Grazie a Investigatore Biblico continuiamo le analisi sulle letture Novus Ordo.
Luigi C.
1-5-25
Nel testo liturgico della III Domenica di Pasqua (4 Maggio 2025), la prima lettura ci conduce nel cuore della tensione tra l’autorità religiosa e la testimonianza degli apostoli: Atti degli Apostoli 5,27b-32.40b-41. Ma a un primo sguardo, ciò che colpisce non è tanto quello che c’è, quanto ciò che manca. Sono stati omessi ben otto versetti, tra cui uno cruciale: il versetto 39, in cui Gamaliele, nel suo discorso al sinedrio, pronuncia parole che hanno attraversato i secoli con forza immutata: «Non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio».
Questa frase, apparentemente semplice, racchiude una profondità spirituale e teologica che non può essere ridotta a un inciso marginale. Essa nasce da una sapienza interiore, non accademica ma umile, da una consapevolezza che l’azione di Dio può superare i confini delle strutture religiose. Gamaliele non è un discepolo, non è un simpatizzante del movimento cristiano nascente: è un fariseo, uomo di legge, rispettato e prudente. Ma proprio per questo la sua voce è preziosa. Invita a sospendere il giudizio, a non cedere alla fretta della condanna, a lasciare che sia il tempo — e Dio — a dire se quell’opera è fondata sulla verità o sull’inganno.
Togliere questo versetto non è solo un problema di economia liturgica. È come sottrarre una chiave di lettura dell’intero brano. È come ascoltare un dialogo nel momento in cui si alza il tono, ma coprirsi le orecchie proprio quando arriva l’appello alla riflessione. Le parole di Gamaliele non risolvono il conflitto, ma lo illuminano con una luce diversa: la luce del timore di Dio, inteso non come paura, ma come consapevolezza del limite umano. Ogni volta che, anche oggi, la comunità ecclesiale si trova davanti a qualcosa di nuovo, inaspettato, potenzialmente destabilizzante, questo versetto dovrebbe tornare a interrogarci: siamo certi che ciò che ci inquieta non venga da Dio?
A questa omissione si aggiunge un’altra imprecisione, più sottile ma non meno significativa: la traduzione del versetto 40. Il testo liturgico dice che gli apostoli furono «fatti flagellare». Ma il testo greco non dice così. L’originale usa il participio δείραντες (deírantes), dal verbo δείρω (deírō), che significa “percuotere, battere, colpire”. Non si parla qui di flagellazione nel senso tecnico del termine, non del supplizio romano che troviamo nei racconti della Passione, e che in greco sarebbe dovuto essere semmai ἐμαστίγωσεν (emastígōsen-flagellò), dal verbo μαστιγόω (mastigóō, “flagellare con fruste”).
Confondere deírō con mastigóō non è soltanto un errore linguistico. È un errore ermeneutico. La flagellazione rimanda immediatamente al supplizio del Cristo, mentre il testo degli Atti vuole suggerire piuttosto la continuità tra il cammino degli apostoli e quello del Maestro, non tanto nella forma identica della sofferenza, quanto nella comunione profonda con la sua missione. Furono percossi — sì, puniti fisicamente — ma il testo non intende evocarne una tortura, bensì sottolineare la reazione interiore degli apostoli: se ne vanno gioiosi, «perché erano stati ritenuti degni di subire oltraggi per il nome di Gesù».
Anche qui, non si tratta di cavilli esegetici. Ogni parola nella Scrittura ha un peso, ogni scelta di traduzione incide sulla percezione spirituale del testo. Una parola troppo forte può travisare, una troppo debole può indebolire la portata del messaggio. E se nella proclamazione liturgica la Parola è destinata a nutrire la fede di molti che non leggeranno il testo integrale, allora la fedeltà non è un lusso da studiosi: è una forma di rispetto.
In un tempo che chiede alla Chiesa discernimento, coraggio e ascolto, questi dettagli non sono marginali. Ci ricordano che anche nel silenzio di un versetto tagliato o nella sfumatura di una parola greca trascurata può nascondersi un appello alla verità, un invito a non combattere contro Dio, anche quando ci sembra di farlo per Lui.