Pubblichiamo la quarta di uno studio di don Jean-Michel Gleize, membro della Commissione della Fraternità Sacerdotale San Pio X per le discussioni con Roma, in risposta a quanto affermato da Monsignor Fernando Ocáriz apparso su "L’Osservatore Romano". (Segue dalla III parte: http://blog.messainlatino.it/2011/12/approfondimento-del-professor-don-jean.html). (C.S.)
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UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’UNITA’ DEL MAGISTERO
UNA NUOVA CONCEZIONE DELL’UNITA’ DEL MAGISTERO
Questo nuovo discorso implica una nuova idea dell’unità del magistero. La continuità di cui si tratta è l’unità nel tempo, cioè attraverso i cambiamenti che misura il tempo, ed è innanzi tutto l’unità del soggetto, non quella dell’oggetto. Questo soggetto è la Chiesa, unico Popolo di Dio, cioè l’insieme di tutti i battezzati. Questo soggetto è il punto di riferimento che rende conto dell’unità della Tradizione.
L’istruzione Donum veritatis del 24 maggio 1990 [1], su cui si basa Mons. Ocáriz, sviluppa in dettaglio questo punto di vista. Col titolo «La verità dono di Dio al suo popolo», il primo capitolo di questo documento sviluppa l’idea già presente nel n° 12 di Lumen gentium, secondo il quale la conservazione e l’esplicitazione del deposito rivelato riguarderebbe l’intero Popolo di Dio, prima ancora di ogni distinzione gerarchica. I battezzati avrebbero in retaggio una funzione profetica, più fondamentale di quella magistrale propria degli Apostoli e dei loro successori. Il cardinale Ratzinger insiste su quest’idea, ai suoi occhi decisiva, nella Presentazione che fa dell’Istruzione Donum veritatis: «Considerando la struttura del documento, ci si sorprenderà di vedere che all’inizio non abbiamo posto il magistero, quanto il tema della verità come dono di Dio al suo popolo; la verità della fede non è donata all’individuo isolato (papa o vescovo), ma con essa Dio ha voluto dar vita ad una storia e ad una comunità. La verità risiede nel soggetto comunitario del Popolo di Dio, nella Chiesa». Del pari, Giovanni Paolo II, al n° 27 dell’Esortazione post-sinodale Pastores gregis, afferma: «Nella Chiesa, scuola del Dio vivente, vescovi e fedeli sono tutti condiscepoli e hanno tutti bisogno di essere istruiti dallo Spirito. I luoghi dove lo Spirito dona il suo insegnamento interiore sono veramente numerosi. Prima di tutto il cuore di ciascuno, poi la vita delle diverse Chiese particolari, ove appaiono e si fanno sentire i molteplici bisogni delle persone e delle diverse comunità ecclesiali, con dei linguaggi noti, ma anche con linguaggi diversi e nuovi» [2].
Qui manca la distinzione assolutamente necessaria tra destinatario e depositario-intermediario. L’intero Popolo di Dio, e molto più che il Popolo di Dio: tutti gli uomini senza eccezione, sono i destinatari della verità che deve salvarli. Ma solo alcuni individui isolati sono scelti tra gli uomini per essere i titolari di una funzione gerarchica e i depositari di questa verità, poiché è solo ad essi che è stata affidata in deposito con il compito di conservarla, e solo essi sono gli intermediari stabiliti da Dio per comunicare in suo nome la verità salutare. Vero è che la dichiarazione Mysterium Ecclesiae del 24 giugno 1973 [3], sulla quale anche si appoggia Mons. Ocáriz, dice che l’autorità del magistero è richiesta per assicurare l’unità sociale dell’espressione della fede [4]: a differenza di ciò che accade nel protestantesimo o nel modernismo di Alfred Loisy, condannato da San Pio X, il magistero è qui un’istituzione divina e solo esso è assistito da Dio per condurre il Popolo, indicandogli l’interpretazione autorizzata della Parola di Dio. Ma non dice che la funzione magisteriale è richiesta come quella di un depositario e di un intermediario, testimone privilegiato che, in quanto individuo isolato, ha ricevuto da Dio la verità della sua rivelazione con l’incarico di conservarla e di trasmetterla. E Donum veritatis non conferma su questo punto Mysterium Ecclesiae, dicendo che la verità di fede è un dono di Dio a tutto il Suo Popolo e che non è data all’individuo isolato (papa o vescovo), ma risiede nel soggetto comunitario del Popolo di Dio [5]?
