Gli argomenti a favore dell'uso del latino (o comunque di una lingua non corrente, cfr. per esempio i riti orientali più diffusi) nella liturgia possono essere ridotti a tre:
1) L'universalità. La Chiesa cattolica è universale, non solo perché si trova effettivamente diffusa su tutta la terra, ma perché la rivelazione divina da essa custodita è identica per ogni uomo. Tutti i cattolici degni di questo nome professano una stessa fede, credono nelle stesse verità, obbediscono agli stessi pastori. È del tutto logico, quindi, che all'unità della fede faccia riscontro l'unità della preghiera, per lo meno di quella preghiera ufficiale che i cattolici svolgono in forma comunitaria e pubblica, cioè della liturgia (Messa, Ufficio divino o Breviario, Sacramenti). Per la maggior parte delle persone, infatti, la liturgia è scuola di fede, è il momento in cui si apprendono e si mettono in pratica le nozioni relative alle principali verità di religione: di qui l'antico proverbio legem credendi lex statuat supplicandi (la norma della fede sia determinata dalla norma della preghiera). Per esempio, adorando con atti esteriori (genuflessioni, preghiere, ecc.) la santa Eucaristia nella Messa, si comprende più in profondità e si manifesta in forma pubblica la fede interiore nella Presenza reale di nostro Signore nel Sacramento dell'altare. La liturgia, in poche parole, è segno visibile del vincolo di unità che lega tutti i membri della Chiesa. Ora, tale vincolo può forze prescindere dalla lingua e accontentarsi soltanto del contenuto dei testi e dell'apparato delle cerimonie? La risposta è negativa. Ben lungi dal costituire un semplice mezzo con cui esprimere dei concetti (come un abito che si può cambiare a proprio piacimento, mentre il corpo resta lo stesso), la lingua costituisce, per il parlante, una vera e propria forma mentis. Per dimostrarlo, basta l'esperienza: quando andiamo all'estero, anche se conosciamo la lingua del posto, ci sentiamo spaesati, a disagio, come se avessimo a che fare a qualcosa che non ci appartiene; mentre se, nello stesso contesto, incontriamo qualcuno che parla italiano, la sensazione è quella di trovarsi subito a casa. Ecco il vantaggio di avere una lingua comune per i riti: quello di realizzare l'unità nella facoltà propria degli esseri razionali e che caratterizza in modo diretto e intuitivo la loro psicologia: l'espressione linguistica. Quando il latino era la lingua comune della liturgia, il cattolico che entrava in chiesa si sentiva automaticamente a casa propria, all'estero così come nel proprio paese di origine. Questa unità di linguaggio e, diciamolo pure, di sensazione, di impressione, non era che un riflesso di un'altra unità, ben più profonda, quella della fede. Non stupisce, allora, che tutti i tentativi di eresia abbiano avuto, tra le loro pretese, quello della liturgia in lingua nazionale: si voleva fare della fede qualcosa di soggettivo, di personale, di locale; e anche l'espressione esteriore e pubblica della fede doveva andare nella medesima direzione.
