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Sono sante le carmelitane scalze di Compiègne, ghigliottinate nel 1794 dai rivoluzionari

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sabato 17 luglio 2021

17 luglio 1794, le 16 Martiri Carmelitane di Compiègne, uccise dall'odio della Rivoluzione Francese. Film stupendo!

Nell'anniversario della morte per mano dei sicari della Rivoluzione Francese proponiamo un articolo sul martirio di 16 monache Carmelitane e qui, in un nostro precedente post, troverete il bellissimo film sulla vita e sul martirio delle monache "I dialoghi delle Carmelitane" di Bruckberger & Philippe Agostini, 1960), inserito a pieno titolo nella nostra "rubrica" "Echi Tridentini nel cinema". 
Qui un altro nostro articolo sulle martiri carmelitane. 
Luigi


La commovente storia delle 16 monache barbaramente ghigliottinate a Parigi il 17 luglio 1794 dai rivoluzionari giacobini (FILM COMPLETO: I dialoghi delle carmelitane)

di P. Antonio Maria Sicari

Le martiri di Compiègne sono sedici monache carmelitane uccise durante la Rivoluzione Francese. La famosa «Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo» fu promulgata il 26 agosto 1789; pochi mesi dopo giunse puntualmente la proibizione di emettere i voti religiosi (in nome della libertà individuale), e la soppressione degli Ordini religiosi, a cominciare da quelli contemplativi. Il teorema era semplice: non può essere libero chi si rinchiude in un convento e si vincola con dei voti; se qualcuno lo fa, è segno che è stato costretto. Compito della ragione (e della Nazione) è restituirgli la Libertà.
Fu allora che le priore di tre monasteri carmelitani, a nome di tutti gli altri, inviarono all'Assemblea Nazionale un «indirizzo» in cui si legge:
«Alla base dei nostri voti c'è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi qui non conosciamo né ricchi, né nobili. Nel mondo si ama dire che i monasteri rinchiudono vittime consumate lentamente dai rimorsi; ma noi confessiamo davanti a Dio che, se c'è sulla terra la felicità, noi siamo felici».
Quei rivoluzionari, a riguardo di voti e monasteri, avevano la ragione illuminata da ciò che avevan letto o sentito dire da letterati, teatranti, gazzettieri e filosofi: avevano cioè idee morbose e romantiche, simili a quelle che ancor oggi si trovano in certi romanzi d'appendice o in certe «telenovelas». Perciò la persecuzione cominciò con la cavalleresca e ridicola sollecitudine con cui uno stuolo di ufficiali municipali andarono a battere alle porte dei monasteri per offrirsi come paladini e liberatori.
Siamo in grado di descrivere esattamente ciò che accadde nel monastero di Compiègne, dove allora si trovavano 16 religiose professe. C'era anche una giovane novizia che all'ultimo momento era stata impedita dal prendere i voti, proprio da quel decreto che «non riconosceva più né voti religiosi né alcun altro arruolamento che sia contrario ai diritti naturali». Giunsero dunque gli ufficiali municipali, violarono la clausura e si insediarono nella grande sala capitolare: alle due porte furono messe quattro guardie. Altre guardie furono schierate, una alla porta di ogni cella, per impedire che le suore potessero comunicare tra loro, e soprattutto che avessero contatti con la Priora; anche le altre porte dei chiostri furono presidiate.

