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venerdì 11 novembre 2011

"Il canto gregoriano nel senso comune" di Giannicola D'Amico


Dal blog degli amici pugliesi http://ecclesia-mater.blogspot.com/2011/11/il-canto-gregoriano-nel-senso-comune.html propondo alla Vostra lettura un articolo del M° Giannicola D’Amico, Direttore della Schola Cantorum S. Cecilia di Monopoli; Autore del libro: Il canto gregoriano nel Magistero della chiesa, opportunamente recensito su MIL .
Ringrazio gli amici che cortesemente me lo hanno indicato . A.C.

“ Qualche sera fa, invitato a dire due parole circa il canto liturgico in occasione della presentazione a Monopoli dell’ultimo libro di don Bux, assistevo alla illustrazione dell’opinione del Vescovo diocesano, mons. Domenico Padovano, il quale non faceva mistero della sua contrarietà alle idee esposte nel libro.
Non entro nel merito di alcune questioni particolari sollevate dal Vescovo, cui risponderanno i liturgisti, ma vorrei soffermarmi sulle affermazioni del Presule circa il canto gregoriano, di cui ha detto “Una grande opera d’arte” ma ne ha negato l’utilità per via della lingua latina, quando esso fosse intonato, come avviene nelle nostre parrocchie, dalle “povere donne che non sanno nemmeno cosa cantano”.
Senza scomodare il rapporto corretto culto pubblico/devozioni private, il quale inerisce anche le questioni musicali (che qui è bene tralasciare, per brevità), bisogna dire con rincrescimento che il Vescovo, su questo punto, commette un errore che però, a sua discolpa, è oggigiorno frequente e comune.
E ciò sia detto col massimo rispetto per l'uomo e, soprattutto, per il ministero che esercita, verso il quale bisogna nutrire la più alta considerazione.
Nessuno al giorno d'oggi, soprattutto nel clero, si sogna di negare valore artistico al canto gregoriano, ma perlopiù gli si nega la sua natura liturgica primigenia e la sua stessa funzione ontologica, se non de jure (e ciò solo perché le fonti primarie del Magistero lo impediscono), almeno abbondantemente de facto.
Esso è, e resta, Parola di Dio cantata.
Ovvero: prima di essere un’opera d’arte è parte integrante e, in alcuni casi necessaria, della liturgia.
Si è totalmente capovolta la prospettiva esistente prima della riforma solesmense, quando il gregoriano – eseguito male o malissimo, trascritto anche peggio, non certo reputato al livello artistico della polifonia sacra o dello stile concertato ecclesiastico - era considerato cifra imprescindibile della liturgia e potente antemurale alle degenerazioni secolaristiche dei riti, veicolate perlopiù attraverso il canale della musica.
Tutto il lavoro esegetico compiuto in Europa sulle fonti del canto gregoriano, dagli anni Cinquanta del XIX sec., aveva ricostruito il volto vero del canto liturgico occidentale facendo recuperare allo sterminato repertorio quella facies estetica perduta nei secoli, senza cacciarlo dalla sua sedes materiae, ma anzi avvalorando l’idea che la Chiesa avesse sempre usato per “spiegare” la Parola di Dio e per rendere il culto nobile ed elevato, uno dei più stupefacenti, polimorfi e appropriati monumenti d’arte di tutti i tempi.
Oggi, dopo più di centocinquantanni di studi liturgici, paleografici, filologici, musicali, semiologici e semiografici, sortiti dall’opera di dom Prospero Gueranger (che non fu un musicista, ma un monaco e un eccelso liturgista) e dei suoi successori di Solesmes, per via di una erronea interpretazione delle disposizioni di quel Concilio Vaticano II che, nella Costituzione liturgica, invece, portò a coronamento le istanze solesmensi, auspicando ulteriori approfondimenti scientifici e più ampia diffusione pratica del gregoriano, assistiamo a questi evidenti sviamenti dovuti a quella che il S. Padre ha definito “ermeneutica della discontinuità”.
La normativa applicativa della Cost. Lit. Sacrosanctum Concilium non fa altro che ribadire questi concetti e anche documenti magisteriali in materia contigua chiarificano il tema.
