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mercoledì 28 dicembre 2011

Approfondimento del Professor Don Jean-Michel Gleize - III parte



Pubblichiamo la terza parte di uno studio di don Jean-Michel Gleize, membro della Commissione della Fraternità Sacerdotale San Pio X per le discussioni con Roma, in risposta a quanto affermato da Monsignor Fernando Ocáriz apparso su "L’Osservatore Romano". (segue dalla II parte: http://blog.messainlatino.it/2011/12/approfondimenti-di-don.html)



6 IL CASO DEL VATICANO II:UN NUOVO MAGISTERO PASTORALE



Il discorso d’apertura di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962)[1], l’allocuzione dello stesso indirizzata al Sacro Collegio il 23 dicembre 1962[2] e il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005[3] indicano chiaramente l’intenzione del Concilio e il significato esatto di «magistero pastorale». Il Vaticano II ha voluto esprimere la fede della Chiesa secondo i modi di ricerca e di formulazione letteraria del pensiero moderno, e ha voluto ridefinire la relazione della fede della Chiesa nei confronti di certi elementi essenziali di tale pensiero.
È del tutto evidente che il magistero della Chiesa è sempre pastorale nelle sue intenzioni, nel senso che in ogni epoca storica la prudenza dei pastori propone la verità per guidare le anime verso la salvezza eterna. Ma, al tempo stesso, l’insegnamento del magistero della Chiesa resta sempre di natura strettamente dottrinale e disciplinare nel suo oggetto. Le dichiarazioni di Giovanni XXIII affermano chiaramente che, a differenza di tutti i concili precedenti, il Vaticano II ha voluto essere pastorale fin nel suo oggetto. Anche se questo concilio ha potuto prendere per oggetto materiale di studio dei punti differenti sia dottrinali, sia disciplinari, sia pastorali, l’ottica unica e specifica secondo la quale ha voluto considerare tutti questi punti, vale a dire il suo oggetto formale, non fu dottrinale, ma pastorale, in un senso fondamentalmente nuovo. Cosa che spiega, peraltro, la perplessità di un gran numero di padri conciliari al cospetto di un genere di testi sconosciuto fino ad allora. Quando il magistero della Chiesa propone l’oggetto della fede ricorrendo al linguaggio tratto dalla filosofia naturale all’intelligenza umana [4], questo apporto filosofico è quello di uno strumento concettuale e verbale posto al servizio della più perfetta espressione delle verità rivelate. Il Vaticano II ha voluto «studiare ed esporre la dottrina», non solo «secondo le formulazioni letterarie», ma anche «secondo i modi di ricerca del pensiero moderno». Se ci si attiene a questa intenzione espressa da Giovanni XXIII, si è obbligati a dire che il Concilio ha voluto ricorrere al pensiero moderno, non solo come ad uno strumento, ma anche e soprattutto come ad un vero oggetto formale, principio e metodo per lo studio e per l’esposizione della dottrina. È qui che il «pastorale» assume tutto il suo significato. L’intenzione esplicita del Vaticano II è stata quella di ricevere dal mondo le problematiche nuove sorte nell’epoca moderna.
Come prova supplementare possiamo prendere ciò che ha scritto il card. Ratzinger nel suo libro Les principes de la théologie catholique[5], pubblicato in francese nel 1982. L’epilogo di questo libro è intitolato: «La Chiesa e il mondo: a proposito della questione della ricezione del Concilio Vaticano II»[6]. Il Prefetto della fede vi afferma: «Di tutti i testi del Concilio Vaticano II, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes) è stata incontestabilmente la più difficile e anche […] la più gravida di conseguenze. Per la sua forma e la direzione delle sue dichiarazioni, essa si allontana in larga misura dalla linea della storia dei concilii e per ciò stesso permette, più di tutti gli altri testi, di cogliere la speciale fisionomia dell’ultimo concilio. È per questo che, dopo il Concilio, è stata considerata sempre di più come il suo vero testamento: dopo un processo di fermentazione di tre anni, sembra che la sua vera volontà sia infine apparsa e abbia trovato la sua forma. L’incertezza che pesa ancora sulla questione del vero significato del Vaticano II è in rapporto con delle diagnosi di questo genere e dunque in rapporto con questo documento»[7]. […] «Ancora una volta, dobbiamo interrogarci su ciò che la costituzione pastorale comporta precisamente di nuovo e di speciale […] un primo punto caratteristico mi sembra consista nel concetto di “mondo” che vi si trova. […] La costituzione intende per “mondo” un dirimpettaio della Chiesa. Il testo deve servire a condurre entrambi ad un rapporto positivo di cooperazione, il cui scopo è la costruzione del “mondo”. La Chiesa coopera col “mondo” per costruire il “mondo” – è così che si potrebbe caratterizzare la visione determinante del testo. […] Sembra che