L'INTERROGATORIO
Ogni monaca venne dunque convocata singolarmente: a ognuna il presidente «annunciava (testualmente!) di essere apportatore di libertà, e la invitava a parlare senza timore e a dichiarare se voleva uscire di clausura e tornarsene in famiglia...». Un segretario intanto prendeva accuratamente nota delle risposte, la cui veridicità è perciò garantita dagli stessi «oppositori».
La priora, convocata per prima, dichiarò «di voler vivere e morire in quella santa casa».
Un'anziana disse «che era suora da cinquantasei anni e ne avrebbe desiderati ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore».
Una suora disse d'essersi fatta religiosa «di suo pieno gradimento e di propria volontà» e di essere «fermamente risoluta a conservare il proprio abito, anche a prezzo del proprio sangue».
Un'altra spiegò che «non c'era felicità così grande come quella di vivere da carmelitana» e che «il suo più ardente desiderio era di vivere e di morire tale».
Un'altra ancora insisté che «se avesse avuto mille vite tutte le avrebbe consacrate allo stato che aveva scelto, e che nulla poteva convincerla ad abbandonare la casa dove abitava e dove aveva trovato la sua felicità».
Un'altra aggiunse che «approfittava di quella occasione per rinnovare i suoi voti religiosi, e anzi ne approfittava anche per regalare ai magistrati una poesia che aveva appena finito di scrivere, sull'argomento della sua vocazione» (ma quelli, andandosene, lasciarono il foglio sul tavolo, con disprezzo).
E un'altra ancora precisò che «se avesse potuto raddoppiare i vincoli che la legavano a Dio, lo avrebbero fatto con tutte le forze e con immensa gioia».
La più giovane professa, infine - che aveva emesso i voti proprio in quell'anno - osservò che «una sposa ben nata resta col suo Sposo, e che perciò niente la poteva indurre ad abbandonare il suo Sposo divino, Nostro Signore Gesù Cristo».

IL LINGUAGGIO DEI MARTIRI
Le Monache di Compiègne condotte al patibolo cominciarono a essere martiri, quando - senza nemmeno rendersene conto - cominciarono a usare il linguaggio dei martiri: quello di chi - messo alla prova definitiva - afferma con tutto il suo cuore che «niente lo potrà mai separare da Cristo».
Non venne interrogata la novizia perché non aveva voti e quindi, prima o poi, doveva tornarsene a casa per forza. Anzi i parenti erano venuti per riprendersela, ma ella stessa disse loro che «niente e nessuno poteva separarla dalla comunione con la madre e con le sorelle di quel monastero». Se ne erano andati dichiarando «di non voler più sentir parlare di lei, e nemmeno ricevere sue lettere»: dando così paradossale conferma alla scelta della ragazza.
È giusto avvertire subito che solo impropriamente si parla delle «sedici carmelitane di Compiègne»: in realtà le monache uccise furono solo quattordici, le altre due vittime furono delle inservienti laiche, così affezionate che vollero condividere la sorte delle loro suore fino a condividere anche la stessa passione e la stessa gloria. Possiamo anche aggiungere con fierezza che in tutti i monasteri di Francia - che contavano allora circa millenovecento religiose - le defezioni furono soltanto cinque o sei.
Intanto l'Assemblea Nazionale continuava a dare dimostrazione traumatica di come la cosiddetta «ragione illuminata» non riuscisse a comprendere quel «fatto nuovo» (anche se vecchio di secoli, e appesantito) che è la Chiesa. Si negava ad ogni costo quella evidenza che le monache si intestardivano invece a testimoniare: che si è perfettamente liberi solo nella più stretta e devota consegna di sé; che una libertà amante non teme di legarsi e di dipendere; e che contro la libertà non sta l'appartenenza, ma la costrizione.
In nome di una «Uguaglianza» razionalisticamente intesa, si cominciò a volere ridisegnare la struttura stessa della Chiesa. Anzitutto si pensò di dare una «Costituzione civile» al clero: obbligare i preti a prestare un giuramento di fedeltà alla Nazione; demandare alle Assemblee dipartimentali le elezioni dei preti e dei vescovi; ridurre le diocesi a strutture amministrative; proibire i segni distintivi (ad es. l'abito religioso). Chi non accettava la serie delle disposizioni poteva essere condannato alla deportazione o alla morte come «refrattario»: refrattario a lasciarsi rendere uguale in un campo in cui Cristo aveva previsto qualche «diseguaglianza». Nemmeno il Papa doveva emergere da quella palude di egualitarismo: cristiani, preti e vescovi lo potevano al massimo genericamente venerare e informare, ma il legame con lui doveva restare comunque inincidente e superfluo. C'era poi da spingere il processo di «liberazione» fino a sciogliere la ragione da tutte le indebite pastoie, e fino a farla trionfare su tutti i «fanatismi»: dogmi, miracoli, credenze nell'al-di-là e simili. Poiché questa «libertà» e questa «uguaglianza» non potevano essere accettate da questi «uomini» (cioè: dai cristiani che volevano restar fedeli a Cristo e alla sua Chiesa), essi non potevano nemmeno essere considerati «fratelli»: e venne il Terrore. Nel solo mese di settembre 1792 si conteranno circa 1600 vittime in un massacro durato tre giorni.