Mons. Padovano ha ragione a dire che spesso il popolo, nel cantare latino e gregoriano poco o nulla “comprende”.
Ma è sufficiente questo per abolirlo?
Di questo passo si sopprimerebbe la Comunione perché i fedeli perlopiù, con le categorie della ragione o della cultura che hanno, non capiscono la transustanziazione delle SS. Specie.
Si dovrebbe pure abolire la Messa, o riservarla a quei pochi che ne comprendono la intima natura aldilà del semplice dato rituale o precettizio, e si dovrebbe infine mandare in soffitta la dottrina e la dogmatica: quanti riescono a padroneggiare con cognizione di causa l’inabitazione dello Spirito Santo, oppure la immacolata Concezione di Maria?
Ci sarà una ragione per cui la Chiese mantiene ed incrementa tutte queste cose: sono le stesse ragioni per cui il Magistero continua ad indicare nel canto gregoriano la principale voce cantata della liturgia, ovvero che la comprensione esclusiva mediante i sensi e la ragione in subiecta materia non è tutto per la salvezza delle anime, anzi, come canta il Tantum ergo, opportunamente citato dal Vescovo, sarà proprio che “Praestet fides supplementum sensuum defectui”.
Forse il pensiero recente di alimentare questa fede con “cibo” esclusivamente razionale ed ordinario, va rivisto: su queste basi nessuna cattedrale sarebbe stata edificata, nessun mosaico d’oro sarebbe stato composto, nessuna messa polifonica sarebbe stata musicata.
Eppure la Chiesa ha sempre apprezzato, favorito ed utilizzato tali strumenti di evangelizzazione: oggi, però, fa fatica a ri-appropriarsi di queste categorie, confidando in più “aggiornate” strategie pastorali e catechetiche, che quasi sempre relegano le arti liturgiche, o a messaggi pressoché extra-religiosi (le arti dello spazio) o a banalizzazioni che assecondino puramente il nostro povero quotidiano (la musica, arte del tempo).
Forse i motivi pastorali che presiedono al ragionamento di mons. Padovano, dovrebbero essere corroborati - sia detto senza critica al Vescovo che ha espresso la sua opinione liberamente e soprattutto in modo molto chiaro, e di ciò gli va dato pienamente atto - da una maggiore osservanza del Magistero, pontificio e conciliare, della Tradizione della Chiesa e delle norme che presiedono alla celebrazione dei riti.
Il fatto che la Chiesa discuta di ciò è un bene: è viva e non guarda alla limitatezza della sua condizione terrena e presente.
Mi sia permesso dire infine che un criterio strettamente musicale ci permette pure di preferire il semplice canto gregoriano – magari opportunamente accompagnato dall’organo, perché, ad onta dei puristi, anch’esso va inculturato alle realtà parrocchiali, senza pretendere di replicare ovunque la temperie sonora del coro monastico - ai canti che da alcuni decenni si sono gradualmente inseriti nelle nostre liturgie, sul cui livello artistico medio ci sarebbe molto da eccepire, sull’ortodossia dei cui testi a volte è meglio sorvolare, come parimenti sulla loro effettiva partecipabilità da parte di tutti i fedeli che finiscono, a volte, per comprendere poco o nulla egualmente, pur ascoltandoli in italiano (senza dire dei molti canti in inglese, spagnolo, ebraico che ormai saltabeccano qua e là al posto delle antifone).
Se si riacquisisce al senso comune ciò che la legge liturgica prevede e una splendida Tradizione ci ha consegnato, si potrà evitare di confinare il gregoriano nel pur benemerito limbo dei concerti e riportarlo a casa sua, ovvero a servizio e coronamento del Culto divino.
Sarà eseguito poco raffinatamente, come al contrario auspica mons. Padovano memore dell’esempio benedettino in diocesi, che ha giustamente citato, sarà poco compreso dal popolo, che sbaglierà desinenze e ornerà di portamenti le melodie, ma starà al posto suo e ciò non potrà che giovare all’ordine naturale delle cose!
Anche quando si celebra con il Messale di Paolo VI”.

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