per mondo si intenda l’insieme delle realtà scientifiche e tecniche del tempo presente, e tutti gli uomini che le sostengono o le hanno assimilate nella loro mentalità»[8]. Nessuna sorpresa quindi quando il card. Ratzinger dice ancora: «Il testo di Gaudium et spes svolge il ruolo di un contro-Syllabus nella misura in cui rappresenta un tentativo per una riconciliazione ufficiale della Chiesa col mondo, così com’esso era divenuto dal 1789»[9]. O anche: «Il Vaticano II aveva ragione di auspicare una revisione dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. Ci sono dei valori che, anche se nati fuori dalla Chiesa, possono trovare il loro posto – purché vagliati e corretti - nella sua visione»[10]. Fondato sul metodo di ricerca del pensiero moderno, il Concilio dà necessariamente degli insegnamenti che lo rendono dipendente dal mondo moderno.
Senza dubbio, il mondo moderno può essere indotto a porsi in maniera nuova certe questioni eterne, alle quali la Chiesa apporterà (forse in termini più espliciti) delle risposte che derivano sempre dagli stessi principi e dallo stesso metodo. Ma il Vaticano II non ha esaminato alla luce della fede le nuove questioni sollevate dalla modernità, al contrario, ha perfino rifiutato esplicitamente di esaminarne un buon numero, la cui importanza era invece riconosciuta da tutti i cattolici, come la questione del comunismo. La specificità che fa del Vaticano II un caso assolutamente unico è quella di aver voluto proporre la fede alla luce e secondo il modo di pensare moderno. Ora, nessun concilio potrebbe far suoi questi modi di ricerca del pensiero o della cultura del mondo moderno, « com’esso era divenuto dal 1789»[11]. I principi e il metodo del magistero ecclesiastico sono stati sufficientemente indicati dal concilio Vaticano I: «La dottrina della fede, che Dio ha rivelato, non è stata proposta all’intelligenza umana come un sistema filosofico da perfezionare, ma, come un divino deposito, è stata affidata alla Chiesa, sposa di Cristo, perché la custodisca fedelmente e infallibilmente la proclami»[12]. La conseguenza è indicata da Pio XII, nell’enciclica Humani generis: «è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell'erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento».
D’altra parte, proponendosi di esprimere la fede secondo i modi di ricerca del pensiero moderno, il Concilio non voleva indirizzarsi primariamente ai cattolici, ma all’uomo moderno in generale. Ma nel darsi un tale uditorio, il Concilio rinunciava per ciò stesso ad esporre formalmente la fede con l’autorità di un magistero propriamente detto, che parla a nome di Dio, poiché il suo interlocutore era per definizione refrattario o indifferente al messaggio della Chiesa. Il Vaticano II poteva pretendere solo di enunciare la fede in maniera del tutto materiale, secondo un procedimento affatto magisteriale, ma apologetico, e poteva proporsi di rendere la fede accettabile all’uomo moderno, mostrandogli che la verità rivelata non mette in causa le categorie del suo pensiero. Qui non giudichiamo l’efficacia apologetica di un tale procedimento (i fatti parlano da soli), sottolineiamo semplicemente la sua grande debolezza magisteriale.
Di conseguenza, è falso affermare, come fa Mons. Ocáriz, una costanza di metodo in virtù della quale i testi del Vaticano II chiarirebbero legittimamente quelli del magistero precedente al 1962. Infatti, da un lato, lo scopo del Vaticano II non era quello di riprendere e di precisare questi insegnamenti, e dall’altro, il Vaticano II ha voluto esprimere la fede secondo i principi e i metodi di un sistema filosofico contrario alla fede[13], non solo in questo o in quello dei suoi contenuti, ma fin nelle fondamenta, cioè nei suoi dubbi criteriologici. Pertanto, un tale sistema, non solo è incompatibile col cattolicesimo, ma si oppone direttamente alla metafisica naturale dell’intelligenza, rimettendo in questione la sua capacità di conoscere il vero. La filosofia moderna ha capovolto il rapporto tra il soggetto e l’oggetto, e per ciò stesso il rapporto tra l’uomo e Dio. Assumendo i modi di ricerca della modernità, il pensiero conciliare ha fatto suo questo capovolgimento, come dimostra chiaramente, per esempio, nella dichiarazione sulla libertà religiosa: il principio e il fondamento di questa dichiarazione non è altro che il primato della dignità ontologica sulla dignità morale, cioè il primato del soggetto sull’oggetto. Una simile inversione è assolutamente contraria al principio criteriologico supposto dalla rivelazione, dalla tradizione e dal magistero, cioè al principio dell’oggettività più realista. Un presupposto soggettivista non può servire di base ad una interpretazione che si propone di chiarire il senso e la portata di un magistero i cui presupposti oggettivi vengono radicalmente capovolti.