2) L'univocità. Si sente spesso dire che il latino è una lingua morta. Non è vero. Il latino è una lingua viva e vegeta, poiché c'è chi la parla (nella liturgia, nell'insegnamento di certi seminari) e chi la scrive (si pensi soltanto ai documenti ufficiali della Chiesa). Non è tuttavia una lingua di uso corrente, cioè una lingua che si usa per la conversazione quotidiana. Ma, a ben vedere, per la liturgia questo costituisce un indubbio vantaggio. La fede, infatti, è espressione di verità sempre uguali, che non mutano col passare del tempo e con l'evolversi della storia, poiché esse promanano da Dio, nel quale, come dice S. Giacomo nella sua epistola (1, 17), non c'è ombra né traccia di divenire. Ora, non c'è bisogno di essere un esperto di linguistica per rendersi conto di come il linguaggio corrente sia sottoposto a numerose e continue variazioni di significato. Basti pensare alla parola "salute", che nell'italiano di un tempo significava genericamente "salvezza (del corpo, quindi, ma soprattutto dell'anima = lat. salus), mentre oggi indica solamente la sanità fisica. Inoltre le parole del linguaggio corrente assumono per ciascuno una sfumatura particolare, sulla base del vissuto personale, dell'associazione spontanea di idee, della eccessiva familiarità dei concetti. Si capisce, dunque, che la lingua di uso corrente, per la sua eccessiva variabilità oggettiva e soggettiva, non è la più adatta per esprimere i contenuti della liturgia, che sono contenuti eterni, immutabili, come eterno e immutabile è l'oggetto cui si rivolgono, cioè Dio. Il latino, essendo uscito dall'uso quotidiano da più di un millennio, offre invece i requisiti richiesti, poiché il suo lessico, le sue formule, le sue modalità espressive sii sono cristallizzati in forme ben precise, dal significato univoco, che non possono essere in alcun modo travisate o alterate dalla percezione soggettiva.
3) La sacralità. Parliamo, naturalmente, non di una sacralità intrinseca (nessuna lingua di per sé è più sacra di altre), ma di una sacralità acquisita. Da secoli il latino, sottratto all'uso comune e impiegato principalmente in ambito ecclesiastico, viene percepito come lingua inscindibilmente legata al sacro, allo stesso modo in cui l'organo, pur essendo talvolta adoperato in altri contesti, viene automaticamente associato alla chiesa. Se la Chiesa ha conservato il latino (e, in oriente, il greco antico e il paleoslavo, tutte lingue fuori dall'uso), non è per ottuso immobilismo (lo dimostra il fatto che già nel IX secolo, quando il latino cominciava a non essere più compreso dalle masse, si ordinò ai sacerdoti di tenere l'omelia in volgare), ma per marcare, anche sul piano linguistico, la distinzione essenziale che separa il profano dal sacro. Anche a tale riguardo, è bene richiamare alla mente alcune nozioni di psicologia linguistica, che, per quanto elementari e scontate, sembrano essere trascurate da molti. L'uso di un tipo di linguaggio piuttosto che un altro è determinato dal contesto in cui ci si trova e dall'oggetto di cui si parla: altro è il modo con cui mi rivolgo a un parente o a un amico, altro è il modo con cui parlo a un superiore, altro ancora è il modo con cui interloquisco con un personaggio famoso. E, a parità di interlocutore, il mio modo di esprimermi sarà diverso a seconda che parli di una partita di calcio o della struttura interna dell'atomo. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione ben precisa. Sarebbe del tutto strano e fuori luogo parlare col proprio datore di lavoro impiegando lo stesso lessico e le stesse espressioni che si userebbero con un familiare. Non stupisce, dunque, che anche la liturgia, nella quale l'interlocutore è Dio stesso e l'oggetto sono le realtà soprannaturali, abbia un linguaggio proprio, radicalmente diverso da quello impiegato nella vita quotidiana e nelle attività profane. L'uso del latino serve per far comprendere meglio, anche sul piano dell'espressione verbale (che è uno dei piani più importanti della psicologia umana), che nell'azione liturgica siamo di fronte a qualcosa che, trascendendo la realtà immanente, non può essere espressa nello stesso linguaggio di quest'ultima. Del resto, anche ai tempi di Gesù, in Palestina la lingua corrente era l'aramaico, ma nelle sinagoghe il culto avveniva quasi interamente in ebraico antico, ad eccezione soltanto delle parti destinate all'istruzione del popolo.
Si potrebbe obiettare che l'uso del latino preclude la comprensione dei testi liturgici alla maggior parte del popolo e quindi ostacola uno dei fini del culto pubblico, che è l'edificazione dei fedeli. Tale rilievo ha il sapore delle contestazioni superficiali, che al primo impatto sembrano ovvie e scontate, ma che rivelano tutta la loro inconsistenza una volta che si esamini più approfonditamente la questione.
