Riceviamo e pubblichiamo.
Luigi C.
Simon de Cyrène, 10 ottobre 2025
Riflessione teologica sulla povertà, la liturgia e il valore
I. Un’eco antica nel linguaggio nuovo
Vi è, nella prima esortazione apostolica di Leone XIV, Dilexi te, una sincerità che commuove e una passione che obbliga al rispetto. Il testo abbraccia la sofferenza del mondo, ascolta il grido dei poveri e denuncia i meccanismi economici e culturali che schiacciano la dignità dell’uomo; esso si iscrive nella grande linea della dottrina sociale della Chiesa, inaugurata da Rerum Novarum di Leone XIII e prolungata, con accenti diversi, da Populorum Progressio, Centesimus Annus, Caritas in Veritate.
Tuttavia, man mano che se ne procede la lettura, affiora una sensazione discreta ma persistente: la sensazione di un vuoto. Come se la parola, pur giusta e compassionevole, rimanesse sospesa al di sopra del reale, incapace di discendere sino alla radice di ciò che nomina. Non vi è, nel documento, errore di dottrina; vi è piuttosto una distanza: la percezione che la Chiesa, parlando dei mali del mondo, inciti più il mondo che Se stessa.
Le ingiustizie sono descritte con precisione, ma quasi nulla viene detto su come il suo atto proprio, cioè la liturgia, il mysterium fidei in cui il tempo, la materia e la grazia si ricongiungono, possa realmente guarirle. Tutto accade come se il cuore pulsante del cristianesimo fosse relegato sullo sfondo, e al centro restasse un discorso nobile ma orizzontale, che convince la ragione senza incendiare l’anima.
II. Una continuità senza vera novità
Da più di un secolo la Chiesa accompagna le metamorfosi del capitalismo e delle strutture politiche. Dalla “questione operaia” affrontata da Leone XIII sino alla globalizzazione analizzata da Benedetto XVI, il Magistero ha riformulato l’antica esigenza evangelica di giustizia. Dilexi te si situa in questo continuum: riafferma la dignità di ogni persona (Dilexi te, §§ 8-10), la destinazione universale dei beni (§ 73), l’opzione preferenziale per i poveri (§ 79), la responsabilità ecologica (§§ 105-108).
Eppure, diversamente da Caritas in Veritate, che univa la carità alla verità come partecipazione alla vita trinitaria, Dilexi te si ferma a una morale della compassione. Parla di conversione, ma raramente di culto; propone gesti e programmi, più che riti e sacramenti. Il suo tono resta pastorale, non mistagogico.
Non per questo il testo è errato: è semplicemente incompleto. Se la povertà fosse solo un problema di redistribuzione, basterebbe l’elemosina. Ma se essa è il segno di un disordine spirituale, solo la liturgia, proprio il luogo in cui il dono è restituito alla sua sorgente, può vincerla davvero. È questo il punto che il documento non esplora, e che invece andrebbe posto al centro della riflessione ecclesiale.
III. Le “strutture di peccato” e la loro radice dimenticata
Il lessico dominante dell’esortazione è quello delle strutture di peccato (§§ 89-97). Esse designano sistemi economici, politici e culturali che istituzionalizzano l’ingiustizia. Il giudizio è lucido, erede del discernimento di Medellín e di Puebla: la povertà non è un incidente, ma un meccanismo.
Resta però inevasa una domanda: qual è la struttura di tutte le strutture? Da dove nasce questa meccanica di dominio? La teologia classica risponderebbe: dal culto. Il peccato, prima che morale, è cultuale in quanto è un atto di adorazione deviata, un culto reso a sé stessi.
In questo senso, la prima struttura di peccato non è la proprietà privata né la speculazione: è l’idolatria. Ed essa, nella modernità, ha assunto una forma precisa: la moneta. Il mondo contemporaneo adora il valore che si crea da sé, il potere di produrre l’essere dal nulla. La moneta fiat è la parodia metafisica della Parola creatrice: un verbo senza carne, una promessa senza offerta.
