
Grazie ad Aldo Maria Valli per la pubblicazione di questa acuta e dolorosa analisi.
Luigi C.
15-8-25, di Daniele Trabucco*
L’idea di un pellegrinaggio giubilare riservato alle persone che si autoidentificano come LGBTQ+ e ai loro familiari, benché concepita nel contesto sacrale dell’Anno Santo in corso, rivela una profonda incoerenza sul piano filosofico, teologico-dottrinale e pastorale. Non si tratta, e occorre premetterlo con nettezza, di negare a chicchessia l’accesso alla grazia santificante e ai tesori di misericordia che la Chiesa, sacramento universale di salvezza, dispensa senza eccezioni di persone.
L’errore non è nell’accoglienza, ma nella configurazione di un atto penitenziale, quale è il pellegrinaggio, secondo coordinate identitarie fondate su inclinazioni sessuali o scelte relazionali, le quali, in sé, non costituiscono né elemento essenziale della natura umana, né criterio teologico di appartenenza ecclesiale.
In ordine filosofico, tale impostazione svela un nominalismo antropologico che riduce l’ente umano a una categoria accidentale, sottraendolo alla definizione classica di “substantia individua rationalis naturae”. Si eleva a principio identificativo ciò che, secondo l’ordine ontologico, è accidente etico-relazionale e si rischia di ribaltare la finalità stessa del pellegrinaggio: da “itinerarium purificationis” ad esodo verso l’immutabilità di una condizione che, alla luce della legge naturale e della rivelazione, domanda, sia pure con gradualitá e pazienza, trasfigurazione.
Un’analogia volutamente provocatoria aiuta a cogliere la deriva: istituire un pellegrinaggio per “i collerici” o “gli avari” e i loro familiari, non per stigmatizzarli ma per riconoscerli come tali, equivarrebbe a consolidare nell’identità ciò che la grazia e l’ascesi mirano a sanare. Sul piano teologico-dottrinale, la Chiesa ha sempre distinto tra la dignità ontologica della persona, in quanto “imago Dei”, e l’oggettiva disordinazione morale di atti e inclinazioni contrari all’ordine creato. Qualificare un pellegrinaggio giubilare con una etichetta legata a tali inclinazioni implica, anche se implicitamente, una teologia dell’appartenenza slegata dall’esigenza di “metanoia”, ossia di vera conversione.
La misericordia, se separata dalla verità, si degrada a indulgenza sentimentale; la verità, senza la misericordia, si riduce a rigidità normativa. Tuttavia, quando l’appartenenza è definita dalla condizione stessa che necessita di conversione, si scardina la dinamica sacramentale della grazia, che non si limita ad accogliere ma guarisce, eleva e trasforma.
Pastoralmente, una simile iniziativa introduce una frattura silenziosa nel tessuto della comunione ecclesiale, poiché istituisce categorie parallele, settoriali, potenzialmente in concorrenza con l’unità del Popolo di Dio. Il Giubileo, per sua natura, è convocazione universale alla penitenza e alla riconciliazione, non segmentazione in pellegrinaggi identitari.
Ammettendo tale logica, nulla impedirebbe, in linea di principio, di proporre un pellegrinaggio giubilare per i mafiosi che rivendicano orgogliosamente la loro affiliazione, per i divorziati risposati che rifiutano la castità, per i truffatori che difendono il proprio stile di vita. La provocazione non è iperbolica: ciò che viene compromesso non è il grado di peccaminosità di una condizione, quanto l’adozione di un criterio di riconoscimento ecclesiale fondato su ciò da cui si dovrebbe, invece, essere liberati. Così, il problema non risiede nell’aprire le porte del santuario, ma nel consacrare, a livello simbolico e comunitario, una autodefinizione che, per il discepolo di Cristo, è chiamata a essere sottoposta al vaglio della verità rivelata e trasformata dalla grazia redentrice.
La Chiesa, “Mater et Magistra”, non conferma il figlio nella sua infermità spirituale. Viceversa, lo conduce, spesso con tenerezza e sempre con chiarezza, dalla condizione ferita alla pienezza dell’ordine voluto da Dio. Un pellegrinaggio giubilare identitario, per quanto rivestito di intenzioni benevole, contraddice questo principio e rischia di trasformare l’Anno Santo, segno di rinnovamento integrale, in vetrina delle identità particolari, sostituendo all’universalità cattolica il mosaico frammentato di micro-comunità autoreferenziali. In ultima analisi, e con il rigore della teologia tomista, va ribadito che “gratia non tollit naturam, sed perficit”. La grazia non ratifica lo stato di disordine, ma lo assume per sanarlo e ordinarlo al fine ultimo dell’uomo, che è la visione beatifica. Ogni atto ecclesiale che, anche implicitamente, riconosce e consolida una condizione oggettivamente contraria alla legge divina, abdica alla sua funzione di mediazione salvifica e tradisce il mandato stesso ricevuto da Cristo.
Il pellegrinaggio, nella sua forma più pura, è figura della conversione; privato di questo orientamento, esso si svuota e si muta in rito culturale. E poiché “bonum est ex integra causa, malum ex quocumque defectu”, basta un solo vizio nella forma intenzionale dell’atto perché l’intero gesto perda la sua piena moralità e diventi, pur sotto apparenza di bene, occasione di scandalo.
* professore stabile in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di diritto pubblico nell’Universitá degli Studi di Padova