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venerdì 13 aprile 2018

Andrea Grillo e la Settimana Santa pre-riforma

Di solito siamo tentati a lasciare che il liturgista professore Andrea Grillo si cuocia nel suo brodo  insieme con le  anime  che lo seguono... ma stavolta ci sembra che abbia esagerato davvero! 
Ringraziamo di cuore l'Autore per l'articolo che gentilmente ci ha inviato e che abbiamo l'onore di pubblicare.
Buona lettura!
AC


Andrea Grillo e la Settimana Santa pre-riforma
di Guido Ferro Canale

Tramite un articolo su “La Fede Quotidiana”, sono venuto a conoscenza di un post del 2 aprile in cui il teologo savonese Andrea Grillo stigmatizza la decisione della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” di autorizzare alcuni degli Istituti che da essa dipendono a celebrare, ad experimentum e ad tempus, la Settimana Santa secondo il rito precedente alla riforma di Pio XII (la notizia, tuttora non ufficiale a quanto mi risulta, è stata diffusa dal blog “Rorate Caeli”).

Le critiche dell'insigne liturgista mi sembrano, in sostanza, tre, due delle quali chiaramente desumibili dal titolo del suo intervento: “Una Settimana santa 'da museo' e la degenerazione della Commissione Ecclesia Dei”.

1) A suo avviso, in primo luogo “il rito anteriore a Pio XII – quello che diremmo “tridentino puro” – appare, oggi, del tutto improponibile, se non per alimentare una Chiesa ridotta a museo diocesano o a coltivazione di attaccamenti nostalgici al limite della patologia sociale prima che personale”. 
Premesso che “la Commissione non riesce a riconoscere il dato prezioso per cui la 'forma liturgica' e il 'contenuto teologico' sono strettamente connessi e non si possono separare. 

E’ quasi costretta a operare 'come se' le diverse forme liturgiche del medesimo rito fossero indifferenti rispetto al 'contenuto dogmatico ed ecclesiologico' che mediano”, il nocciolo della sua critica parrebbe questo: “Se si autorizza la celebrazione secondo un 'ordo' che non ha (ancora) il triduo pasquale – ma ha piuttosto un triduo della passione e un triduo della resurrezione giustapposti – si introduce un elemento di profonda crisi nella comunione ecclesiale”. 
Consequenziali le accuse alla Pontificia Commissione: “inadeguatezza teologica” e “incompetenza liturgica”.


2) Senonché, egli avverte, alla questione è sotteso un problema di più ampia portata: “perché mai una commissione che è nata dalla costatazione di una 'afflizione' della Chiesa (Ecclesia Dei adflicta… recita l’incipit del testo istitutivo) è diventata una commissione non di 'afflitti', ma di 'affezionati', che non sono più di freno e di filtro, ma appaiono essere di sponda e di incentivo ad ogni 'nostalgia liturgica'? Perché mai i criteri di 'assunzione' nella Commissione sembrano essere diventati – o forse sono stati fin dall’origine – una certa simpatia verso quelle 'forme' che 'affliggevano' la Chiesa? Potrebbe mai una commissione di controllo essere costituita soltanto da coloro che dovrebbero essere controllati? Quis custodiet custodes?” 
Anzi, il prof. Grillo rileva addirittura una “ 'collaborazione' tra Commissione Ecclesia Dei e settori non secondari della Congregazione del Culto” che “rischia di minare in radice il cammino della Riforma Liturgica, dal centro verso la periferia”, perché, rispetto al principio della partecipazione attiva, preferirebbe “sostenere o la tutela di 'musei pasquali' come questo o la paralisi devota di una assistenza silenziosa al culto”.


3) Nel caso specifico, peraltro, la decisione assunta dall'“Ecclesia Dei” “travalica le sue competenze”, perché, in base al m.p. “Summorum Pontificum” [SP] di Benedetto XVI, “la possibile eccezione al Messale di Paolo VI” sarebbe “riservata” all'uso del Messale del 1962 e non a riti anteriori. “In questo caso la Commissione Ecclesia Dei amplierebbe arbitrariamente la normativa chiara di SP”; ed egli si chiede “a quali controlli è sottoposta o può essere sottoposta [la decisione]? Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – che ne è Presidente – ne è informato?”.

