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giovedì 6 novembre 2025

IOR, i 41 milioni del caso Budapest. Per la prima volta, un tribunale riconosce la Santa Sede come vittima di riciclaggio #300denari

A due mesi dalla sentenza del Tribunale penale federale svizzero che ha confermato il sequestro di 11,2 milioni di euro su richiesta del Vaticano, la vicenda dello “scandalo Budapest” esce dall’ombra. Per la prima volta, un tribunale europeo riconosce ufficialmente la Santa Sede come parte lesa in un’indagine internazionale per riciclaggio, segnando un punto di svolta nella lunga battaglia per la trasparenza delle finanze vaticane. «Una sentenza in realtà puramente interlocutoria, in quanto la procedura di assistenza giudiziaria è ancora in corso», commenta prudentemente un procuratore elvetico con il quale ci siamo confrontati. «La Svizzera non ha ancora emesso la decisione definitiva. Si tratta soltanto di una pronuncia parziale, relativa al sequestro. Ma è già un primo passo significativo».
L’inchiesta – che coinvolge il fondo maltese Futura Funds SICAV plc, la società lussemburghese Optimum Asset Management e la banca ginevrina REYL & Cie – riporta alla ribalta un’operazione nata nel 2013 e oggi riaccesa dal recentissimo pronunciamento del tribunale. Così, mentre a Budapest si prepara il restauro del maestoso Palazzo della Borsa, acquistato nel 2024 da István Tiborcz, genero del premier ungherese Viktor Orbán, la Santa Sede – allora coinvolta come investitore istituzionale – tenta di recuperare i fondi dispersi durante il precedente pontificato. 
Il fondo scelto dal Vaticano aveva infatti tra gli asset principali l’acquisizione e la valorizzazione dell’attuale Bourse Palace: un immobile storico nel pieno centro della capitale, destinato (nelle intenzioni) a diventare polo di pregio per uffici, hotellerie di fascia alta o sede di grandi istituzioni internazionali. Quindi, il problema non è l’asset in sé (che poteva anche avere senso), ma chi lo gestiva, come lo gestiva e con quale rete di relazioni è arrivato a gestirlo. Fonti dei fatti e atti ufficiali a fine articolo. 

*  *  *

Tutto comincia nel 2013, quando lo IOR – allora guidato da Ernst von Freyberg – decide di investire circa 41 milioni di euro in un progetto immobiliare europeo.
Il piano, promosso dalla società Optimum Asset Management SA (Lussemburgo), prevedeva l’acquisto e la valorizzazione dell’antico Palazzo della Borsa di Budapest (Tozsdepalota), edificio monumentale nel cuore della capitale ungherese. Per gestire l’operazione viene costituito un fondo ad hoc: Futura Funds SICAV plc, domiciliato a Malta, con conti di custodia presso una banca ginevrina, la REYL & Cie SA, attraverso la sua controllata REYL Malta Ltd. Un’architettura finanziaria raffinata, multilivello, apparentemente legittima  e coerente con le disposizioni normative vigenti, e in linea con la prassi di mercato: dal Vaticano i soldi arrivavano al fondo maltese, da Malta al gestore lussemburghese  e, attraverso una società veicolo, all’acquisto dell’immobile ungherese. Sia ben chiaro, è sempre il gestore di un fondo a decidere come impiegare le risorse, purché in linea con le finalità del programma di investimento. E comunque senza mai farle transitare su conti personali, fatto che costituirebbe una violazione immediata. 

La trama si infittisce
Negli anni successivi, il valore dell’immobile cresce, ma i rapporti tra il Vaticano e i gestori si deteriorano. Secondo lo IOR, i fondi sarebbero stati parzialmente distratti e reinvestiti in altre operazioni, senza consenso né rendicontazione trasparente. L’Istituto vaticano parla apertamente di truffa, appropriazione indebita e riciclaggio. Dall’altra parte, i gestori di Optimum ribattono che l’investimento era di tipo “blind”, e che lo IOR, in quanto investitore istituzionale, aveva accettato il rischio e la durata del fondo. Nel 2020 lo IOR decide di reagire. Vengono avviate denunce penali in Vaticano, rogatorie internazionali e richieste d’assistenza giudiziaria a Malta, Lussemburgo e Svizzera. I promotori dell’affare, in primis il finanziere Alberto Matta, ex Credit Suisse, nonché fondatore di Optimum entrano nel mirino degli inquirenti.

L’affare di Budapest
Nel frattempo, il palazzo cambia mani. Nel dicembre 2024 viene venduto a István Tiborcz, genero del primo ministro ungherese Viktor Orbán, imprenditore noto per la sua vicinanza al potere. La vendita chiude la fase immobiliare, ma apre un nuovo fronte: che fine hanno fatto i proventi?
Secondo gli inquirenti vaticani, una parte significativa dei ricavi è transitata per conti svizzeri collegati a società maltesi e lussemburghesi, fino ad arrivare a un deposito di oltre 11 milioni di euro presso REYL & Cie SA a Ginevra. Ed è qui che scatta l’azione della Confederazione Svizzera.