In primo luogo, la liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a farci penetratre, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei sacri paramenti, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, la chiesa. Si comprende facilmente, allora, come la partecipazione alla liturgia debba avvenire in primo luogo a livello interiore, con la comprensione profonda e personale del mistero che si celebra, con l'elevazione della mente a Dio, autore di tali misteri. Un rito che favorisce il senso esteriore del sacro, ne agevola la percezione interiore. Viceversa, un rito che, a causa dell'impiego di elementi troppo legati alla realtà quotidiana, non marca adeguatamente la differenza tra sacro e profano, non riesce a far penetrare adegutamente il fedele nella dimensione del mistero. Il risultato è una liturgia che ha per oggetto, non più Dio, ma la comunità stessa, che finisce per celebrare valori (o, talvolta, disvalori) esclusivamente umani, rispetto ai quali Dio o si trova in disparte (come i crocifissi nelle chiese moderne) o è del tutto escluso. In altre parole, celebrare la liturgia attingendo le sue principali caratteristiche dalla realtà profana (lingua corrente, canzonette, improvvisazioni, mortificazione del simbolismo) significa scadere nell'autoreferenzialità, e invogliare le persone ad abbandonare la pratica religiosa: infatti, se in chiesa trovo le stesse cose (o, meglio, un surrogato delle stesse cose) che mi offre il mondo, perché dovrei andarci?
Non è vero, poi, che la comprensione della liturgia tradizionale sia appannaggio di chi conosce la lingua latina. L'esperienza dimostra che il popolo aveva un'idea molto più chiara del valore della Messa e del significato dei riti quando essi venivano celebrati in una lingua ai più sconosciuta, che non oggi, quando tutto avviene in italiano e con un rito semplificato. Perché? Perché la liturgia è per lo più costituita da uno schema fisso, che si ripete sempre uguale in tutte le celebrazioni e che pertanto basta imparare una volta per tutte. Le parti variabili sono poche: nella Messa ve ne sono nove (antifona all'introito, orazione, epistola, versetti interlezionari, vangelo, antifona all'offertorio, secreta, antifona alla comunione, dopocomunione), di cui quattro sono canti, mentre soltanto due (epistola e vangelo, a cui si possono aggiungere, volendo, le tre orazioni) riguardano direttamente l'istruzione del popolo. Queste possono essere lette da chiunque su un messalino che riporta la traduzione del testo liturgico. E, in ogni caso, si è diffusa da molto tempo la consuetudine di leggere in volgare le letture scritturistiche. Riassumendo: le parti fisse (ordinario della Messa) sono sempre uguali, ed è sufficiente memorizzarle una volta per tutte, non quanto alla singola parola, s'intende, ma quanto al significato; le parti mobili (proprio della Messa) possono essere consultate sul messalino bilingue, grazie al quale, peraltro, il fedele può usare i testi liturgici a casa propria, per sua meditazione personale. La difficoltà di imparare almeno i rudimenti della lingua liturgica non è poi così grande come sembra, specialmente se si pensa che anche i testi italiani, per essere adeguatamente compresi, hanno comunque bisogno di una spiegazione (l'uso del volgare non basta per rendere i concetti teologici contenuti nella Messa automaticamente intellegibili) e che, in passato, perfino le persone di bassa cultura conoscevano a memoria le principali parti della liturgia, magari storpiando qualche desinenza latina ma avendo ben chiaro il significato.
Si tenga conto, infine, che l'uso di una lingua diversa da quella corrente stimola la concentrazione dei fedeli. Sembra un paradosso, ma è così. Un rito interamente celebrato in volgare non richiede alcuno sforzo di comprensione. Si può benissimo andare a Messa (tutti, credo, abbiamo fatto almeno una volta questa esperienza), ascoltare tutto, rispondere a tutto, ma avere la mente altrove. Molto, certo, dipende dalla disposizione personale, ma una responsabilità non piccola va attribuita alla facilità di un rito in cui la lingua è quella di tutti giorni, le cerimonie semplificate, l'atmosfera da riunione profana. L'ostacolo linguistico (che poi, come abbiamo visto al paragrafo precedente, è un ostacolo soltanto relativo) costituisce per il fedele un incentivo a compiere quello sforzo mentale che gli consente di entrare nella dimensione propria della liturgia, che è una dimensione radicalmente diversa da quella quotidiana.