Nel «Commento» pubblicato il 27 giugno 1994, allo scopo di precisare il senso della Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis, apparsa il 22 maggio precedente, il cardinale Ratzinger esprime nettamente questa nuova concezione di magistero: «La Scrittura può divenire il fondamento di una vita solo se è affidata ad un soggetto vivente – quello stesso da cui essa è nata. Essa ha avuto la sua origine nel Popolo di Dio guidato dallo Spirito Santo, e questo Popolo, questo soggetto, non ha smesso di sussistere. Il Concilio Vaticano II ha espresso tutto questo nel modo seguente: “la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura” (Dei Verbum, 9). […] Secondo la visione del Vaticano II, la Scrittura, la Tradizione e il magistero non devono essere considerate come tre realtà separate, ma la Scrittura, letta alla luce della Tradizione e vissuta nella fede dalla Chiesa, in questo contesto vitale si apre al suo pieno significato. Il magistero ha il compito di confermare questa interpretazione della Scrittura resa possibile dall’ascolto della Tradizione nella fede» [6]. In questo testo, il termine «Tradizione» è distinto da magistero ed indica la vita concreta del Popolo di Dio, cioè il contesto vitale al quale il magistero deve attingere come ad una fonte.
La catechesi dispensata da Benedetto XVI nel 2006, conferma ancora questa idea. All’origine la Chiesa deriva da una esperienza che gli Apostoli hanno vissuto con Cristo [7]. Prolungata nello spazio e nel tempo, questa esperienza suscita una comunione, che deve ricorrere al servizio del ministero apostolico per conservare la sua coesione spazio-temporale [8]. L’unità gerarchica, nel tempo e nello spazio, è una seconda unità che scaturisce da una prima unità più radicale, quella dell’esperienza comune. È così che la tradizione vivente, che è l’esperienza comune continuata nel tempo, precede e suscita la tradizione apostolica, che è il ministero continuato nel tempo come un servizio della comunione. Le due tradizioni resteranno sempre sincronizzate, e non si troverà mai la continuità dell’esperienza comune senza la continuità del ministero, poiché agli occhi di Benedetto XVI, la Chiesa non è una comunità puramente carismatica. E tuttavia, nella definizione che egli dà della Chiesa, vi è una anteriorità logica dell’esperienza comune in rapporto al ministero. Questa anteriorità è esattamente quella introdotta dall’Istruzione Donum veritatis: il Popolo di Dio depositario della verità precede in questo senso il magistero gerarchico. La Tradizione è allora intesa in un senso nuovo, come la continuità di una presenza attiva, quella di Gesù che vive nel suo Popolo [9]. Essa è compiuta dallo Spirito Santo ed espressa [10] grazie al servizio del ministero apostolico: «Questa permanente attualizzazione della presenza attiva di Gesù Signore nel suo popolo, operata dallo Spirito Santo ed espressa nella Chiesa attraverso il ministero apostolico e la comunione fraterna, è ciò che in senso teologico s'intende col termine Tradizione» [11]. Si tratta esattamente de «la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa» [12].
In questa nuova ottica, non si dice più che il ruolo del magistero è di conservare e di trasmettere in nome di Dio il deposito delle verità rivelate da Cristo agli Apostoli. Si dice che il ruolo consiste nell’assicurare la coesione dell’esperienza comunitaria delle origini, di modo che la comunione di oggi continui la comunione di ieri. Il magistero è allora al servizio del soggetto Chiesa e il suo ruolo consiste nell’esplicitare in formule autorizzate le intuizioni preconcettuali del sensus fidei.