IL CARMELO E IL MARTIRIO
Nel Carmelo l'idea del martirio non era un'idea strana e lontana: fa parte della spiritualità di quest'Ordine religioso il ricordo degli insegnamenti di Teresa d'Avila che fin da bambina aveva cercato il martirio per il desiderio di «vedere Dio» e di affrettare l'incontro con Lui, e aveva poi profetizzato: «In avvenire quest'Ordine fiorirà, e avrà molti martiri». «Quando si vuole servire Dio sul serio - ella insegnava - il minimo che gli si possa offrire è il sacrificio della vita». S. Giovani della Croce aveva udito un giorno un suo confratello dire che «con la grazia di Dio, sperava riuscire a sopportare pazientemente anche il martirio, se fosse stato proprio necessario», e gli aveva ribattuto con infinita meraviglia: «e lo dite con tanta tiepidezza, fra Martino? Dovreste dirlo con grandissimo desiderio!». E ancor più le carmelitane francesi non potevano dimenticare che Teresa d'Avila aveva riformato il Carmelo proprio perché «scossa dalle sventure che desolavano la terra e la Chiesa di Francia»: offrire a questo scopo la vita faceva quasi parte della loro vocazione più originaria.
Nella Pasqua del 1792 la Priora di Compiègne - lasciando ogni monaca libera di decidere - propose a chi lo voleva di offrirsi con lei «in olocausto, per placare la collera di Dio, e in modo che questa divina pace che il suo caro Figlio è venuto a portare nel mondo, sia restituita alla Chiesa e allo Stato». Le due più anziane all'inizio furono prese dall'angoscia: le terrorizzava il pensiero della lugubre ghigliottina; ma poi vollero offrirsi assieme a tutte le loro sorelle. Da allora la comunità rinnoverà l'atto di offerta, ogni giorno, durante la Santa Messa, legandosi sempre più coscientemente al Sacrificio di Cristo. Il 12 settembre ricevettero l'ordine di abbandonare il monastero, che venne requisito. Subaffittarono allora delle stanze, in uno stesso quartiere, in quattro case vicine, e si divisero in gruppetti: riuscendo a comunicare tra loro passando tra i giardini e i cortili interni. Non avevano più monastero, né clausura, né grate, né chiesa: periodicamente si riunivano nell'abitazione della Priora, per averne sostegno e guida, e per il resto cercavano come potevano di osservare la loro regola di preghiera, di silenzio e di lavoro, anche in quella situazione così inattesa e precaria. E l'intero quartiere sapeva e cercava di vivere più sommessamente, con più silenzio e sobrietà, quando si sapeva che le monache stavano pregando.
Intanto la Francia era precipitata nella guerra contro gli altri stati europei all'esterno e nella guerra civile all'interno, e nella più spietata crisi economica. Il Tribunale rivoluzionario varò la «Legge dei sospetti»: in giudizio non occorrevano più né prove, né difensori; il semplice sospetto bastava per venire condannati alla pena capitale. Al potere c'era ormai la più spietata ideologia giacobina che esigeva la scristianizzazione totale: abolizione del calendario cristiano, della settimana e della domenica; sostituzione di nomi e cognomi cristiani per uomini, strade, piazze, villaggi, città; chiusura e distruzione di chiese e di reliquie; sconsacrazione di tutti gli edifici di culto; introduzione di nuovi culti e nuove feste.
Di «fanatismo» vennero accusate le carmelitane che continuavano a vivere come se fossero in monastero: le abitazioni furono perquisite, le suore arrestate, i loro oggetti sacri profanati e infranti. Dapprima esse furono radunate in un vecchio convento tramutato in prigione, poi vennero inviate a Parigi con una denuncia che le accusava, tra l'altro, di «arrestare il progresso dello spirito pubblico ricevendo nelle loro case persone le quali venivano poi ammesse ad una aggregazione detta dello Scapolare...». Viaggiarono tutto il giorno e tutta la notte su una carretta scortata da due gendarmi, un maresciallo e nove dragoni: al pomeriggio del giorno dopo venivano gettate nella Conciergerie, il carcere della morte. Nello scendere dalla carretta, ognuna si aiutò come poteva; la più anziana, di settantanove anni, con le braccia legate e senza il suo bastone, non ci riusciva e venne perciò gettata di peso sul lastricato. La credettero morta, ma si rialzò sanguinante e con estrema fatica: «Non ve ne voglio, - disse. Vi ringrazio di non avermi uccisa. Avrei perduto la felicità del martirio che aspetto».
Il Tribunale teneva le sue sedute a ritmi serrati, anzi teneva due sedute contemporaneamente: una nella «sala dell'Uguaglianza», l'altra nella «sala della Libertà». E l'accusatore - il famigerato Fouquier-Tinville - passava disinvoltamente dall'una all'altra. Così riuscivano a giudicare dai cinquanta ai sessanta prigionieri al giorno. Le carmelitane giunsero il 13 luglio, domenica, giorno in cui il Tribunale comminò quaranta condanne a morte. Il 14 furono sospese le sedute, perché si celebrava l'anniversario della presa della Bastiglia. Il 15 vennero pronunciate trenta condanne a morte; il 16 ne vennero inflitte trentasei.