Andiamo con ordine.

1) Confesso, innanzitutto, di non riuscire a comprendere come si possa sostenere che il rito ante 1955 prevedesse quasi due Tridui distinti, uno della Passione e uno della Resurrezione: prima e dopo le varie riforme, la struttura della Settimana Santa è sempre rimasta la stessa, si articola in un solo Triduo, dalla Messa In Coena Domini alla Veglia pasquale, e alla Resurrezione non dedica non tre giorni, bensì otto, l'Ottava di Pasqua. 
La sola traccia di un “Triduo della Passione” che mi sia dato rinvenire nel rito pre-riforma è la lettura del Passio la Domenica delle Palme, il Martedì e il Mercoledì Santo; anche il rito di Paolo VI, però, prevede pericopi incentrate sula morte del Signore. 
E anch'esso celebra la Passione e la Resurrezione in momenti distinti, il Venerdì Santo e la Veglia Pasquale (nonché l'Ottava), com'è normale che sia, visto che non ci si può rattristare e rallegrare nello stesso tempo. 
Quindi, esattamente di cosa stiamo parlando?


2) Comunque, la critica del noto liturgista non riguarda semplicemente la Settimana Santa, ma l'intero contesto della scelta della Pontificia Commissione. 
In particolare, egli ritiene che l'uso del Messale del 1962 sia già una grande concessione, fatta a beneficio esclusivo di frange nostalgiche, e che il ruolo della Commissione dovrebbe essere “di freno e di filtro” rispetto alle loro perniciose tendenze.

Ora, comunque la si pensi sulla riforma liturgica e/o sul “Summorum Pontificum”, dovrebbe essere chiaro che il m.p. che la Commissione è chiamata ad applicare non condivide nessuno degli assunti del prof. Grillo. 
Sembra, invero, che egli sia rimasto al 1984, alla circolare “Quattuor abhinc annos”, che descriveva il persistente attaccamento alle forme liturgiche precedenti come un “problema” (così nel testo) che non si riusciva a risolvere. 
Ma la Pontificia Commissione non è stata istituita con questo spirito: il m.p. “Ecclesia Dei adflicta”, che lo stesso Grillo ricorda, al n. 6 afferma che “dovrà essere ovunque rispettato l'animo” dei fedeli legati alla liturgia pre-riforma, mediante un'applicazione “ampia e generosa” delle norme già emanate per il suo utilizzo; non per nulla, qualche mese dopo, Giovanni Paolo II ha accordato alla stessa Commissione il potere di concedere l'uso del Messale del 1962 a chiunque ne facesse richiesta, recependo le indicazioni formulate, due anni prima, da una Commissione cardinalizia istituita appositamente per studiare la questione (cfr. il Rescriptum ex Audientia 18 ottobre 1998, in AAS 82 [1990], e i commenti di J. Miñambres in Ius Ecclesiae 1991, pagg. 341-4, e di W.H. Woestman in The Jurist 1993, pagg. 205-7). 
Il m.p. “Summorum Pontificum” si è mosso nella stessa direzione, chiarendo però che il Messale del 1962 non è mai stato abrogato “e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso” (così la Lettera ai Vescovi che lo accompagna). 
Infine, ma non da ultimo, l'Istruzione “Universae Ecclesiae” per la sua retta applicazione, già nell'incipit e poi al n. 8, precisa che l'intento del SP era anzitutto “offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare”. 
A tutti; non solamente a frange nostalgiche, comunque definite.

Peraltro, le suddette frange godono di un vero e proprio diritto all'uso di quel Messale: precisamente il diritto di cui al can. 214, rendere culto a Dio secondo i libri liturgici approvati dalle autorità ecclesiastiche. 
Lo si desume – in particolare – dal n. 33 dell'Istruzione cit., che, : il gruppo di fedeli gode del diritto alla celebrazione del Triduo Pasquale (iure gaudet celebrandi et ipsum Sacrum Triduum: l'espressione è resa scorrettamente nel testo italiano). 
Considerato che il Triduo non è di precetto (cfr. can. 1246) e che un cattolico potrebbe, in piena legalità, saltarlo del tutto per recarsi a Messa solo la mattina o anche il pomeriggio di Pasqua, è difficile non riconoscere che lo stesso diritto sussista, a fortiori, nelle Domeniche e feste di precetto (cfr. SP 5; donde l'et ipsum di UE 33). 
Insomma, la Pontificia Commissione non potrebbe condividere le posizioni del prof. Grillo neppure se lo volesse.