Non si può negare la realtà di questo sensus fidei. Esso equivale al consenso unanime e infallibile della credenza. Ma si tratta proprio del consenso della Chiesa discente. Questo deriva dall’infallibilità della Chiesa docente, che è la sua causa propria. Essendo la Chiesa una e santa nella fede, la credenza dei fedeli è in defettibilmente e solidarmente docile, nel tempo e nello spazio, all’insegnamento della gerarchia magisteriale. Indubbiamente si può parlare di un certo soggetto della Tradizione in senso passivo, che è un senso lato, e che corrisponde all’insieme di tutti i credenti, ma questo soggetto è tale come semplice testimone dell’insegnamento del magistero, e il consenso della Chiesa nella credenza possiede tutt’al più il valore di un segno che fa conoscere l’infallibilità dell’insegnamento che ha proposto a credere la verità creduta unanimemente. In questo senso, la professione di fede indefettibile della Chiesa discente rappresenta un luogo teologico, poiché è essa sola che manifesta bene delle verità proposte infallibilmente dalla predicazione orale del magistero ordinario universale. Ma questo genere di criterio resta il semplice segno dell’infallibilità dell’insegnamento, e non la sua causa. Farne una causa significa riprendere per sé l’errore condannato dal concilio Vaticano I, estendendolo al dominio particolare del potere di magistero: «questo primato [di giurisdizione] non è stato conferito immediatamente e direttamente allo stesso beato Pietro, ma alla sua Chiesa e, per mezzo di questa, a lui come suo ministro» [13]. Questo implica anche che una proposizione del magistero sarebbe infallibile solo nella misura in cui sarebbe accettata (anche antecedentemente) dal Popolo, il che contraddice formalmente la definizione enunciata infallibilmente dallo stesso concilio Vaticano I: «queste definizioni del vescovo di Roma sono irreformabili per se stesse, e non in virtù del consenso della Chiesa» [14]. (continua)
L’istruzione Donum veritatis del 24 maggio 1990 [1], su cui si basa Mons. Ocáriz, sviluppa in dettaglio questo punto di vista. Col titolo «La verità dono di Dio al suo popolo», il primo capitolo di questo documento sviluppa l’idea già presente nel n° 12 di Lumen gentium, secondo il quale la conservazione e l’esplicitazione del deposito rivelato riguarderebbe l’intero Popolo di Dio, prima ancora di ogni distinzione gerarchica. I battezzati avrebbero in retaggio una funzione profetica, più fondamentale di quella magistrale propria degli Apostoli e dei loro successori. Il cardinale Ratzinger insiste su quest’idea, ai suoi occhi decisiva, nella Presentazione che fa dell’Istruzione Donum veritatis: «Considerando la struttura del documento, ci si sorprenderà di vedere che all’inizio non abbiamo posto il magistero, quanto il tema della verità come dono di Dio al suo popolo; la verità della fede non è donata all’individuo isolato (papa o vescovo), ma con essa Dio ha voluto dar vita ad una storia e ad una comunità. La verità risiede nel soggetto comunitario del Popolo di Dio, nella Chiesa». Del pari, Giovanni Paolo II, al n° 27 dell’Esortazione post-sinodale Pastores gregis, afferma: «Nella Chiesa, scuola del Dio vivente, vescovi e fedeli sono tutti condiscepoli e hanno tutti bisogno di essere istruiti dallo Spirito. I luoghi dove lo Spirito dona il suo insegnamento interiore sono veramente numerosi. Prima di tutto il cuore di ciascuno, poi la vita delle diverse Chiese particolari, ove appaiono e si fanno sentire i molteplici bisogni delle persone e delle diverse comunità ecclesiali, con dei linguaggi noti, ma anche con linguaggi diversi e nuovi» [2].