LE MONACHE DI COMPIÈGNE ACCOLTE IN CIELO DA MARIA
Era la festa della Madonna del Carmine, e le monache non vollero perdere la bella abitudine di comporre per l'occasione qualche nuovo canto. Riscrissero la Marsigliese: stessi versi, stesso ritmo, qualche espressione identica, ma tutto un altro canto di ribellione e di vittoria. Vi si diceva tra l'altro: «...Arrivato è il giorno della gloria / or che la spada sanguinante è già levata/ prepariamoci tutte alla vittoria. / Sotto le insegne di un Dio agonizzante/ avanzi ognuno come vincitore/ Corriamo tutti, voliamo alla gloria/ ché i nostri corpi sono del Signore». Erano versi poveri e imitati, ma con intuizioni piene di luce e di fierezza: «Se a Dio noi dobbiamo la vita/ per lui accettiamo la morte». Li scrissero con un pezzetto di carbone. Alla sera di quello stesso giorno le avvertirono che l'indomani sarebbero comparse davanti al tribunale rivoluzionario.
Non mancarono le accuse più incredibili. Ricordiamo tra le tante quella di «aver preteso esporre il Santo Sacramento sotto un baldacchino a forma di manto reale». Secondo il giudice anche questo era «indizio certo di affezione alla idea della sovranità reale, e perciò alla famiglia deposta (di Luigi XVI)». Ma le monache non volevano accuse confuse, o mescolate alla politica: volevano fosse chiaro che loro offrivano la vita a Cristo e per Cristo. E fecero in modo di dissipare ogni ambiguità. Ecco quel che accadde, secondo il racconto di un testimone:
Suor Enrichetta Pelras, avendo udito l'accusatore dar loro delle 'fanatiche' (parola che essa ben conosceva) finse di non conoscere quel termine e disse: «Vorreste voi, cittadino, spiegarci che cosa intendete significare col vocabolo 'fanatiche'?». Il giudice adirato rispose con un torrente di ingiurie contro di lei e le sue compagne. Ma la suora, per niente turbata, con dignità e fermezza soggiunse: «Cittadino, il vostro dovere è di soddisfare alla domanda di un condannato. Vi chiedo perciò di rispondere e di dichiarare che cosa voi intendete dire col vocabolo 'fanatico'». «Io intendo significare - disse allora Fouquier-Tinville - quella vostra affezione a credenze puerili; quelle vostre sciocche 'pratiche di religione'».
Suor Enrichetta lo ringraziò poi, rivolta alla madre Priora, esclamò: «Mia cara Madre e sorelle mie, voi avete udito l'accusatore dichiarare che tutto ciò accade per l'affetto che portiamo alla nostra santa religione. Noi tutte desideravamo questa confessione e l'abbiamo ottenuta. Siano rese grazie a Colui che ci ha preceduto sulla via del Calvario! Che felicità e che consolazione poter morire per il nostro Dio!».