Ma vi è di più.

La radice ultima di queste posizioni – lo si coglie bene dal post dell'insigne liturgista – è teologica. 
Però lo è anche, a ben vedere, la prospettiva del SP: per questo, a mio avviso, il n. 8 della “Universae Ecclesiae” lo definisce “una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice”. 
Infatti,  all'art. 1 del m.p., Benedetto XVI si è fatto carico anche della preoccupazione manifestata, oggi, dal prof. Grillo circa la corrispondenza tra forme liturgiche e contenuto teologico; però è giunto a conclusioni diametralmente opposte.  
Proprio perché i due Messali esprimono l'unica e medesima lex credendi, la Fede della Chiesa, la loro contemporanea vigenza non comporta alcuna contraddizione, anzi, tutti debbono tenere il Messale precedente nel debito onore. 
La dottrina espressa nel Messale del 1962, si dice, è la stessa di oggi e quella espressa nel Messale di Paolo VI è la stessa di ieri: l'ermeneutica della continuità, qui, cessa di essere una prospettiva di lettura, appunto un'ermeneutica, e viene a conseguenze stringenti, perché, da un lato, l'identità sostanziale della fede è il presupposto della pacifica coesistenza che si auspica tra i due Messali; ma, dall'altro, la loro contemporanea vigenza costringe i teologi (e qui sta, secondo me, il rilievo propriamente magisteriale di SP) ad interpretare Concilio e post-Concilio in maniera tale da non contraddire quella che, anche oggi, resta espressione della fede della Chiesa (dell'unico soggetto Chiesa, per riprendere un'espressione del teologo Ratzinger). 
Bastino due esempi rapidi: l'interpretazione dell'insegnamento conciliare sulla libertà religiosa è uno dei temi più controversi degli ultimi cinquant'anni (per una visione di insieme di facile accesso, rimando ai vari contributi in re ivi apparsi nel corso del 2011 su Settimo Cielo); si è sostenuto, in particolare, che esso renda impossibile, per il futuro, uno Stato confessionale; bene, i fautori di questa tesi ora debbono spiegare perché la Chiesa continui a pregare, ancora oggi, con le parole volute da Pio XI per la Messa di Cristo Re. Stesso discorso per l'ecumenismo: da più parti si sostiene che la prospettiva del “ritorno” è superata e che le “Chiese sorelle” sono già, oppure formeranno tutte insieme, la vera Chiesa di Cristo; ma la Messa votiva pro Ecclesiae unitate, nel Messale del 1962, prega affinché il popolo cristiano, “divisione reiecta”, si unisca sotto il vero Pastore della Chiesa. Naturalmente e beninteso, il discorso vale anche nell'altro senso: quanti criticano l'ortodossia del Messale di Paolo VI, ad esempio perché la festa di Cristo Re celebra soprattutto la Regalità spirituale o escatologica, quasi per nulla la sociale (per un confronto, v. D. Di Sorco, La festa di Cristo Re nella storia, nella liturgia, nella teologia), debbono ora tener conto del fatto che è sempre la stessa Chiesa a pregare, oggi, con il Messale antico e il Messale nuovo, il che dovrebbe portare, secondo logica, a ritenerli teologicamente complementari, anziché antitetici. 
Questo dovrebbe rassicurare anche il prof. Grillo, preoccupato da un possibile ritorno ad una subalternità della Risurrezione rispetto alla Passione.