Qui manca la distinzione assolutamente necessaria tra destinatario e depositario-intermediario. L’intero Popolo di Dio, e molto più che il Popolo di Dio: tutti gli uomini senza eccezione, sono i destinatari della verità che deve salvarli. Ma solo alcuni individui isolati sono scelti tra gli uomini per essere i titolari di una funzione gerarchica e i depositari di questa verità, poiché è solo ad essi che è stata affidata in deposito con il compito di conservarla, e solo essi sono gli intermediari stabiliti da Dio per comunicare in suo nome la verità salutare. Vero è che la dichiarazione Mysterium Ecclesiae del 24 giugno 1973 [3], sulla quale anche si appoggia Mons. Ocáriz, dice che l’autorità del magistero è richiesta per assicurare l’unità sociale dell’espressione della fede [4]: a differenza di ciò che accade nel protestantesimo o nel modernismo di Alfred Loisy, condannato da San Pio X, il magistero è qui un’istituzione divina e solo esso è assistito da Dio per condurre il Popolo, indicandogli l’interpretazione autorizzata della Parola di Dio. Ma non dice che la funzione magisteriale è richiesta come quella di un depositario e di un intermediario, testimone privilegiato che, in quanto individuo isolato, ha ricevuto da Dio la verità della sua rivelazione con l’incarico di conservarla e di trasmetterla. E Donum veritatis non conferma su questo punto Mysterium Ecclesiae, dicendo che la verità di fede è un dono di Dio a tutto il Suo Popolo e che non è data all’individuo isolato (papa o vescovo), ma risiede nel soggetto comunitario del Popolo di Dio [5]?
Nel «Commento» pubblicato il 27 giugno 1994, allo scopo di precisare il senso della Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis, apparsa il 22 maggio precedente, il cardinale Ratzinger esprime nettamente questa nuova concezione di magistero: «La Scrittura può divenire il fondamento di una vita solo se è affidata ad un soggetto vivente – quello stesso da cui essa è nata. Essa ha avuto la sua origine nel Popolo di Dio guidato dallo Spirito Santo, e questo Popolo, questo soggetto, non ha smesso di sussistere. Il Concilio Vaticano II ha espresso tutto questo nel modo seguente: “la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura” (Dei Verbum, 9). […] Secondo la visione del Vaticano II, la Scrittura, la Tradizione e il magistero non devono essere considerate come tre realtà separate, ma la Scrittura, letta alla luce della Tradizione e vissuta nella fede dalla Chiesa, in questo contesto vitale si apre al suo pieno significato. Il magistero ha il compito di confermare questa interpretazione della Scrittura resa possibile dall’ascolto della Tradizione nella fede» [6]. In questo testo, il termine «Tradizione» è distinto da magistero ed indica la vita concreta del Popolo di Dio, cioè il contesto vitale al quale il magistero deve attingere come ad una fonte.
La catechesi dispensata da Benedetto XVI nel 2006, conferma ancora questa idea. All’origine la Chiesa deriva da una esperienza che gli Apostoli hanno vissuto con Cristo [7]. Prolungata nello spazio e nel tempo, questa esperienza suscita una comunione, che deve ricorrere al servizio del ministero apostolico per conservare la sua coesione spazio-temporale [8]. L’unità gerarchica, nel tempo e nello spazio, è una seconda unità che scaturisce da una prima unità più radicale, quella dell’esperienza comune. È così che la tradizione vivente, che è l’esperienza comune continuata nel tempo, precede e suscita la tradizione apostolica, che è il ministero continuato nel tempo come un servizio della comunione. Le due tradizioni resteranno sempre sincronizzate, e non si troverà mai la continuità dell’esperienza comune senza la continuità del ministero, poiché agli occhi di Benedetto XVI, la Chiesa non è una comunità puramente carismatica. E tuttavia, nella definizione che egli dà della Chiesa, vi è una anteriorità logica dell’esperienza comune in rapporto al ministero. Questa anteriorità è esattamente quella introdotta dall’Istruzione Donum veritatis: il Popolo di Dio depositario della verità precede in questo senso il magistero gerarchico. La Tradizione è allora intesa in un senso nuovo, come la continuità di una presenza attiva, quella di Gesù che vive nel suo Popolo [9]. Essa è compiuta dallo Spirito Santo ed espressa [10] grazie al servizio del ministero apostolico: «Questa permanente attualizzazione della presenza attiva di Gesù Signore nel suo popolo, operata dallo Spirito Santo ed espressa nella Chiesa attraverso il ministero apostolico e la comunione fraterna, è ciò che in senso teologico s'intende col termine Tradizione» [11]. Si tratta esattamente de «la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa» [12].