Dilexi te, pur denunciando la miseria, non osa toccare questo nodo. Attacca gli effetti, tali l’esclusione, la distruzione ecologica, la disgregazione sociale , ma non la causa: la deformazione del segno della ricchezza. Così, l’idolatria dell’economia resta intatta, solo moderata da esortazioni morali.
Il cristianesimo aveva proposto al mondo un’altra economia: non quella del credito, ma dell’Eucaristia. Il pane e il vino, offerti e ricevuti, ricordano che ogni bene proviene dal dono, e che nulla ci appartiene davvero. Dimenticarlo significa accettare l’economia profana come orizzonte inevitabile, limitandosi ad addolcirne le asperità.
In Dilexi te, questo silenzio pesa: là dove il peccato strutturale è una liturgia idolatrica, la risposta non può che essere una liturgia vera.IV. L’elemosina e il sacramento
Il documento restituisce all’elemosina la sua dignità biblica (§ 62): non condiscendenza, ma atto di giustizia. Tuttavia, la presenta ancora come gesto morale, non come atto liturgico. Nell’antica Chiesa la diaconia era inseparabile dall’altare: ciò che si donava ai poveri proveniva direttamente dalla mensa eucaristica. La carità era il prolungamento del sacrificio.
Separando la carità dal culto, si trasforma la grazia in solidarietà e il mistero in programma. L’azione ecclesiale diviene una filantropia spirituale, non più il luogo sacramentale dove il mondo è offerto e trasfigurato. L’esortazione, che avrebbe potuto ricomporre questa unità, preferisce ripetere la dicotomia.
Qui si misura la differenza tra il “fare del bene” e il “rendere il mondo eucaristico”. Il primo attenua la ferita; il secondo la risana. Senza il sacrificio, l’elemosina resta morale; con esso, diventa teologica.
V. La preghiera dimenticata
Solo poche righe (§ 114) ricordano che “il servizio dei poveri deve nascere dalla preghiera”. Nulla si dice sulla Liturgia delle Ore, sulla Messa quotidiana, sulla forza ontologica dell’intercessione. Eppure la preghiera è il respiro del Corpo ecclesiale.
Pregare non è pensare a Dio: è lasciare che Dio respiri nel mondo. È mediante la preghiera che il reale si ricompone, che le relazioni si redimono, che il tempo ritrova misura. Non parlare di preghiera significa ignorare l’unica azione che la Chiesa possiede realmente: l’oratio, quell’invocazione per cui il caos diviene cosmo.
Il documento denuncia l’entropia sociale, ma tace sul principio neghentropico che da duemila anni la contrasta: la liturgia.
VI. Dottrina e pastorale: il dilemma del § 98
Nel paragrafo 98, Dilexi te cita l’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1984, per riconciliare ortodossia e impegno sociale. Ma lo fa ponendo le due realtà su piani paralleli: la dottrina sarebbe la verità, la pastorale la sua applicazione.
Nella tradizione, invece, la loro unità non è dialettica ma liturgica. Nel rito, la verità diventa atto, e l’atto diventa verità: lex credendi e lex orandi si fecondano reciprocamente. Opporre la dottrina alla pastorale è già uscire dal rito, separare ciò che sull’altare si unisce.
Così, l’equilibrio invocato dall’esortazione si rivela, in realtà, una dissociazione. Si ottiene un cristianesimo moralmente attivo ma sacramentalmente esangue: la Chiesa parla di giustizia, ma dimentica che non può produrla se non offrendo il mondo a Dio.
VII. La liturgia, oblio fondativo
Forse questo silenzio deriva da una perdita più profonda: la liturgia ha smarrito la sua evidenza ontologica. Ai più appare come rito, estetica, memoria culturale; non come atto attraverso il quale il mondo sussiste.