3) Resta, però, l'ultimo problema sollevato dall'insigne liturgista: con quale autorità la Pontificia Commissione ha autorizzato una deroga al Messale del 1962? 
Il vecchio rito della Settimana Santa, dopotutto, non è più lex orandi della Chiesa: vuoi con il decreto Maxima Redemptionis del 1955, vuoi per effetto del Codex rubricarum del 1959, che ha abrogato anche ogni consuetudine immemorabile difforme, vuoi con l'approvazione dell'editio typica del 1962, esso è stato privato del suo valore giuridico. 
Di conseguenza, a rigor di logica e di legge, chi lo usa commette un abuso liturgico e un atto di superstizione, che consiste nel rendere culto a Dio in una maniera non dovuta, perché non (più) prescritta dalla Chiesa (cfr. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 93, a. 1; Istr. Redemptionis Sacramentum, nn. 12 e 169; nonché, a contrario, il già citato can. 214). E' vero che la potestà esecutiva, nella Chiesa, non funziona come nel diritto statale e comprende sempre anche il potere di dispensare dalla legge (cfr. can. 85); tuttavia, la dispensa supera un divieto a beneficio di qualche fedele, ma non può restituire la forza di legge a un testo che non la possiede più, quindi - a mio parere - la Pontificia Commissione non potrebbe avvalersi della potestà esecutiva ordinaria per autorizzare l'uso dei riti ante 1962.

Nondimeno, ritengo che il prof. Grillo avrebbe potuto mostrare maggior cautela, prima di ipotizzare addirittura che il Presidente della Commissione non sia al corrente dell'iniziativa. In primo luogo, che io sappia non è stato ancora divulgato il testo del decreto – o rescritto che sia – che potrebbe benissimo menzionare una delle varie forme possibili di autorizzazione papale specifica (“De mandato speciali...”, “Facto verbo cum SS.mo”, “Vigore specialium facultatum...” etc. etc.); inoltre, proprio il fatto che si tratti di una concessione temporanea e ad experimentum avrebbe dovuto metterlo sull'avviso. 
Sono pronto a lasciarmi smentire dai fatti, naturalmente; ma credo che l'iniziativa dell'“Ecclesia Dei” si iscriva nell'ambito della preparazione della nuova editio typica dei testi liturgici “preconciliari”, prevista dai nn. 12 e 25 della “Universae Ecclesiae”, ma di cui, personalmente, non avevo più notizia da tempo (in effetti, da prima ancora dell'Istruzione). 


Foto: Papa San Giovanni XXIII adora la Croce secondo le rubriche precedenti la riforma di Pio XII ( da Disputationes teologicae QUI )

5 commenti:

  1. Ottimo intervento di G. Ferro Canale. Credo di sapere a cosa si riferisca A. Grillo quando parla di due tridui contrapposti: effettivamente la locuzione "Sacrum Triduum Paschale" non figura nel messale e nel breviario anteriore al 1955. Ci sono, invece, sei giorni tutti di grado massimo (doppio di prima classe) chiamati ciascuno col suo nome: Feria V in Coena Domini, Feria VI in Parasceve, (de) Sabbato Sancto (fin qui, secondo A. Grillo il triduo della morte), Dominica Resurrectionis, De secunda die infra octavam Paschae e De tertia die infra octavam Paschae (questi ultimi, sempre per A. Grillo, costituirebbero il triduo della risurrezione). A partire dal mercoledì dell'ottava di Pasqua il grado del rito scende a semidoppio (mentre nella Dominica in Albis è doppio maggiore).
    Quella di A. Grillo mi sembra comunque una forzatura. A prescindere dall'avere o non avere un nome ufficiale, il Triduo Pasquale c'è sempre stato ed era sentitamente vissuto, anche attraverso i riti popolari (quegli stessi riti che, pur essendo, per dirla come va di moda, sommamente "pastorali", dovevano, nella mente del "liturgo" bugniniano, essere adattati, traslati, a volte anche soppressi proprio in nome della pastoralità); tutto questo basta a certificare l'esistenza di un Triduo Pasquale anche in un'epoca in cui, magari, non era così ufficialmente denominato.
    Interessante osservazione, poi, quella sulla mancanza di un obbligo di precetto per le celebrazioni del Triduo (fosse anche nella forma ordinaria). Non che con ciò se ne voglia sminuire l'importanza, ma non essendovi obbligo di partecipazione, è veramente così dissacratorio celebrare in quei tre giorni secondo un rito diversamente impostato anche da un punto di vista nominale (così come A. Grillo sostiene)? Non credo!
    Credo, però, che sull'ultimo aspetto della questione (può o non può la Commissione Ecclesia Dei autorizzare deroghe al messale del 1962? Detta Commissione sta davvero revisionando i libri del 1962? E così via...) sia bene parlare poco, o meglio ancora non parlare proprio. Coi tempi che corrono da nuovi documenti, lettere o quant'altro possa emanare un dicastero vaticano (anche quelli composti da gente per bene) non mi aspetto nulla di buono, anzi credo proprio il contrario; se dunque "Quandoque bonus dormitat Homerus", la mia sommessa idea è di rallegrarcene, di stendere un velo e...di andare avanti.