In questa nuova ottica, non si dice più che il ruolo del magistero è di conservare e di trasmettere in nome di Dio il deposito delle verità rivelate da Cristo agli Apostoli. Si dice che il ruolo consiste nell’assicurare la coesione dell’esperienza comunitaria delle origini, di modo che la comunione di oggi continui la comunione di ieri. Il magistero è allora al servizio del soggetto Chiesa e il suo ruolo consiste nell’esplicitare in formule autorizzate le intuizioni preconcettuali del sensus fidei.
Non si può negare la realtà di questo sensus fidei. Esso equivale al consenso unanime e infallibile della credenza. Ma si tratta proprio del consenso della Chiesa discente. Questo deriva dall’infallibilità della Chiesa docente, che è la sua causa propria. Essendo la Chiesa una e santa nella fede, la credenza dei fedeli è in defettibilmente e solidarmente docile, nel tempo e nello spazio, all’insegnamento della gerarchia magisteriale. Indubbiamente si può parlare di un certo soggetto della Tradizione in senso passivo, che è un senso lato, e che corrisponde all’insieme di tutti i credenti, ma questo soggetto è tale come semplice testimone dell’insegnamento del magistero, e il consenso della Chiesa nella credenza possiede tutt’al più il valore di un segno che fa conoscere l’infallibilità dell’insegnamento che ha proposto a credere la verità creduta unanimemente. In questo senso, la professione di fede indefettibile della Chiesa discente rappresenta un luogo teologico, poiché è essa sola che manifesta bene delle verità proposte infallibilmente dalla predicazione orale del magistero ordinario universale. Ma questo genere di criterio resta il semplice segno dell’infallibilità dell’insegnamento, e non la sua causa. Farne una causa significa riprendere per sé l’errore condannato dal concilio Vaticano I, estendendolo al dominio particolare del potere di magistero: «questo primato [di giurisdizione] non è stato conferito immediatamente e direttamente allo stesso beato Pietro, ma alla sua Chiesa e, per mezzo di questa, a lui come suo ministro» [13]. Questo implica anche che una proposizione del magistero sarebbe infallibile solo nella misura in cui sarebbe accettata (anche antecedentemente) dal Popolo, il che contraddice formalmente la definizione enunciata infallibilmente dallo stesso concilio Vaticano I: «queste definizioni del vescovo di Roma sono irreformabili per se stesse, e non in virtù del consenso della Chiesa» [14]. (continua)
(Fine IV parte)
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NOTE
[1] DC 2010 del 15 luglio 1990, pp. 693-701.
[2] DC 2302, col. 1022. Sono i nn° 26-28 di questo testo che vanno in questo senso.
[3] DC 1636 del 15 luglio 1973, pp. 664-671; commento pp. 837-839.
[4] Il n° 2 precisa in effetti che « lo Spirito Santo illumina e soccorre il Popolo di Dio, in quanto è il corpo di Cristo, unito in comunione gerarchica» e aggiunge che se il Popolo di Dio aderisce alla fede, questo avviene, non solo grazie a quel senso della fede, risvegliato e sostenuto dallo Spirito di verità, ma anche «sotto la guida del magistero»; rivestiti dell’autorità di Cristo, i pastori hanno il potere di insegnare e il loro ruolo non si riduce a ratificare il consenso già espresso dai semplici fedeli, essi «nell’interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o trasmessa» possono «prevenire ed esigere tale consenso».