Il sequestro in Svizzera
Nell’aprile 2025, il Ministero pubblico della Confederazione, su richiesta del Vaticano, ordina il sequestro preventivo di 11,2 milioni di euro su un conto riconducibile al fondo Futura.
Il provvedimento viene confermato, con un dissequestro parziale per le somme non collegate direttamente all’inchiesta. La società Futura Funds SICAV plc presenta ricorso al Tribunale penale federale di Bellinzona, sostenendo di essere titolare economico dei fondi e lamentando l’eccesso di zelo della procura elvetica. Il 23 settembre 2025, con la sentenza RR 2025 129, il Tribunale respinge il ricorso, dichiarandolo inammissibile: Futura non è parte legittimata, poiché non è intestataria formale del conto. Il sequestro resta valido. Dietro la freddezza giuridica della formula, si nasconde un messaggio chiaro: la Svizzera collabora pienamente con il Vaticano e non intende proteggere fondi di dubbia provenienza, neppure quando transitano da veicoli regolarmente registrati a Malta o Lussemburgo.

Un dejà vu chiamato Londra
Chi ha seguito il caso Londra non può non avvertire le somiglianze. Anche lì, un investimento immobiliare gestito tramite fondi esteri; anche lì, funzionari dello IOR e intermediari privati accusati di gestioni disinvolte; anche lì, un palazzo prestigioso – Sloane Avenue – trasformato in simbolo delle opacità vaticane. La differenza, stavolta, è che il Vaticano appare parte lesa e non complice. La nuova governance finanziaria, dopo le riforme avviate nel precedente pontificato e l’opera di uomini come mons. Nunzio Galantino e Padre Guerrero, ha portato alla luce un sistema che per decenni aveva operato in zone grigie.  
In queste due storie evidentemente il nodo sta a monte. Per anni, in Vaticano, la scelta dei gestori non è avvenuta seguendo criteri di solidità, reputazione e storia professionale. Più spesso ha prevalso la logica delle conoscenze personali, delle entrature, del “si conoscono da tempo”. Questo, con un risultato inevitabile: invece di affidarsi a operatori con competenza provata, ci si è lasciati convincere da figure senza reale esperienza di mercato. E quando al tavolo siedono persone così, è facile che finiscano per tutelare prima i propri interessi e solo dopo – molto dopo – quelli del fondo che dovrebbero amministrare.

Un caso economico, morale e politico
Il “caso Budapest” non è solo una disputa tra banche e fondi. È uno specchio delle contraddizioni della Chiesa contemporanea, chiamata a coniugare spiritualità e finanza, dottrina e governance.
Investire non è peccato – ricordava già la Centesimus Annus – ma lo diventa quando l’investimento perde il senso del fine: servire il bene comune, non il profitto fine a sé stesso. L’inchiesta tocca anche equilibri geopolitici delicati: la presenza del Vaticano in un affare che finisce nelle mani di un oligarca vicino a Orbán non è solo una questione contabile, ma anche diplomatica.
Per alcuni osservatori, il caso potrebbe raffreddare i rapporti tra Santa Sede e il fronte conservatore ungherese, finora tra i più vicini al Papa su temi morali ma critici su quelli sociali.

Cosa resta in gioco
Oggi, tra Roma, Ginevra e La Valletta, si combatte una partita silenziosa fatta di rogatorie, trust e società veicolo. L’obiettivo del Vaticano è chiaro: recuperare i fondi e dimostrare che la riforma della sua finanza non è solo di facciata. La Svizzera, da parte sua, sembra intenzionata a collaborare pienamente, in un gesto che segna la fine di un’epoca: quella in cui il segreto bancario proteggeva ogni ombra. Resta un monito per tutti gli enti religiosi e filantropici che gestiscono patrimoni: la fede non basta a garantire la trasparenza, e la buona intenzione non assolve la cattiva governance.
Servono competenza, controllo e una visione chiara di ciò che la finanza deve servire: l’uomo, non il profitto.
Come ha ricordato un procuratore dai noi interpellato, “il caso Budapest è ancora aperto, ma segna già un punto di svolta”. Non solo per la cooperazione tra Vaticano e autorità svizzere, ma per il messaggio che invia al mondo cattolico: che la trasparenza non è un optional, e che anche le opere di Dio devono passare per i conti in ordine degli uomini. La “banca di Pietro” – come la chiamano in Vaticano – cerca oggi di voltare pagina. Ecco allora che dopo Londra, Budapest diventa un nuovo crocevia: tra passato e futuro, tra peccato e redenzione, tra finanza e fede. 



Robert
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Presentazione della rubrica


Documenti ufficiali / atti
Vendita dell’immobile (Tőzsdepalota / Exchange Palace) a veicolo legato a Tiborcz
(Le fonti 7-11 insieme provano: chiusura vendita 12-19 dicembre 2024; acquirente = fondo gestito da Gránit AM; Gránit AM è legato a István Tiborcz.)

Sequestro in Svizzera / cooperazione con Vaticano
Impegno/controversie IOR–Futura/Optimum (importi, contenziosi Malta)

REYL & Cie – profilo e ruolo di depositario in Malta (base per l’inferenza “C. & Cie”)

Cornice “caso Londra”