Pubblichiamo la recentissima intervista che il vaticanista Rodari ha riportato nel suo blog. Seguono alcune nostre considerazioni.
Vittorio Messori, il Papa ha accettato la richiesta giunta da Econe di rimettere la scomunica nella quale erano incorsi nel 1988 i quattro vescovi lefebvriani. Ma il fatto che tra questi vescovi vi sia monsignor Richard Williamson, che recentemente ha mosso dichiarazioni revisioniste e negazioniste sull’Olocausto, ha scatenato feroci polemiche nel mondo ebraico e internazionale. L’ultima di ieri è del Rabbino David Rosen. Come commenta?Mi appello ai princìpi del diritto internazionale secondo i quali ogni Stato è sovrano al suo interno. La revoca della scomunica è un fatto interno alla Chiesa sul quale non riesco a capire perché il mondo ebraico si senta in diritto di intervenire. Insomma, chiedo che ai cattolici venga lasciata la libertà di lavorare in pace portando avanti le proprie azioni. Non mi sembra che il Vaticano si sia mai sentito in dovere di intervenire sulla nomina di un Gran Rabbino o su altre questioni interne al mondo ebraico. Sarebbe corretto, dunque, che gli ebrei avessero il medesimo atteggiamento nei confronti dei cattolici.Il decreto col quale viene rimessa la scomunica è un primo passo verso la piena comunione?Non so se si arriverà mai alla piena comunione. Le difficoltà, a mio avviso, più che teologiche sono politiche.Cioè?I lefebvriani sono un fenomeno tutto francese. Dietro i lefebvriani c’è un intreccio di religione e politica che Ratzinger conosce bene ma che in Italia si fatica a comprendere appieno. Dietro c’è la rivoluzione francese, la nostalgia monarchica, il gallicanesimo e il giansenismo. C’è la legislazione religiosa di Pétain, punto di riferimento dei lefebvriani. Insomma, è un groviglio non affrontabile soltanto a livello teologico ma anche e soprattutto a livello di filosofia della storia. È una visione delle cose, quella lefebvriana, una Veltanschaung [sic!], che poco ha a che vedere con quella cattolica.Eppure il Papa sembra vicino ai lefebvriani…Il Papa adotta nei loro confronti una sorta di “ecumenismo paziente”. Benedetto XVI è buono e paziente. Conosce la storia dei lefebvriani e sa bene chi sono. Sa che, allo stesso modo della teologia della liberazione, anche la loro esperienza è necessaria alla Chiesa: le ali estreme servono alla Chiesa perché le permettono di rimanere nel centro, di continuare sulla strada dell’“et-et”. E anche i lefebvriani conoscono bene Ratzinger e infatti lo temono.In che senso?Voglio raccontarle un episodio degno di un romanzo di Dan Brown. Un giorno di qualche anno fa venni prelevato (ovviamente col mio consenso) dalla mia casa di Desenzano del Garda da una Mercedes nera con targa svizzera coi vetri oscurati. Mi portarono in uno chalet nascosto in un bosco nel cantone di Zug. Qui mi aspettava il superiore generale della Fraternità San Pio X, monsignor Bernard Fellay. Mi convocò perché voleva saperne di più di Ratzinger: chi fosse, cosa pensasse di loro etc. Insomma, Fellay temeva Ratzinger molto di più di quanto avrebbe potuto temere un cardinale o un Papa di posizioni teologiche diametralmente opposte alle sue: che so io, un Martini o un vescovo francese. Lo temeva perché sapeva che Ratzinger, proprio perché non apertamente nemico loro, conosceva a fondo la loro storia. E, quindi, conosceva bene che ciò che divideva i lefebvriani da Roma non era e non è innanzitutto la messa in latino o il decreto sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II, quanto l’intreccio religioso-politico tutto francese che sta dietro la stessa esperienza nata con Marcel Lefebvre.Rispetto al Vaticano II, quali sono le differenze tra Benedetto XVI e i lefebvriani?Nonostante le semplificazioni giornalisitiche, tutti sanno che Giovanni XXIII era un conservatore. Voleva un Concilio di pochi mesi nel quale si approvassero semplicemente i decreti preparati dal cardinale Ottaviani. E lo stesso Concilio si sarebbe dovuto concludere con la beatificazione di Pio XII. Ma fu proprio Ratzinger, quale consultore teologico del cardinale arcivescovo di Colonia Joseph Frings, a far sì che il Concilio andasse in altro modo. Ed è principalmente questa l’“onta” che i lefebvriani non hanno mai perdonato a Ratzinger. Questi era un conciliarista vero. Avverso all’ermeneutica dello Spirito del Concilio, ma aperto alle innovazioni portate dal Concilio stesso. E questa fedeltà al Vaticano II propria di Ratzinger è invisa ai lefebvriani.
Questa l'intervista, interessantissima e brillante, come ci si poteva attendere. Ma con la dovuta umiltà, aggiungiamo alcune considerazioni su alcuni punti che non ci convincono fino in fondo.