7 IL CASO DEL VATICANO II:
DEGLI INSEGNAMENTI NUOVI CONTRARI ALLA TRADIZIONE

Almeno su quattro punti, gli insegnamenti del concilio Vaticano II sono in evidente contraddizione logica con gli enunciati del precedente magistero tradizionale, così che è impossibile interpretarli in conformità con gli altri insegnamenti già contenuti nei precedenti documenti del magistero ecclesiastico. Il Vaticano II ha dunque rotto l’unità del magistero, così come ha rotto l’unità del suo oggetto.
Questi quattro punti sono i seguenti. La dottrina sulla libertà religiosa, così com’è espressa nel n° 2 della Dichiarazione Dignitatis humanae, contraddice gli insegnamenti di Gregorio XVI nella Mirari vos, e di Pio IX nella Quanta cura, come anche quelli di papa Leone XIII nella Immortali Dei e quelli di Pio XI nella Quas primas[14]. La dottrina sulla Chiesa, così com’è espressa nel n° 8 della costituzione Lumen gentium, contraddice gli insegnamenti del papa Pio XII nella Mystici corporis e nella Humani generis[15]. La dottrina sull’ecumenismo, così com’è espressa al n° 8 della Lumen gentium e al n° 3 del decreto Unitatis redintegratio, contraddice gli insegnamenti del papa Pio IX nelle proposizioni 16 e 17 del Syllabus, quelli di Leone XIII nella Satis cognitum e quelli del papa Pio XI nella Mortalium animos[16]. La dottrina sulla collegialità, così com’è espressa nel n° 22 della costituzione Lumen gentium, compreso il n° 3 della Nota praevia, contraddice gli insegnamenti del Concilio Vaticano I sull’unicità di soggetto del potere supremo nella Chiesa, contenuti nella costituzione Pastor aeternus.
Per di più[17], la riforma liturgica del 1969 ha prodotto la confezione di un Novus Ordo Missae che «rappresenta, nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino»[18]. La restaurazione del rito della Messa attuato da San Pio V aveva raggiunto il risultato di esplicitare gli aspetti della fede cattolica negati dall’eresia protestante. La riforma liturgica compiuta da Paolo VI ottenne il risultato di occultare questi stessi aspetti, proprio nello stesso tempo in cui risorgevano con forza accresciuta le eresie che avevano reso indispensabile l’esplicitazione di tali aspetti. Il Messale di Paolo VI, dunque, non è venuto a precisare quello di San Pio V, esso se n’è allontanato, nel senso che ha reso oscuro ed ambiguo ciò che il Messale di San Pio V aveva chiarificato e reso esplicito. Se si obietta che la riforma liturgica di Paolo VI ha voluto esplicitare altri aspetti fino ad allora rimasti in ombra, rispondiamo che una nuova esplicitazione non può rimettere in discussione l’esplicitazione avvenuta prima, cosa che invece ha fatto il nuovo Messale del 1969, occultando gli aspetti della fede cattolica negati precisamente dalle eresie protestanti.
Sui quattro punti indicati, come nella riforma liturgica che ne è seguita, il Concilio Vaticano II presenta agli occhi del cattolico perplesso delle contraddizioni evidentemente inaccettabili. Presa nel suo insieme, la grande riforma del Vaticano II appare come uno strano amalgama, un sottile miscuglio di verità parziali e di errori già condannati[19]. Infettato dai principi del liberalismo e del modernismo, questo insegnamento presenta delle gravi deficienze. Queste impediscono sicuramente di guardare al Vaticano II come ad un concilio come gli altri, rappresentante l’espressione autorizzata della Tradizione oggettiva. Ed impedisce anche che si possa dire che l’ultimo Concilio si iscriva nell’unità del magistero di sempre.