In conclusione, possiamo affermare sulla base di solidi argomenti che i vantaggi derivanti dall'uso indiscriminato del volgare sono assai minori rispetto a quelli che si ottengono dall'uso del latino, e, in ogni caso, sono anch'essi subordinati alla spiegazione del significato dei riti e delle preghiere (catechesi liturgica). Per cui, a conti fatti, non c'è ragione per allontanarsi dalla pratica che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le principali tra le false religioni hanno sempre e costantemente osservato.
Alle considerazioni di tipo teorico, se ne può aggiungere una, decisiva, di indole pratica. L'antico rito, grazie all'eminente sacralità che gli deriva dall'uso di una lingua diversa da quella corrente, ha prodotto, nel corso dei secoli, abbondantissimi frutti di spiritualità e santità, non solo nel clero e in coloro che conoscevano il latino, ma anche nel popolo illetterato e analfabeta, che non comprendeva le singole parole del rito, ma coglieva il senso ultimo della liturgia, il suo significato profondo. Oggi (ma potremmo fare un parallelo con la crisi religiosa conseguita all'introduzione del volgare e alla semplificazione dei riti nei paesi protestanti) assistiamo al fenomeno inverso: il rito in volgare e semplificato è materialmente intellegibile e i fedeli possono parteciparvi esteriormente con la massima comodità; ma ciò ha indotto la maggior parte dei cristiani (anche del clero, purtroppo) a ritenere che non fosse necessario andare oltre, che cioè lo spirito della liturgia consistesse nella comprensibilità stessa; il rito, quindi, ha valore non nella misura in cui avvicina a Dio, ma nella misura in cui esprime i bisogni e le aspettative della comunità: ecco il cerchio autoreferenziale, da cui Dio è praticamente escluso, e a creare il quale ha contribuito in misura non piccola una liturgia abbassata talmente a livello dell'uomo da essere divenuta interamente umana.
Con quale disposizione, dunque, bisogna riaccostarsi all'antica liturgia, se non la si è mai conosciuta o se non la si frequenta più da molti anni? Prima di tutto, senza la pretesa di restarne immediatamente affascinati. È vero che molti fedeli rimangono subito attratti dalla sacralità che promana dal rito antico, ma è anche vero che, per molti, la forza dell'abitudine, unita ad un'errata concezione della liturgia, che identifica il suo valore con la partecipazione e la comprensibilità esteriore), rende difficile l'immediata fruizione di un rito che si basa su presupposti nettamente diversi. Occorre, quindi, dare tempo al tempo: assistere al rito con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica.
<span>La fede, infatti, è espressione di verità sempre uguali, che non mutano col passare del tempo e con l'evolversi della storia, poiché esse promanano da Dio, nel quale, come dice S. Giacomo nella sua epistola (1, 17), non c'è ombra né traccia di divenire.</span>
RispondiEliminaFrase meravigliosa!
Bravo Daniele, hai colto il nocciolo della questione sul "problema" (sic) del latino, ribattendo punto su punto le solite trite e ritrite obiezioni che vengono mosse alla lingua della Messa Tridentina!
RispondiEliminaMonsignor Lefebvre di buona memoria affermava che le grazie ed i benefici che la Messa effonde non sono legati alla comprensione del testo...del resto riusciamo ad apprezzare e trarre belle sensazioni da una bella canzone straniera o da un brano d'opera, anche se non comprendiamo le parole?!? O questo ci ostacola nel gustare la bellezza delle opere vocali?!?