LA PRIORA ACCOMPAGNA AL MARTIRIO CIASCUNA DELLE CONSORELLE
Erano le sei di sera di quello stesso giorno quando, con le mani legate dietro la schiena, salirono su due carrette per essere condotte verso la Barriera di Vincennes dove era innalzata la ghigliottina. Qualcuno dice che le suore fossero riuscite a riavere i loro bianchi mantelli; certo è che su quella carretta, sull'imbrunire, cantarono la loro Compieta, e poi il Miserere, il Te Deum, la Salve Regina. Di solito i convogli dovevano farsi largo tra due ali di folla ubriaca e vociante. Dicono i testimoni che quella carretta passò tra un silenzio di folla «di cui non si ha altro esempio durante la Rivoluzione». Dalla folla, un prete travestito da rivoluzionario, diede loro l'ultima assoluzione. Giunsero al patibolo, nella vecchia piazza del Trono, verso le otto di sera.
La Priora chiese e ottenne dal boia la grazia di morire per ultima, in modo da poter assistere e sostenere, come Madre, tutte le sue religiose, soprattutto le più giovani. Volevano morire assieme, anche spiritualmente, come se compissero un unico e ultimo «atto di comunità». Fu un gesto liturgico. La Priora chiese ancora al boia di voler attendere un po', e ottenne anche questo: intonò allora il Veni Creator Spiritus e lo cantarono interamente; poi tutte rinnovarono i loro voti. Al termine la Madre si mise di lato davanti al patibolo, tenendo nel cavo della mano una piccola statua di terracotta della Santa Vergine, che era riuscita a nascondere fino ad allora.
La prima fu la giovane novizia; si inginocchiò davanti alla Priora, le chiese la benedizione e il permesso di morire, baciò la statuina della Vergine e salì i gradini del patibolo «contenta - dissero i testimoni - come se andasse a una festa» e, mentre saliva intonò il salmo «Laudate Dominum omnes gentes», ripreso dalle altre che una alla volta la seguirono con la stessa pace e la stessa gioia, anche se bisognò aiutare a salire le più anziane. Ultima salì la Priora, dopo aver consegnata la statuetta a una persona che si trovava vicino (ed è stata conservata, ed è ancor oggi nel monastero di Compiègne).
«Il colpo della basculla, il rumore secco del taglio, il suono sordo della testa che cade... Non un grido, niente applausi o grida scomposte (come invece abitualmente accadeva). Anche i tamburi sono muti. Su questa piazza, ammorbata dall'odore del sangue fetido, corrotto dal calore estivo, un silenzio solenne scese su chi assisteva, e forse la preghiera della Carmelitane aveva già loro toccato il cuore» (E. Renault).
Si saprà poi che quel giorno, tra coloro che assistevano, più di una ragazza promise a Dio, nel suo cuore, di prendere il loro posto. «Noi siamo le vittime del secolo» aveva detto una di loro con umile fierezza: vittime di una «ragione illuminata» che senza la fede era divenuta sempre più oscura e feroce.
Queste sedici monache carmelitane furono beatificate il 27 maggio 1906 da San Pio X.
Papa Giovanni Paolo I, all'Angelus del 24 settembre 1978, ricordò l'esempio di queste Carmelitane e disse: «Restata per ultima, Madre Teresa di S. Agostino (la Priora) pronunciò queste ultime parole: "L'amore sarà sempre vittorioso; l'amore può tutto!". [...]. Chiediamo al Signore una nuova ondata d'amore per il prossimo sommerso in questo povero mondo».

Nota di BastaBugie: la storia delle martiri di Compiegne è narrata nel film del 1960 "I dialoghi delle carmelitane" che si può vedere integralmente nel seguente video di YouTube.
Per ulteriori informazioni sul film, clicca nel seguente link:


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