Sint ut sunt, aut non sint
di Roberto de Mattei da Corrispondenza Romana 27 agosto 2013
«Sint ut sunt aut non sint» (siano come sono, o non siano) è una frase che secondo alcuni storici sarebbe stata pronunciata dal preposito generale dei Gesuiti Lorenzo Ricci, di fronte alla proposta di “riformare” la Compagnia di Gesù, accomodandola alle esigenze del mondo. Si era nella seconda metà del XVIII secolo e i Gesuiti rappresentavano il baluardo contro cui si infrangevano gli attacchi dei nemici esterni ed interni alla Chiesa. I nemici esterni erano capeggiati dal “parti philosophique” illuminista, quelli interni erano frastagliati in correnti ereticali che, sotto il nome di gallicanesimo, giurisdizionalismo, regalismo, febronianesimo, pretendevano di piegare la Chiesa ai voleri degli Stati assoluti.
I Gesuiti, fondati da sant’Ignazio di Loyola, difendevano con vigore il primato del Romano Pontefice, a cui erano legati da un quarto voto di obbedienza. I sovrani assoluti, influenzati dalle idee illuministiche, avevano iniziato ad espellere i Gesuiti dai loro regni, accusandoli di pervertire l’ordine sociale. Ciò però non bastava. Occorreva trasformare dall’interno la Compagnia, ma poiché il generale dei Gesuiti si opponeva, non restava che sopprimerla, e solo un Papa poteva farlo.
L’occasione si presentò alla morte di Clemente XIII, il 2 febbraio 1769. Lo storico Ludwig von Pastor, nel XVI volume della sua Storia dei Papi (tr. it. Desclée, Roma 1943), descrive con ricchezza di documentazione le manovre che si svolsero prima, durante e dopo il Conclave che, dopo ben 3 mesi e 179 votazioni, vide, il 14 maggio, l’elezione del francescano Lorenzo Ganganelli, con il nome di Clemente XIV. Il nuovo Papa fu eletto a condizione che abolisse la Compagnia di Gesù. Pur non mettendo per iscritto una promessa formale, che avrebbe comportato la simonia, il cardinale Ganganelli prese questo impegno con gli ambasciatori delle Corti borboniche. Lo Spirito Santo non mancò di assistere il Conclave, ma la corrispondenza alla grazia divina dei cardinali non fu certo adeguata, se la loro scelta si appuntò su un prelato che Pastor definisce «un carattere debole e ambizioso, che aspirava alla tiara» (op. cit. p. 66).
Il 21 luglio 1773, con il Breve Dominus ac Redemptor, papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, che all’epoca contava circa 23.000 membri in 42 province. «Questo Breve del 21 luglio 1773 – scrive Pastor – rappresenta la vittoria più manifesta dell’illuminismo e dell’assolutismo regio sulla Chiesa e sul suo Capo» (p. 223). Il padre Lorenzo Ricci, venne incarcerato in Castel Sant’Angelo, dove morì il 24 novembre 1775. Clemente XIV, lo precedette nella tomba il 22 settembre 1774, un anno dopo la dissoluzione dell’ordine. La Compagnia venne dispersa, ma sopravvisse in Russia, dove la zarina Caterina II rifiutò di dare l’exequatur al breve di soppressione. I Gesuiti della Russia Bianca furono accusati di disobbedienza e ribellione al Papa, ma assicurarono la continuità storica dell’ordine, mentre in altre nazioni ex-Gesuiti promuovevano, nello spirito ignaziano, nuove congregazioni religiose.
Nel 1789 scoppiò la Rivoluzione francese e si aprì per la Chiesa un’epoca drammatica, che vide l’invasione giacobina della città di Roma e la deportazione dei due successori di Clemente XIV: Pio VI e Pio VII. La resistenza alla Rivoluzione fu assicurata in questo periodo soprattutto da un’associazione segreta, le “Amicizie cristiane”, fondate a Torino dall’ex-gesuita svizzero Nikolaus Albert von Diessbach.
Dopo quarant’anni, finalmente, con la costituzione Sollicitudo omnium ecclesiarumdel 7 agosto 1814, Pio VII revocò il Breve del 21 luglio 1773 e dispose la completa ricostituzione della Compagnia di Gesù in tutto il mondo, «sembrandogli grave colpa innanzi a Dio se in un tempo così calamitoso avesse sottratto più oltre alla nave della Chiesa quei validi ed esperti rematori» (Pastor, op. cit., p. 421).