[5] Cfr. la Presentazione del cardinale Ratzinger all’Istruzione Donum veritatis: «Il documento tratta del problema della missione ecclesiale del teologo, non a partire dal dualismo magistero-teologia, ma nel contesto della relazione triangolare: Popolo di Dio, in quanto portatore del senso della fede e luogo comune a tutti dell’insieme della fede; magistero; teologia. Lo sviluppo del dogma negli ultimi 150 anni è una dimostrazione molto chiara di questa complessa relazione; i dogmi del 1854, 1870 e 1950 furono possibili perché essendo stati ripresi dal senso della fede, il magistero e la teologia furono condotti da quest’ultimo e cercarono lentamente di raggiungerli» (L’Osservatore romano, edizione settimanale francese del 10 luglio 1990, p. 9). D’altronde, Il quarto capitolo dell’Istruzione Donum veritatis presenta i rapporti che esistono tra il magistero e i teologi come dei rapporti, non tra dirigenti e diretti, ma di collaborazione (§ 22). Questa idea della collaborazione è l’idea nuova di una dipendenza reciproca nella comune dipendenza rispetto al Popolo. Non si tratta più dell’idea tradizionale della dipendenza del teologo, Chiesa discente, dal magistero, Chiesa docente.
[6] DC 2097 del 3 luglio 1994, p. 613.
[7] «L'avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annunciatori di un'idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno "stare" con Gesù (cfr Mc 3, 14), stabilendo con lui un rapporto personale. Su questa base, l'evangelizzazione altro non sarà che un annuncio di ciò che si è sperimentato e un invito ad entrare nel mistero della comunione con Cristo» Benedetto XVI, Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo, udienza del 22 marzo 2006, in L’Osservatore romano ed. francese n. 13 del 28 marzo 2006, p. 12.
[8] «Attraverso il ministero apostolico, la Chiesa, comunità radunata dal Figlio di Dio venuto nella carne, vivrà nel succedersi dei tempi edificando e nutrendo la comunione in Cristo e nello Spirito, alla quale tutti sono chiamati e nella quale possono fare esperienza della salvezza donata dal Padre. I Dodici ebbero cura, infatti, di costituirsi dei successori, affinché la missione loro affidata continuasse dopo la loro morte. Nel corso dei secoli la Chiesa, organicamente strutturata sotto la guida dei legittimi Pastori, ha così continuato a vivere nel mondo come mistero di comunione, nel quale si rispecchia in qualche misura la stessa comunione trinitaria, il mistero di Dio stesso». Benedetto XVI, Il dono della Comunione, udienza del 29 marzo 2006, in L’Osservatore romano ed. francese n. 14 del 4 aprile 2006, p. 12.
[9] Questa idea si ritrova in uno studio di Joseph Ratzinger, scritto nel 1965, e pubblicato al capitolo 2 di La Parole de Dieu, Ecriture Sainte, Tradition, Magistère, Parole et Silence, 2007, in particolare alle pp. 68-70. L’enciclica Deus caritas est riprende lo stesso tema nel suo n° 1 (DC n° 2352, col. 166): « All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Di primo acchito, una simile descrizione richiama più un atto affettivo che un atto intellettuale. Ora, l’unione con Cristo si realizza innanzi tutto con la fede e questa è un atto formalmente intellettuale. L’intelligenza è fatta non per incontrare delle persone, ma per conoscere la realtà mediante dei concetti e attraverso delle formule. La facoltà che si mette direttamente in rapporto con la realtà come essa esiste concretamente, e dunque con una persona, è la volontà. E la volontà che va incontro a Dio è la carità. Le espressioni utilizzate da Benedetto XVI suggeriscono una confusione tra la fede e la carità. L’«incontro con una persona» attiene all’amicizia e non alla conoscenza. L’esperienza soprannaturale (per analogia con l’esperienza naturale) che ci mette in relazione (o in contatto) con Dio e che suscita una conoscenza per connaturalità, esiste certo, ma essa ha luogo con gli atti dei doni dello Spirito Santo, il cui motivo formale è di ordine affettivo, poiché questi doni poggiano sulla carità. Non si potrebbe negare che la fede deve arricchirsi di questi doni, ma per essere uniti nella vita spirituale concreta, fede e doni devono restare formalmente distinti nella loro definizione, agli occhi del magistero e della teologia. E dal momento che ogni peccatore non è per questo un infedele, la fede può anche incontrarsi concretamente nella Chiesa, senza la carità né i doni.
