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sabato 11 giugno 2011

Il desiderio umano di adorare

di Francesco Agnoli


Ai piedi di una bella montagna, slanciata verso il cielo, ogni uomo sente dentro di sé qualcosa, un movimento segreto, intimo, incomunicabile, che la parola non sa esprimere, ma che assomiglia molto ad un desiderio di umile adorazione.
L'immensità buona e potente della montagna risveglia nell'uomo di città, nell'uomo delle moderne metropoli piatte e monotone, confuse e rumorose, quello che Romano Amerio considerava il cuore dell'esperienza umana: "il problema dell'uomo è il problema dell'adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza".
Che l'adorazione sia il problema dell'uomo, oggi, non è tanto facile capirlo. Non ci aiutano a farlo nè le infinite occupazioni, né gli svaghi senza uscita offertici dalla tecnologia, né il diluvio di parole in cui siamo sommersi. Eppure, come scrive il Radaelli, nel suo bellissimo "Ingresso alla bellezza" (Fede & Cultura), "l'adorazione è un atto che soddisfa perfettamente il fine ultimo dell'universo, il quale, a cominciare dal nome, esige in primo luogo l'unità: ma non solo e non tanto l'unità del proprio essere universo, ma l'unità con l'Essere da cui esso, 'ente per partecipazione', in tutto dipende: con Dio, con l'Ente in sé sussistente; l'adorazione è l'atto che permette di non fratturarsi da Lui, pena trovarsi, statim, nulla".
Su un pensiero analogo a questo si fonda la recente decisione di Benedetto XVI di liberalizzare l'antica messa latina, e di attuare col tempo una riforma liturgica nella riforma del 1970. Perché è innegabile che là dove l'adorazione dovrebbe trovare il suo culmine, nella sacra liturgia, nella preghiera comune della Chiesa, nel sacrificio che unisce cielo e terra, purgatorio e paradiso, uomini e angeli, vi è sempre di più, oggi, qualcosa di assolutamente incongruo, dissonante. Al punto che il momento fondante della Messa, l'incontro con Gesù Eucarestia, che dovrebbe rappresentare il massimo della umiliazione e divinizzazione, al tempo stesso, del fedele, avviene nella nuova liturgia nel più completo anonimato, alla fine della celebrazione, quasi in extremis, non più in ginocchio, come un tempo, ma in piedi, da pari a pari, con una frettolosità orticante, per chi, appunto, desideri adorare, prostrarsi; non più in bocca, con quella riverenza che si conviene, ma in mano, come se la comunione fosse non un panis angelicus caduto dal cielo ma un cibo qualsiasi, che si prende da soli, che si sceglie di afferrare, e non di ricevere in dono, così come si fa dalla tavola, ad ogni pasto.
L'adorazione infatti implica un atto di umile sottomissione, e soprattutto un verso, una direzione: è un orare ad, cioè verso qualcuno, e quel qualcuno può e deve essere solo Dio, a cui è presente tutta l'umanità, non solo il "popolo", la comunità di un determinato istante o di un determinato luogo. Pregare verso Dio, verso oriente, esige allora un atteggiamento del cuore e del corpo, che tutta la celebrazione deve contribuire a creare.
La messa deve tornare ad essere dialogo tra Dio e gli uomini, tramite il Dio che si è fatto uomo e che si presenta a noi sotto le spoglie del sacerdote, non dialogo tra un presidente e la sua assemblea. E tutto, dall'arte, alle statue, all'altare, alla musica, deve tornare a servire a questo, perché "se re, re, re, re, re, re, re, re, trinitaria, subito subentra e gli si impone il genius opposto dell'antiadorazione, ossia della dispersione, della vacuità, del laicismo irrazionale e relativizzante".
Antiadorazione significa, come scriveva il cardinal Ratzinger nella prefazione ad un libro del grande liturgista Klaus Gamber, "liturgia degenerata in show, nella quale si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali seducenti, con successi momentanei nel gruppo dei fabbricatori liturgici, e di conseguenza una tendenza al ripiegamento sempre più forte in coloro che nella liturgia non cercano lo showmaster spirituale ma l'incontro col Dio vivente".
Dio vivente, come nota sempre il Radaelli, che viene addirittura eliminato nelle immagini, nelle piante non più a croce, e nelle croci stesse, con una strana furia iconoclasta: "non c'è più Volto, perché spesso il sacro Volto non lo si figura più o, se lo si figura, gli si svellono i caratteri dell'individuo: sacri volti senza occhi, sante mani senza dita, croci senza Crocifissi…".
Lo notava, quasi quarant'anni fa, anche Giovannino Guareschi, in una amara lettera al suo don Camillo, in cui lo invitava ironicamente a seguire le disposizioni della riforma liturgica, a dimenticare la sua storia, ad abbandonare la liturgia che aveva sempre celebrato: "Lei don Camillo…aveva pur visto alla tv la suggestiva povertà dell'ambiente e la toccante semplicità dell'Altare, ridotto a una proletaria tavola. Come poteva pretendere di piazzare in mezzo a quell'umile sacro desco un arnese alto tre metri come il suo famoso crocifisso cui lei è tanto affezionato? …non si era accorto che il crocifisso situato al centro della tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni?".
Ecco, dopo oltre trent'anni, torneremo, piano piano, alla centralità della croce, e alla centralità dell'Altare: verso il Signore. E' questa la restaurazione liturgica che Benedetto XVI persegue da quando era cardinale. La Croce che, come scrive Radaelli, significa "umiltà, obbedienza, dipendenza, contrizione, conversione del cuore, sacrificio, penitenza, silenzio"; la croce senza la quale il cristianesimo diviene una filosofia, una sociologia, una forma di moralismo, una forma di scoutismo, una serie di cose per le quali "mestier non era parturir Maria".
Da: “Dio, questo sconosciuto” (SugarCo)