Un Papa francescano, Clemente XIV, soppresse i Gesuiti, nel 1773. Sarà il gesuita papa Francesco a sopprimere o, peggio ancora, a “riformare”, un Istituto francescano nel 2013? I Francescani dell’Immacolata, non hanno il passato di gloria dei Gesuiti, ma il loro caso presenta qualche analogia con quello della Compagnia di sant’Ignazio, e rappresenta soprattutto una sintomatica espressione della profonda crisi in cui si dibatte oggi la Chiesa cattolica:
Fondati dal padre Stefano Maria Manelli nel 1970, i Francescani dell’Immacolata conducono vita evangelica e penitente, e si sono contraddistinti, fin dall’origine per il loro attaccamento alla morale e alla fede tradizionale. Il Motu proprio con cui Benedetto XVI ha restituito piena cittadinanza al Rito romano antico ha rappresentato per essi la possibilità di vivere, anche sul piano liturgico, questo amore alla Tradizione. Padre Manelli non ha mai imposto il Vetus Ordo, ma lo ha suggerito ai suoi Frati, le cui ordinazioni sacerdotali negli ultimi anni sono state fatte da eminenti principi della Chiesa nella linea della “riforma nella continuità” di Benedetto XVI.
Dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e per le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA), oggi presieduta dal cardinale João Braz de Aviz, dipendono congregazioni, maschili e femminili, che hanno abbandonato, in tutto o in parte, l’abito religioso e che vivono nella rilassatezza morale e nel relativismo dottrinale, senza nessun richiamo da parte delle autorità competenti. I Francescani dell’Immacolata rappresentano una pietra di contraddizione, che spiega il desiderio della CIVCSVA di “normalizzarli”, ossia di riallineare la loro vita religiosa agli standard vigenti. La presenza di un piccolo nucleo di Frati “dissidenti” ha offerto alla Congregazione l’occasione per intervenire, con l’invio di un Visitatore, mons. Vito Angelo Todisco, il 5 luglio 2012. Sulla sola base di un capzioso questionario inviato ai Frati da mons. Todisco, senza incontrarli personalmente, la CIVCSVA ha disposto, l’11 luglio 2013, il commissariamento dell’Istituto, con un Decreto che contiene un’interdizione, assolutamente illegittima, di celebrare la Messa tradizionale.
Nei prossimi giorni e settimane conosceremo meglio il piano del Commissario, Fidenzio Volpi, di cui però si possono già intuire le grandi linee: isolare il Fondatore, padre Manelli; decapitare il Consiglio a lui fedele; trasferire in periferia i Frati “tradizionali” e attribuire il governo centrale dell’Istituto ai dissidenti; affidare le case di formazione a Padri non sospetti di simpatie “tradizionaliste”; sterilizzare le pubblicazioni dei Francescani che affrontano temi “controversi”; in particolare, evitare il “massimalismo” mariologico, l’eccessiva “rigidità” in campo morale, e soprattutto ogni critica, sia pur rispettosa, al Concilio Vaticano II; aprire l’Istituto al “dialogo ecumenico” con le altre religioni; limitare la celebrazione del Vetus Ordo a situazioni eccezionali; snaturare insomma l’identità dei Francescani dell’Immacolata, che è cosa peggiore del sopprimerli.
Se questa deve essere la “riforma”, c’è da augurarsi una separazione tra le due anime che attualmente convivono all’ interno dei Francescani dell’Immacolata: da una parte i Frati che interpretano il Concilio Vaticano II alla luce della Tradizione della Chiesa e che in questo spirito hanno riscoperto il rito Romano antico, in tutta la sua verità e bellezza; dall’altra parte coloro che reinterpretano il carisma del loro Istituto alla luce del progressismo postconciliare. La cosa peggiore è la confusione e la crisi di identità. E oggi, il garante dell’identità dei Francescani dell’Immacolata, non può che essere il loro fondatore, padre Stefano Maria Manelli, su cui pesa la responsabilità delle decisioni ultime. L’unico che può ripetere, come è già accaduto nella storia: Sint ut sunt aut non sint.
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