La cosa che mi colpi' la prima volta che assistetti ad una Messa Tridentina nella FSSPX fu... il silenzio! Non un silenzio passivo come lo definiscono i modernisti (per loro la partecipazione attiva consiste nel gridare, piangere, saltare e ballare), ma "carico" di preghiera e raccoglimento dei fedeli, che si univano alle preghiere silenziose del Celebrante.
Avendo studiato da ragioniere chiesi al Sacerdote come poter seguire la Messa, dato che non conoscevo il latino; mi diede in mano un Messalino latino-italiano... l'uovo di Colombo, basta seguirlo!!! Con un po' di fatica imparai, e scoprii quanto questi sforzi mi mantenevano concentrato e raccolto nel seguire il Rito, combattendo le inevitabili distrazioni e stanchezza!!!
<span>Ma qua dentro almeno il latino lo conoscono tutti o si accontentano "dell'atmosfera"???</span>
RispondiEliminaDall'articolo: "L'antico rito" - "il rito in ".
RispondiEliminaForse sarebbe più corretto parlare di "Forma". Il Rito è unico, cambia la forma (Ordinaria e Extra-ordinaria),
A meno che non si voglia insinuare che si tratti di due Riti differenti (e in tal caso la cosa sarebbe grave...).
<span>Non si tratta di sviste. Nel presente articolo, l'uso del termine "rito antico" viene usato come sinonimo di "forma antica, forma straordinaria, ecc.", al semplice scopo di variare l'espressione verbale. Se poi vogliamo affrontare la questione nel merito, è necessario fare una distinzione.
RispondiEliminaDal punto di vista giuridico, il rito romano è - attualmente - unico, ma si divide in due forme, una detta straordinaria, l'altra detta ordinaria (cfr. motu proprio "Summorum Pontificum").
Dal punto di vista reale, la "forma straordinaria" è - a tutti gli effetti - un rito diverso dalla "forma ordinaria": lo è per genesi, lo è per storia, lo è per legislazione, lo è perché tra le due "forme" rituali sussiste una differenza ben maggiore che (per esempio) tra il rito romano antico e il rito ambrosiano antico, che vengono considerati da chiunque due riti diversi.
C'è da precisare che il motu proprio utilizza un'espressione giuridica nuova ("forma" al posto di "rito") non per negare la realtà dei fatti, ma per non causare problemi a livello canonico, visto che un rito distinto comporterebbe una precisa appartenenza (i fedeli dovrebbero quindi scegliere se appartenere all'uno o all'altro) e una diversa posizione di fronte al diritto (per gli ambrosiani, ad es., valgono norme diverse per quel che riguarda il digiuno ed altre cose). Per inciso, questo ultimo aspetto si è già in parte realizzato con l'istruzione "Ecclesiae universae", che deroga alle norme canoniche in contrasto col diritto liturgico dell'antico rito. Inviterei tuttavia a non essere "più realisti del re" e a non far dire ai documenti della suprema autorità più di quanto non dicono. Parlare di "rito romano antico" - esulando dalla questione giuridica - non ha nulla di scorretto e nulla toglie alla legittimità della "forma ordinaria".</span>
<span> Il Rito è unico, cambia la forma (Ordinaria e Extra-ordinaria),
RispondiEliminaA meno che non si voglia insinuare che si tratti di due Riti differenti</span>
E dire che per evitare 'insinuazioni' del genere basterebbe rispondere alle osservazioni contenute nel 'Breve esame critico'!
Come mai in 42 (QUARANTADUE) anni non è stato possibile dedicare un po' di tempo a questa questione? La si ritiene forse di secondaria importanza?
Mah!
No, no andiamo tutti a orecchio e ci piacciono le trine...