Eppure, al senso più alto, la liturgia non è un gesto religioso: è l’atto stesso di Dio nel Creato. Non insegna solo ad amare i poveri: ricrea la possibilità stessa del dono. Senza riportare la questione sociale a questa sorgente, si rimane prigionieri delle cause seconde: si curano i sintomi d’una malattia di cui si è dimenticato il nome.
Lì dove l’uomo celebra se stesso, nasce l’ingiustizia; lì dove celebra Dio, rinasce il mondo.
VIII. L’economia eucaristica
All’offertorio, il pane e il vino rappresentano tutto il lavoro umano, la materia trasformata dalla libertà. Ma invece di essere trattenuto, questo lavoro viene consegnato. L’economia del mondo diventa così economia della salvezza.
Qui si trova la vera riforma: non nelle politiche, ma nel gesto eucaristico. Il problema non è che i poveri abbiano poco, ma che i ricchi non sappiano più offrire. Il denaro diventa demoniaco quando allontana l’altare; il potere, quando non si fa servizio.
Il rimedio non è l’elemosina, ma la conversione eucaristica: riconoscere che ogni bene è dono ricevuto e restituito. In tal senso, l’Eucaristia è l’unica moneta incorruttibile, la sola “riforma economica” che non prometta interessi ma grazia.
IX. Ciò che la Chiesa avrebbe potuto dire
Avrebbe potuto affermare: “L’economia moderna è un culto idolatrico; l’unico contro-culto è l’Eucaristia.”
Avrebbe potuto ricordare che la vera rivoluzione non è organizzare la redistribuzione, ma celebrare la transustanziazione: far passare la materia dal possesso alla comunione.
Avrebbe potuto ripetere, con Paolo VI, che “la Messa è il centro e la sorgente della vita cristiana” (Mysterium Fidei, 1965).
Ha preferito, forse per prudenza o rispetto umano, parlare il linguaggio del mondo: quello delle strutture e delle strategie, però il mondo non attende un nuovo piano sociale ma attende un segno e quel segno esiste, ed è l’altare.
X. Il mondo come liturgia pervertita
Ogni società, anche quella che si proclama laica, vive di una liturgia: celebra, ripete, consacra. Il capitalismo finanziario celebra la velocità, l’innovazione, la crescita; consacra la moneta come segno d’esistenza. Le ideologie tecnologiche, dal canto loro, fanno del progresso un altare, della performance un sacrificio.
In questa prospettiva, l’uomo moderno ha sostituito al sacrificio l’atto del consumo. Là dove il Cristo offriva la propria vita, l’uomo sacrifica gli altri, o la terra, per prolungare la propria sopravvivenza. Dilexi te descrive con precisione gli effetti di questa liturgia invertita: l’esclusione, la miseria, la distruzione del creato (§§ 72, 104, 107) ma non ne svela l’origine cultuale, cioè quella che il mondo adora senza sapere di adorare.
La sola contro-liturgia di Mammona possibile è quella che ritorna all’offerta, non alla produzione. L’Eucaristia è questo ritorno: il mondo restituito a Dio, la materia reintegrata nel circuito della grazia. Essa abolisce la “colpa infinita” che il mondo intrattiene con se stesso, e che la logica del debito perpetuo, che sia economico, ecologico, esistenziale, non fa che aggravare.
XI. L’Eucaristia come economia perfetta
Nella logica del mercato, la ricchezza nasce dalla scarsità; nella logica eucaristica, dal dono. La Messa è l’unica economia senza inflazione, perché la sua “valuta” è la presenza reale. Quando il sacerdote pronuncia Hoc est enim corpus meum, egli non produce un valore: lo rivela. Mostra che la realtà ha un prezzo solo nella misura in cui è abitata dall’Amore.
In un tempo in cui la parola “valore” è diventata sinonimo di profitto, la liturgia restituisce al valore il suo significato originario: ciò che vale non è ciò che costa, ma ciò che può essere donato. Così la Messa reintroduce nel mondo il principio della sufficienza, della misura, della gratitudine. Essa insegna a misurare non la quantità, ma l’intensità del bene.