In primo luogo, là dove Messori "butta in politica" la controversia teologica. Ora, nessuno può negare l'origine francese della Fraternità (anche se ha base in Svizzera), sia per la nazionalità del suo fondatore, sia per i numeri di fedeli in Francia. E in quella Nazione, la storia ecclesiastica gioca dal 1789 (Rivoluzione francese) una lotta politica accanita contro tendenze laiciste estreme, esplose con la Rivoluzione (quando furono chiuse e demolite le chiese, perseguitato il clero "refrattario" al nuovo ordine, imprigionato il Papa da Napoleone), riapparse con il Quarantotto e la Comune del 1870-71, combattute asperrimamente durante la Terza Repubblica (con l'affare Dreyfuss - già problemi di antisemitismo - e le violente leggi di separazione e laicizzazione del 1905), pietre d'inciampo nel Dopoguerra, dopo le compromissioni con Vichy... e così a continuare.
Di qui deriva, è vero, l'insistenza della Fraternità sull'affermazione della Regalità di Cristo, concetto che, come già nelle intenzioni di Papa Pio XI che istituì quella festa, intende riaffermare la centralità anche nell'arena pubblica, e quindi in senso lato politica, della religione. E questo allorché l'episcopato francese non fa che riaffermare i vantaggi della laicità e dei cosiddetti valori repubblicani. Sotto questo profilo 'politico', quindi, il contrasto tra Chiesa ufficiale (francese) e lefebvriani c'è tutto.
Nondimeno, esso non arriva certo a rappresentare il principale punto di ostacolo, come sostiene invece Messori. Anche perché non è ipotizzabile nel breve-medio periodo che la laicità degli stati moderni possa essere sovvertita (e se ciò avvenisse, lo sarebbe a vantaggio dell'Islam, quindi...). Stiamo perciò parlando non di concrete azioni "politiche" sul punto, ma di concezione a livello teologico di rapporti tra Stato e Chiesa, di libertà di opinione, di riaffermazione o negazione del Sillabo di Pio IX. Tutte questioni di rilievo dottrinale, disgiunte da possibilità di concreta applicazione pratica e, soprattutto, di interesse generale e non limitata alla temperie culturale francese (anch'essa comunque sempre più lontana da quelle tematiche: ormai solo i catto-progressisti fingono di pensare che i lefebvriani siano tutti legittimisti, pétainisti, nostalgici dell'Algeria o seguaci dell'Action Française di Maurras, per quanto uno dei quattro vescovi, Tissier de Mallerais, sia nipote del segretario di quest'ultimo: l'età media stessa dei preti e dei fedeli della S. Pio X esclude simili passatismi politici).
I veri problemi, in altri termini, non sono né quello liturgico (e su questo Messori ha ragione), ma nemmeno quello politico nel senso indicato da Messori. Sono, invece, l'interpretazione di testi conciliari e postconciliari, che paiono ('paiono') discostarsi dal Magistero precedente, su temi non direttamente "politici" e tanto meno "francesi", diversamente da quel che opina l'illustre giornalista, come l'ecumenismo, l'unicità salvifica della Chiesa, la collegialità episcopale, la libertà di culto...
Altra riserva a quanto letto, è circa il fatto che la Fraternità tema Papa Ratzinger. Dedurre ciò solo dal fatto di aver voluto sapere di più sul suo conto, ci sembra un corto circuito; a meno che Messori non abbia tratto tale impressione da parole o eventi che non ha riportato. Ben al contrario, ricordiamo che Mons. Fellay salutò l'elezione di Benedetto XVI dichiarando di vedervi, nella situazione cupissima della Chiesa, une lueur d'espérance, un barlume di speranza.
E' vero che può temere questo Papa chi, all'interno della Fraternità, si era ben accomodato nella situazione di autocefalia e indipendenza (così come, dall'altra parte, buona parte dell'episcopato, specie francese, era ben lieta di poter chiudere le chiese a quegli "scismatici" e continuare per la propria strada di "rinnovamento" che, ad oggi, si è rivelata suicida). Benedetto XVI, infatti, era ed è stato in grado di rompere gli schemi e costringere due anime del cattolicesimo a fare i conti l'una con l'altra, anziché scagliarsi invettive da due isole separate dal mare. Ma, appunto, gli attuali vertici della Fraternità (e alludiamo a mons. Fellay; mons. Williamson ha già dimostrato di avere tutt'altra opinione) appaiono sinceramente solleciti, anche se talvolta con mala grazia, di muovere passi verso Roma e sanare una ferita, nel momento in cui pare possibile che la Chiesa recuperi parti un po' neglette e maltrattate della sua Tradizione. Crediamo quindi di dissentire dall'idea per cui la Fraternità, o meglio chi la guida al momento, abbia timore di questo Papa. Il quale ultimo, infine, ci sembra che dissentirebbe dalla frase di Messori che equipara i lefebvriani alla teologia della Liberazione e aggiunge che servono questi due estremi all'interno della Chiesa, per tenere la barra al centro. Diciamo la verità: 1) la teologia della liberazione ha fatto solo danni alla Chiesa (si veda l'esplosione delle sette pentecostali in Sudamerica) 2) l'allora card. Ratzinger l'ha combattuta strenuamente. Non ci sembra che nessuna di queste due cose si possa dire dei lefebvriani, né che quindi possa dirsi fondatamente che il Papa li considera alla medesima stregua di 'opposti estremismi'.
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