8 UNA NUOVA PROBLEMATICA

In conformità col discorso del 2005, Mons. Ocáriz pone il principio di una «interpretazione unitaria», in base alla quale i testi del concilio Vaticano II e i documenti magisteriali precedenti dovrebbero chiarirsi reciprocamente. Non solo il concilio Vaticano II dev’essere interpretato alla luce dei documenti magisteriali precedenti, ma anche alcuni di questi ultimi si comprendono meglio alla luce del Vaticano II. L’interpretazione delle novità insegnate dal concilio Vaticano II deve dunque rigettare, come ha detto Benedetto XVI, «l’ermeneutica della discontinuità nei confronti della Tradizione, mentre deve affermare l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità». Si trova qui un nuovo vocabolario che esprime chiaramente una nuova problematica; quella che ispira tutto il ragionamento di Mons. Ocáriz. «Una caratteristica essenziale del magistero», egli scrive, «è la sua continuità e la sua omogeneità nel tempo».

Questo vocabolario è nuovo. Le idee che veicola anche. Se si parla di «continuità» o di «rottura», si dovrebbe trattare, in senso tradizionale, di una continuità o di una rottura oggettive, cioè tali in rapporto all’oggetto della predicazione della Chiesa. Parlare di continuità quindi significherebbe parlare dell’insieme delle verità rivelate come il magistero della Chiesa le conserva e le espone, dando loro lo stesso significato, e senza che la predicazione presente possa contraddire la predicazione passata. La rottura consisterebbe nell’arrecare danno al carattere immutabile della Tradizione oggettiva e quindi sarebbe sinonimo di contraddizione logica fra due enunciati i cui rispettivi significati non potrebbero sussistere simultaneamente.
M
a bisogna arrendersi all’evidenza e riconoscere che il termine «continuità» non ha affatto questo significato tradizionale negli attuali discorsi degli uomini di Chiesa. E precisamente si parla di continuità a proposito di un soggetto che evolve nel corso del tempo. Non si tratta della continuità di un oggetto, quella del dogma o della dottrina, che il Magistero della Chiesa esporrebbe oggi, dandogli lo stesso senso di un tempo. Si tratta della continuità dell’unico soggetto Chiesa. D’altronde, Benedetto XVI parla esattamente, non di continuità, ma «del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino». Al contrario, egli aggiunge subito, «L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare». Questo significa che la rottura deve situarsi allo stesso livello: una rottura tra due soggetti, nel senso che la Chiesa, l’unico soggetto del Popolo di Dio, non sarebbe più la stessa prima e dopo il Concilio.