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  2. Le critiche di Andrea Grillo, in questo caso, sono pienamente pertinenti. Sì vadano a leggere le motivazioni che spinsero la riforma della Settimana Santa e si troveranno le medesime critiche di Grillo, espresse sicuramente in un linguaggio piu gentile e "preconciliare" ma sostanzialmente coincidenti. È chiaro che queste cose possano turbare chi indaga il triduo pasquale (e la settimana santa in generale) solamente con la lente, per esempio, di un Gromier ma, purtroppo o per fortuna, il discorso risulta teologicamente e liturgicamente più complesso.
    Circa il fatto che l'Ecclesia Dei l'abbia "fatta fuori dal vaso", come si suole dire, e cosa indubbiamente vera e così come non si approvano le cavillosità usate dai vescovi per impedire l'antico rito non si dovrebbero tollerare le cavillosità che tradiscono il riferimento ESPLICITO al messale del 1962. Questo in ogni caso dimostra come ci siano delle OGGETTIVE difficoltà di gestione del summorum pontificum a cominciare dall'ufficio a ciò preposto, dove al momento non mi consta lavorino figure di riferimento dal punto di vista liturgico o comunque aperte al confronto con l'altra parte. E mentre si continua questo osceno e nostalgico valzer del "non si torna mai abbastanza indietro", c'è chi balla ben altri ranghi argentini facendoci cornuti, fessi e contenti.

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  3. La riforma della Settimana Santa di Pio XII, riportata poi nel Messale 1962 è stata quanto mai opportuna per motivi abbastanza evidenti: rendere più chiaro lo svolgimento degli eventi pasquali, favorire una più ampia partecipazione e comprensione del popolo poiché il lungo procedere delle molteplici letture e un rituale ridondante sembravano riservate solo ai sacerdoti. Il volere celebrare con il rito precedente, in tutto o in parte, è infatti la tentazione di alcuni sacerdoti tradizionalisti ma non se ne vede l'utilità anche teologica. Un solo es. : La Messa 'In Cena Domini' con il rito antico si prolunga fino all'Ite Missa est' e al Vangelo di Giovanni mentre è più giusto che la reposizione segua subito la Comunione per non apparire separate. Anche per evitare diatribe, non sempre teologiche e polemiche contro producenti, ci si attenga al Messale 1962, altrimenti non si supererà la diffidenza del popolo.

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  4. Non c'entra niente col Grillo parlante, ma segnalo che nel Priorato di Rimini della Ftaternità San Pio X le cerimonie dells Settimana Santa si sono svolte secondo l'Ordo promulgato dal Venerabile Pio XII.
    Evidentemente coloro che sono ritenuti "non in comunione" con la Santa Sede dimostrano nei fatti di esserlo di più da altre Fraternità "tradizionali" e dalle loro manie archeologiste.

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    1. Concordo in toto comn Anonimo delle 12:58 "coloro che sono ritenuti "non in comunione" con la Santa Sede dimostrano nei fatti di esserlo di più da altre Fraternità "tradizionali" e dalle loro manie archeologiste" non solo manie archeologiste ma un continuo attentato contro la religiosità che le riforme di Pio XII ha voluto riaffidare ai sacerdoti e ai fedeli. Evidentemente a qualcuno, abituato a giocare con le tazzine, non importa nulla che prima della riforma di Pio XII nella domenica delle Palme si recavano in chiesa per la "messa matta" al suono della prima campana ( benedizione delle palme dopo il primo prefazio) per uscire dopo aver ricevuto il ramoscello di ulivio e poi rientrare inm chiesa (un'ora dopo - se andava bene-) al suono della seconda campana, l'offertorio della messa "vera"). Questo modo di fare piacebbe ai nostalgici del rito cassato una volta per sempre dal grande papa Pio XII. All'epoca di Papa Pacelli sarebbero stati scomunicati all'istante ma ora per effetto della liberalità conciliare...

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La Redazione