[10] Mysterium Ecclesiae (citando al volo la condanna della proposizione n° 6 in Lamentabili) afferma in questo senso che il ruolo del magistero non si limita a ratificare il consenso già espresso dai semplici fedeli. Ma vi è differenza tra dire che il magistero ecclesiastico trasmette e impone a credere ai fedeli la verità di cui è depositario, in quanto continuatore del magistero apostolico, e dire che il magistero ecclesiastico impone l’espressione adeguata di una verità di cui è depositario il Popolo perché il suo senso della fede la detiene al suo stato preconcettuale. Questa seconda affermazione non sfugge alla condanna di Lamentabili. La proposizione condannata n° 6 dice infatti: « Nella definizione delle verità, la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in tale maniera che alla Chiesa docente non resta altro che ratificare le comuni opinioni di quella discente» (DS 3406).
[11] Benedetto XVI, La Comunione nel tempo: la Tradizione, udienza del 26 aprile 2006, in L’Osservatore romano n. 18 dell’ed. francese del 2 maggio 2006, p. 12.
[12] Benedetto XVI, ibidem.
[13] Concilio Vaticano I, costituzione Pastor æternus, cap. 1, DS 3054.
[14] Concilio Vaticano I, costituzione Pastor æternus, cap. 4, DS 3074.
NOTE
[1] DC 2010 del 15 luglio 1990, pp. 693-701.
[2] DC 2302, col. 1022. Sono i nn° 26-28 di questo testo che vanno in questo senso.
[3] DC 1636 del 15 luglio 1973, pp. 664-671; commento pp. 837-839.
[4] Il n° 2 precisa in effetti che « lo Spirito Santo illumina e soccorre il Popolo di Dio, in quanto è il corpo di Cristo, unito in comunione gerarchica» e aggiunge che se il Popolo di Dio aderisce alla fede, questo avviene, non solo grazie a quel senso della fede, risvegliato e sostenuto dallo Spirito di verità, ma anche «sotto la guida del magistero»; rivestiti dell’autorità di Cristo, i pastori hanno il potere di insegnare e il loro ruolo non si riduce a ratificare il consenso già espresso dai semplici fedeli, essi «nell’interpretazione e nella spiegazione della parola di Dio scritta o trasmessa» possono «prevenire ed esigere tale consenso».
[5] Cfr. la Presentazione del cardinale Ratzinger all’Istruzione Donum veritatis: «Il documento tratta del problema della missione ecclesiale del teologo, non a partire dal dualismo magistero-teologia, ma nel contesto della relazione triangolare: Popolo di Dio, in quanto portatore del senso della fede e luogo comune a tutti dell’insieme della fede; magistero; teologia. Lo sviluppo del dogma negli ultimi 150 anni è una dimostrazione molto chiara di questa complessa relazione; i dogmi del 1854, 1870 e 1950 furono possibili perché essendo stati ripresi dal senso della fede, il magistero e la teologia furono condotti da quest’ultimo e cercarono lentamente di raggiungerli» (L’Osservatore romano, edizione settimanale francese del 10 luglio 1990, p. 9). D’altronde, Il quarto capitolo dell’Istruzione Donum veritatis presenta i rapporti che esistono tra il magistero e i teologi come dei rapporti, non tra dirigenti e diretti, ma di collaborazione (§ 22). Questa idea della collaborazione è l’idea nuova di una dipendenza reciproca nella comune dipendenza rispetto al Popolo. Non si tratta più dell’idea tradizionale della dipendenza del teologo, Chiesa discente, dal magistero, Chiesa docente.
[6] DC 2097 del 3 luglio 1994, p. 613.
[7] «L'avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annunciatori di un'idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno "stare" con Gesù (cfr Mc 3, 14), stabilendo con lui un rapporto personale. Su questa base, l'evangelizzazione altro non sarà che un annuncio di ciò che si è sperimentato e un invito ad entrare nel mistero della comunione con Cristo» Benedetto XVI, Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo, udienza del 22 marzo 2006, in L’Osservatore romano ed. francese n. 13 del 28 marzo 2006, p. 12.