NOTE
[1] DC (La Documentation catholique) n° 1387 del 4 novembre 1962, col. 1382-1383.
[2] DC n° 1391 del 6 gennaio 1963, col. 101.
[3] DC n° 2350 del 15 gennaio 2006, col. 59-63.
4] Pio XII, Humani generis: «Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili principî della metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità ed infine sostiene che si può raggiungere la verità certa ed immutabile».
5] Joseph Ratzinger, Les Principes de la théologie catholique. Esquisse et matériaux, Téqui, 1982
[6] Ratzinger, ibidem, p. 423-440.
7] Ratzinger, ibidem, p. 423.
8] Ratzinger, ibidem, p. 424-425.
9] Ratzinger, ibidem, p. 427.
10] Cardinal Joseph Ratzinger, Entretiens sur la foi, Fayard, 1985, p. 38 [Rapporto sulla fede, Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Ed. Paoline, 1985, p. 34].
[11] Joseph Ratzinger, Les Principes de la théologie catholique. Esquisse et matériaux, Téqui, 1982, pp. 426-427.
[12] Costituzione dogmatica Dei Filius, cap. 4, DS 3020.
13] Il magistero anteriore al Vaticano II ha condannato l’intenzione di incorporare la filosofia moderna alla teologia, dal momento che questa filosofia è imbevuta di razionalismo, di scetticismo e di relativismo. Cfr. per esempio, il Breve Eximiam tuam di Pio IX all’arcivescovo di Colonia, del 15 giugno 1857 (DS 2829), con il quale condanna la filosofia di Gunther.
[
14] Il magistero precedente (Pio IX) condanna la proposizione che afferma che «la migliore condizione della società è quella in cui non si riconosce al potere il dovere di reprimere con delle pene legali i violatori della legge cattolica, se non nella misura in cui è richiesto dalla tranquillità pubblica»; DH 2 afferma che «la persona umana ha diritto alla libertà religiosa» e che «Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata».
[15] Pio XII afferma l’identità reale tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica; LG 8 afferma la non separazione di due realtà distinte che sono la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica.
[16] Il magistero anteriore afferma che al di fuori della Chiesa cattolica, nelle sette scismatiche ed eretiche prese come tali, non vi è alcun valore salvifico e che la Divina Provvidenza non si serve di queste sette come dei mezzi di salvezza; il Vaticano II afferma esattamente il contrario.
[17] La pubblicazione del Novus Ordo Missae nel 1969 non ha fatto altro che aggravare la crisi, suscitando delle difficoltà supplementari. Ma la crisi della Chiesa non è per prima cosa e innanzi tutto la crisi della Messa, è crisi del Concilio. Le due cose sono collegate, ma bisogna fare attenzione all’ordine che le collega, cogliendo bene dov’è la fonte principale del male. La nuova Messa (esattamente come il nuovo Codice di Diritto Canonico) avvelena la gente più efficacemente del Concilio, essa si può dire che è come l’imbuto col quale si versa nella bottiglia il veleno del Concilio, ma ciò non toglie che la fonte del veleno è il Concilio stesso. [Noi di MiL, come pensiamo molti altri cattolici legati alla Tradizione ma fedeli al Papa, riteniamo che il linguaggio di questa nota - nota che non condividiamo affatto- non appartenga alla Teologia, e non sia confacente a una "legittima discussione".. n.d.r.]



[18] Cardinali Ottaviani e Bacci, lettera di presentazione del Breve esame critico del Novus Ordo Missae al papa Paolo VI, 1969.
[19] «Senza rigettare in blocco questo Concilio, io penso che si tratti del più grande disastro di questo secolo, e di tutti i secoli passati, dalla fondazione della Chiesa» (Mgr Lefebvre, Ils L’ont découronné, Editions Fideliter, 1986, p. XIII [Marcel Lefebvre, L’hanno detronizzato, Ed. Amicizia Cristiana, 2009]). Non è una questione di quantità o di percentuale (tale testo è buono, tal’altro è cattivo; tale passo è cattolico, tal’altro è modernista; tutto è buono; tutto è cattivo). Il modernismo è un errore unico nel suo genere, nel senso che amalgama degli enunciati materialmente veri con degli enunciati che sono più spesso incompleti, ambigui, contraddittori e raramente falsi in maniera chiara. Il risultato di questo amalgama è un insieme di enunciati erroneo nella sua coerenza interna, ma che conserva l’apparenza del vero in ogni punto parziale e isolato dall’insieme, con i passi buoni che vengono utilizzati per avallare i soggiacenti principi errati. San Pio X ha definitivamente diagnosticato il cancro del modernismo dicendo che questa malattia è «tanto più temibile, per quanto meno palese».



(Terza parte - continua)

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