Chiesa in materia, mantenendo un regime di strettissima brevità.

a) Mezzo privilegiato di santità del sacerdote. La Santa Messa è «fonte e culmine» di tutta la vita sacerdotale: da essa il sacerdote trae la forza soprannaturale e alimenta lo spirito di fede di cui ha assolutamente bisogno per configurarsi a Cristo e per servirLo degnamente. Al pari della manna dell’Esodo, che andava colta ogni giorno, il sacerdote ha bisogno ogni giorno di abbeverarsi alla fonte della grazia, il sacrificio del Golgota, che si ripresenta sacramentalmente nella Santa Messa. Omettere tale celebrazione quotidiana – fatto salvo il caso di impossibilità – significa privarsi del principale alimento necessario alla propria santificazione ed al ministero apostolico ecclesiale, nonché indulgere al rischio di una sorta di pelagianesimo spirituale, che confida nella forza dell’uomo più che nel dono di Dio.

b) Principale dovere del sacerdote, corrispondente alla sua identità. Il sacerdote è costituito tale principalmente in ragione della Celebrazione eucaristica, come rivela il fatto che questo ministero ecclesiale fu istituito da Cristo contestualmente all’Eucaristia stessa, durante l’ultima cena. Celebrare la Santa Messa non è l’unica cosa che il sacerdote deve fare, ma certamente è la principale. Lo ricordava poc’anzi Presbyterorum Ordinis: nell’offrire il Sacrificio eucaristico, «i sacerdoti svolgono la loro funzione principale». Riprende questo insegnamento Giovanni Paolo II, nella Pastores Dabo Vobis del 1992: «I sacerdoti, nella loro qualità di ministri delle cose sacre, sono soprattutto i ministri del Sacrificio della Messa» (n. 48).

c) Atto di carità pastorale più perfetto. Non esiste opera di carità che il sacerdote possa compiere in favore dei fedeli, che sia più grande o abbia più valore della Santa Messa. Il Concilio Vaticano II lo ricorda con le parole: «Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla Sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella Ss.ma Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo [...]. Perciò l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione» (Presbyterorum Ordinis, n. 5).

d) Suffragio dei defunti. La carità pastorale del sacerdote – che di norma può raggiungere solo i fedeli viatores, nella Santa Messa travalica i confini dello spazio e del tempo. Celebrando in persona Christi, il sacerdote compie un’opera che supera le dimensioni dell’efficacia del gesto umano, limitata al suo tempo, al suo spazio ed alla storia dei suoi effetti, e si estende oltre i confini dell’umanamente raggiungibile. Questo vale, in particolare, per il valore dei meriti di Cristo, che nella Santa Messa si offre di nuovo al Padre per noi e per molti. Tra i «molti» per i quali Cristo si è offerto una volta per tutte sulla croce, e continua ad offrirsi su quel Golgota sacramentale che sono gli altari delle nostre chiese, figurano anche i fedeli defunti, che sono in attesa di accedere alla visione eterna di Dio. Da sempre la Chiesa prega per loro nella liturgia, come testimonia la menzione dei defunti nelle preghiere eucaristiche. «Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il Sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1032)

Quale atto di carità pastorale è pertanto la celebrazione quotidiana dalla S. Messa ed anche in circostanze per le quali fossero assenti i fedeli!