[8] «Attraverso il ministero apostolico, la Chiesa, comunità radunata dal Figlio di Dio venuto nella carne, vivrà nel succedersi dei tempi edificando e nutrendo la comunione in Cristo e nello Spirito, alla quale tutti sono chiamati e nella quale possono fare esperienza della salvezza donata dal Padre. I Dodici ebbero cura, infatti, di costituirsi dei successori, affinché la missione loro affidata continuasse dopo la loro morte. Nel corso dei secoli la Chiesa, organicamente strutturata sotto la guida dei legittimi Pastori, ha così continuato a vivere nel mondo come mistero di comunione, nel quale si rispecchia in qualche misura la stessa comunione trinitaria, il mistero di Dio stesso». Benedetto XVI, Il dono della Comunione, udienza del 29 marzo 2006, in L’Osservatore romano ed. francese n. 14 del 4 aprile 2006, p. 12.
[9] Questa idea si ritrova in uno studio di Joseph Ratzinger, scritto nel 1965, e pubblicato al capitolo 2 di La Parole de Dieu, Ecriture Sainte, Tradition, Magistère, Parole et Silence, 2007, in particolare alle pp. 68-70. L’enciclica Deus caritas est riprende lo stesso tema nel suo n° 1 (DC n° 2352, col. 166): « All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Di primo acchito, una simile descrizione richiama più un atto affettivo che un atto intellettuale. Ora, l’unione con Cristo si realizza innanzi tutto con la fede e questa è un atto formalmente intellettuale. L’intelligenza è fatta non per incontrare delle persone, ma per conoscere la realtà mediante dei concetti e attraverso delle formule. La facoltà che si mette direttamente in rapporto con la realtà come essa esiste concretamente, e dunque con una persona, è la volontà. E la volontà che va incontro a Dio è la carità. Le espressioni utilizzate da Benedetto XVI suggeriscono una confusione tra la fede e la carità. L’«incontro con una persona» attiene all’amicizia e non alla conoscenza. L’esperienza soprannaturale (per analogia con l’esperienza naturale) che ci mette in relazione (o in contatto) con Dio e che suscita una conoscenza per connaturalità, esiste certo, ma essa ha luogo con gli atti dei doni dello Spirito Santo, il cui motivo formale è di ordine affettivo, poiché questi doni poggiano sulla carità. Non si potrebbe negare che la fede deve arricchirsi di questi doni, ma per essere uniti nella vita spirituale concreta, fede e doni devono restare formalmente distinti nella loro definizione, agli occhi del magistero e della teologia. E dal momento che ogni peccatore non è per questo un infedele, la fede può anche incontrarsi concretamente nella Chiesa, senza la carità né i doni.
[10] Mysterium Ecclesiae (citando al volo la condanna della proposizione n° 6 in Lamentabili) afferma in questo senso che il ruolo del magistero non si limita a ratificare il consenso già espresso dai semplici fedeli. Ma vi è differenza tra dire che il magistero ecclesiastico trasmette e impone a credere ai fedeli la verità di cui è depositario, in quanto continuatore del magistero apostolico, e dire che il magistero ecclesiastico impone l’espressione adeguata di una verità di cui è depositario il Popolo perché il suo senso della fede la detiene al suo stato preconcettuale. Questa seconda affermazione non sfugge alla condanna di Lamentabili. La proposizione condannata n° 6 dice infatti: « Nella definizione delle verità, la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in tale maniera che alla Chiesa docente non resta altro che ratificare le comuni opinioni di quella discente» (DS 3406).
[11] Benedetto XVI, La Comunione nel tempo: la Tradizione, udienza del 26 aprile 2006, in L’Osservatore romano n. 18 dell’ed. francese del 2 maggio 2006, p. 12.
[12] Benedetto XVI, ibidem.
[13] Concilio Vaticano I, costituzione Pastor æternus, cap. 1, DS 3054.
[14] Concilio Vaticano I, costituzione Pastor æternus, cap. 4, DS 3074.
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