RispondiElimina"Dal punto di vista reale, la "forma straordinaria" è - a tutti gli effetti - un rito diverso dalla "forma ordinaria": lo è per genesi, lo è per storia, lo è per legislazione, lo è perché tra le due "forme" rituali sussiste una differenza ben maggiore che (per esempio) tra il rito romano antico e il rito ambrosiano antico, che vengono considerati da chiunque due riti diversi. "
RispondiElimina8-) ;)
<span>... e i damaschi, le dorature etc. etc. etc....</span>
RispondiEliminaVisto il maggior relatore (M.G.Des Lauriers) poi ci troveremmo a dover rispondere pure alla tesi di Cassiciacum.
RispondiEliminaForse è meglio lasciarlo perdere il "Breve esame critico". :-D :-D :-D
E le parrucche, i nei finti, le penne d'oca e la cera lacca.
RispondiEliminaN.B.: Disdegnamo le autovetture e predilegiamo le carrozze... botticelle, landeaux, phaéton, break, tilbury, charrettes, calessi, cabriolets, char-à-bancs e via dicendo.
Ho visto proprio l'altro giorno le foto dei pontificali di Burke. Belle eh non c'è che dire, mancavan solo le gorgiere..
RispondiEliminaComplimenti Daniele per questo bell'articolo.
RispondiEliminaSi, sono due riti diversi. Agli antipodi. L'uno annulla l'altro. Problemi?
RispondiEliminaComplimenti anche da me: bellissimo!
RispondiEliminail vecchio infatti annulla il nuovo
RispondiEliminaGrazie Daniele e che il Signore ilumini il tuo cammino al suo servizio.
RispondiEliminaIo rimetterei il latino pure alle medie, giusto per far muovere un po' i neuroni dei nostri ragazzi.
RispondiEliminaSono contento che le siano piaciute.
RispondiEliminaFZ
L'articolo è davvero bello e interessante. Mi permetto di suggerire a tutti gli amenti della tradizione la lettura integrale della Sacrosantum Concilium, che è stata incredibilmente, come noto, praticamente ignorata all'atto della predisposizione del nuovo messale e totalmente messa da parte da quanti, conferenze episcopali e persino singoli sacerdoti hanno via via ulteriormente modificato in peggio il rito. Quanto al latino, basterebbe tornare per l'appunto al n. 36 della Sacrosantum Concilum, per realizzare il necessario contemperamento tra una più agevole istruzione del popolo e il senso della sacralità:
RispondiElimina<p><span><span>1. L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. 2 Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti. </span></span>
</p>
Si legga la Sacrosanctum Concillium e si consenti lo sforzo e-o il sacrificio (non fosse che pecuniario) di acquistare il libro di Bugnini" La Riforma liturgica" , si potrà così constatare come, passo dopo passo, progressivamente ma sicuramente, il Consilium, purtroppo con l`avallo di Paolo VI, ha tradito la Costituzione conciliare sulla Liturgia.
RispondiEliminaLe tue parole sono sagge. Purtroppo oggi chi le condivide viene emarginato, calunniato, diffamato.
RispondiEliminaE fa carriera invece chi pensa tutto il contrario.
Ad esempio un sacerdote, docente in seminario a Milano, ritiene che nella liturgia, piuttosto che il latino bisognerebbe utilizzare lo spagnolo sudamericano:
http://www.seitreseiuno.net/Home/tabid/155/EntryId/2929/La-prima-predica-dellarcivescovo.aspx
Tutto il blog è un "capolavoro" di riduzione del cristianesimo ad ideologia sociale, ogni componente verticale, ogni rimando a qualsiasi trascendenza, è escluso. E contro qualsiasi cosa sappia di "preconciliare" le invettive sono diverse.
P.S. potete anche intervenire...il redattore si riempie la bocca del valore della libertà di espressione, poi però non approva ogni messaggio in cui il minimo rispettoso dissenso viene espresso.
Brava annarita! Probabilmente salveremmo dall'incoscienza e dall'inanità le nuove generazioni. Ma sfortunatamente le vecchie generazioni sono troppo rimbambite dalla cultura del risultato immediato (che è poi una forma di materialismo) per rendersene conto.
RispondiEliminaBuon pomeriggio!
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