In questo senso, l’Eucaristia è una “moneta di grazia”: circola per grazia, non per debito. Come ha scritto Benedetto XVI, “la logica del dono non esclude la giustizia, ma la trascende” (Caritas in Veritate, § 34). Qui si trova il nucleo di quella “economia del dono” che Dilexi te evoca solo marginalmente (§ 85), ma che costituisce la risposta teologica all’economia della competizione.
XII. La politica eucaristica
Cristo non ha fondato un partito, ma ha istituito un banchetto ed è in questa differenza che si gioca tutta la politica cristiana. La Chiesa non propone una forma di potere, ma un ordine di presenza. Nella liturgia, l’autorità sacerdotale non domina ma serve: colui che presiede è colui che lava i piedi.
Le strutture di peccato denunciate da Dilexi te come la corruzione, l'abuso, l'oppressione (§§ 90-92), non sono che la parodia di questa logica: l’uomo vi trattiene per sé ciò che dovrebbe passare attraverso di lui. La politica eucaristica, al contrario, restituisce il potere al circuito del dono.
Una società eucaristica non è politicamente teocratica, ma mistica: non si fonda sull’imposizione, ma sulla comunione. “Il bene comune”, scrive con giustezza Leone XIV, “è il nome terreno della comunione divina” (Dilexi te, § 99). In questa frase quasi impercettibile si nasconde un intero programma: il potere non come possesso, ma come responsabilità ricevuta e restituita, come ministerium caritatis.
La vera riforma istituzionale è dunque una riforma del culto. Là dove il rito si spegne, il potere si corrompe. Là dove l’altare arde, l’autorità ritrova il suo senso.
XIII. Il tempo riparato
Ogni peccato, scriveva Sant’Agostino, è un disordine del tempo: impazienza, oblio, fretta. La liturgia è la guarigione di questo tempo ferito: Essa sola reintroduce nel divenire umano il ritmo della grazia.
Il capitalismo vive di accelerazione; la liturgia impone la lentezza. Il primo misura l’efficacia, la seconda la fecondità. Quando la Chiesa celebra, non fugge il tempo: lo trasfigura. L’anamnesi del rito paolino recita “Annunciamo la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione” e non ripete il passato, ma lo apre alla promessa.
Dilexi te parla di “memoria dei poveri” (§ 79), ma non mostra come questa memoria possa essere redenta. È la liturgia a farlo: in ogni Eucaristia, il passato diviene seme e non prigione. Così la storia, che nella modernità tende alla pura ripetizione del male, è restituita al suo senso: il ricordo diventa riconciliazione, e il tempo stesso un sacramento.
XIV. Il volto riconciliato
A forza di parlare di “strutture”, si rischia di dimenticare i volti. La liturgia li restituisce: nel pane condiviso, il volto del povero diventa sacramento di Cristo.e così’altro non è più un problema, ma una presenza.
In questo senso, l’Eucaristia è l’unico spazio dove la fraternità non è ideale, ma reale: un corpo nel quale ogni differenza si trasforma in dono reciproco. “Nessuno è tanto povero da non poter donare qualcosa” (Dilexi te, § 63).
Finché la liturgia non tornerà ad essere il centro vitale della vita ecclesiale, ogni azione sociale resterà condannata a girare su se stessa. Non si tratta di fuggire il mondo nel rito, ma di introdurvi il rito: di celebrare la realtà. Quando il mondo diventa eucaristico, la povertà cessa d’essere scandalo e diventa invocazione.
XV. La memoria della giustizia
Uno dei tratti più profondi della teologia contemporanea è la riscoperta del rapporto tra memoria e male. Le società ferite ripetono ciò che non riescono a ricordare in modo giusto. La liturgia, al contrario, è una “macchina di memoria giusta”: si ricorda per perdonare.