6 commenti:

  1. Scusate, ma a proposito di liturgie "degenerate" mi permetto di segnalarvi (su YouTube) una messa in Veneto celebrata in Brasile... Questo il link: http://www.youtube.com/watch?v=03FQL4DCfdw

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  2. Ma quella che don Agnoli chiama "liturgia degenerata in show", non è altro che il compito inculturativo cui ci ha chiamato il Concilio, che non è rincorrere la moda, ma raggiungere l'uomo esatamente dov'è e portargli Dio proprio lì dove lui sta (condizioni spirituali ed esistenziali, ma anche sociali, politiche, economiche ecc.), senza caricargli pesi morali o rituali che lui non è capace di portare, che anzi lo allontanerebbero. La religione, anzi la fede più che la religione deve incontrare l'uomo, che è la fondamentale via della chiesa, come diceva Woytjla. Poi non è una liturgia già prefabbricate e ne varietur quella che serve, all'uomo d'oggi, maa proprio una liturgia in perenne corso d'opera, fermo restando l'annuncio della Parola,  la comunione dell'unico pane spezzato e la memoria del Risorto (come dice un prefazio attuale). E' inutile proclamare in astratto un Dio, se questo non è un Dio vivente che va incontro ad un uomo vivente e non di cartapesta (come i baciapile nevrotici preferiti oggi dalle gerarchie).

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  3. Se è uno scherzo quello che lei dice, illustre Pastor ille, devo dire che è riuscito bene. Se non lo è ... quod Deus avertat!
    In ogni caso Francesco Agnoli è dottor, ma non è "don"!

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  4. Nel merito, sul bisogno/desiderio di adorazione che a saper leggere si nota ovunque (perfino nel "successo" dell'Islam in Occidente) , sono ben d'accordo. Dissento invece sulla chiosa dell'articolo, inutilmente polemica verso lo scoutismo: ma conosce il Dr.Agnoli lo scoutismo cattolico italiano e i suoi documentati frutti, le tante vocazioni, l'indubbia capacità educativa di tener desta nei giovani l'attenzione a quella sete interiore che sola fa aprire i cuori allo Spirito e al servizio degli altri? Trovo qui una forma di pregiuzio e di superficialità che mi fa porre in dubbio la sincerità del resto dell'articolo.

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  5. Caro The Sentry, dovrebbe leggere bene l'articolo, in cui non parlo affatto male degli scout, su cui comuqnue ci sarebbe molto da dire, ma scrivo semplicemente che il cristianesimo non può essere ridotto ad una filosofia o ad uno scoutismo, cioè ad un modo di agire e di comportarsi (ad una morale, per essere più chiari). E' ben altro...

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  6. Anzitutto a ringrazio per avermi risposto di persona. E' proprio la sua visone dello scoutismo - beninteso, lo scoutismo cattolico - come un semplice codice morale che considero riduttiva; quando quel codice cavalleresco si radica e cresce nella Chiesa e per la Chiesa, pur con tutti i limiti e le difficoltà che oggi incontra quel radicamento, ebbene esso attinge le sue ragioni ultime e feconde proprio nel farsi strumento educativo, tramite verso i giovani di un contenuto profondamente cristiano. Lo scoutismo d'impronta anglosassone aconfessionale può essere definito come una mera modalità comportamentale: lo scoutismo latino (francese ed italiano) non ha la stessa storia e le stesse origini, e per molti è stato una via di crescita nella fede, financo di autentica santificazione.

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La Redazione