Ogni Messa riscrive il passato in prima persona plurale: abbiamo peccato, siamo perdonati. Non è un tribunale ma una comunione dove le colpe diventano addirittura offerte, e le perdite germogli. È qui che la giustizia si trasforma: non più vendetta, ma memoria riconciliata.
La Dilexi te parla di perdono (§ 112), ma lo concepisce ancora in termini morali. La liturgia lo realizza come evento ontologico: nel Corpo donato, il male stesso è trasfigurato. La giustizia vera non punisce, risana.
XVI. Il silenzio dell’altare
Perché Dilexi te tace su tutto questo? Forse perché il linguaggio liturgico non è più udibile. La modernità capisce le parole di organizzazione, di governance, di efficienza; non capisce più la parola sacrificio.
Il Magistero, desideroso di essere ascoltato, ha imparato a parlare come il mondo ma, da decenni se non di più, nel tradursi, si è impoverito. Ha dimenticato che il suo atto più efficace non è spiegare, ma celebrare e finché la Chiesa spiegherà senza offrire, sarà compresa ma non creduta.
Il giorno in cui essa oserà dire e vivere che “il mondo sarà salvato alla Messa”, tornerà ad essere profetica. La sua forza non sarà più persuasiva, ma performativa. Come ricordava Sacrosanctum Concilium (§ 10): “La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù.”
È questo che Dilexi te avrebbe potuto ripetere: che la riforma sociale inizia all’altare, non nei bilanci.
XVII. Dall’elemosina al sacrificio
L’elemosina è buona, ma non basta. Essa lenisce la coscienza senza rovesciare l’ordine. Il sacrificio, invece, rovescia l’ordine trasfigurandolo. Nella liturgia, ciascuno dà più di quanto possiede; il mondo intero è restituito a Dio.
Se questo gesto tornasse a essere il centro della vita cristiana, avrebbe più forza politica di mille manifesti: cambierebbe il modo stesso di produrre, di consumare, di abitare. La giustizia sociale non è l’applicazione del Discorso della montagna, ma ne sarebbe il suo frutto sacramentale.
“Non basta denunciare l’ingiustizia”, scrive Leone XIV (§ 96), “occorre imparare l’arte della restituzione.” Questa “arte” è precisamente la liturgia: il luogo dove tutto ciò che è sottratto viene restituito, dove la proprietà si dissolve nella comunione.
VIII. Il futuro della Chiesa
Forse lo Spirito Santo, attraverso il silenzio di Dilexi te, prepara una riscoperta del cuore perduto. Dopo i secoli della dottrina e quelli della pastorale, può venire il tempo della liturgia vissuta: non rito d’abitudine, ma forma di esistenza.
Allora la Chiesa ritroverà ciò che il mondo attende da lei: non un nuovo sistema, ma un segno. Non un piano, ma un pane. Non un discorso, ma un sacrificio.
Quando l’altare tornerà a essere il centro della polis, la giustizia sociale non sarà più un’utopia ma un’evidenza. Perché, come ricorda Dilexi te nel suo ultimo paragrafo (§ 123): “L’amore che il Signore ci ha donato non è un sentimento, ma una forma di mondo.”
In quella forma, che è l’Eucaristia stessa, il cristiano vive, lavora, costruisce. Il mondo sarà salvo non per la somma delle nostre virtù, ma per la fedeltà di un gesto: prendere, benedire, spezzare, donare.
Conclusione
Il silenzio dell’altare, in Dilexi te, è insieme mancanza e promessa. Mancanza, perché la parola del Magistero si ferma sulla soglia del mistero; promessa, perché proprio questo silenzio invita la Chiesa a tornare alle fonti.
La riforma che il Papa invoca non si compirà nei documenti, ma nel gesto del calice. Là dove il pane è offerto e la vita condivisa, le strutture di peccato si dissolvono, e il mondo, anche senza saperlo, comincia a respirare di nuovo.