Continuiamo le analisi sul nuovo pontificato di Leone XIV.
Luigi C.
Investigatore Biblico, 10-5-25
Alcuni hanno subito pensato, non senza logica, che la scelta del nome Leone XIV da parte del nuovo Papa volesse richiamare il grande documento sociale Rerum Novarum, quasi a suggerire un ritorno a un’attenzione profetica verso il mondo del lavoro, le disuguaglianze, la giustizia sociale. È un’interpretazione ragionevole, anche rassicurante. Ma forse c’è qualcosa di più profondo, più oscuro e insieme più urgente che si cela in questa scelta. Forse, dietro quel nome antico, il nuovo Pontefice ha voluto lanciare un segnale di natura spirituale e mistica, legato a un momento poco conosciuto ma denso di significato nella vita della Chiesa: la visione di Leone XIII del 13 ottobre 1884 (https://blog.messainlatino.it/2024/10/una-visione-terrificante-e-lorigine.html).
Fu dopo quella visione, misteriosa e inquietante, che Leone XIII compose la preghiera a San Michele Arcangelo, sentendo il bisogno di armare spiritualmente il popolo cristiano contro una battaglia che non era solo ideologica o politica, ma profondamente interiore e soprannaturale. Una battaglia tra luce e tenebre, combattuta non nel regno della metafora ma in quello della realtà più vera, quella dell’anima. Egli vide – come confidò ai suoi collaboratori – Satana sfidare Dio stesso, chiedendo cento anni di libertà per distruggere la Chiesa e travolgere il mondo.
Nel nostro tempo – dove la Chiesa è attraversata da ferite profonde, scandali, disorientamento dottrinale e liturgico, perdita di fede, arroccamenti ideologici e abbandoni pastorali – è difficile non pensare che quell’influenza diabolica, che Leone XIII percepì in visione, sia giunta a una delle sue fasi più drammatiche. Ed è allora che la scelta del nome Leone può essere letta anche sotto un’altra luce: quella del combattimento spirituale. Il nuovo Papa potrebbe sentire il bisogno non solo di insegnare o riformare, ma di esorcizzare, in senso largo e profondo: di liberare, cioè, la Chiesa da ciò che la opprime interiormente.
Il demonio non si presenta sempre con la maschera della seduzione o della violenza plateale. Spesso si traveste da spirito di divisione, da falsa luce, da sterile burocrazia, da idolatria del potere e da difesa di strutture vuote. A volte, è più presente nei salotti clericali che nelle periferie esistenziali. È subdolo, insinuante, persino teologicamente colto. E non è raro che i suoi influssi si annidino proprio là dove ci si sente al sicuro: negli ambienti religiosi, nei palazzi ecclesiastici, nelle istituzioni che dovrebbero custodire la fede.
Liberare la Chiesa dai demoni non significa dunque semplicemente smascherare gli scandali, ma anche e soprattutto rinnovare l’anima profonda della comunità ecclesiale: restituirle il gusto della preghiera autentica, della liturgia vissuta come incontro con Dio e non come esercizio estetico o sociologico; ridare vigore alla parola del Vangelo, spogliata da sovrastrutture e riconsegnata alla sua nuda potenza trasformatrice; reintegrare nella pastorale una visione soprannaturale della storia, senza la quale la Chiesa rischia di diventare solo una ONG spirituale o un’agenzia etica.
È in questa luce che torna a parlare l’Antica Preghiera a San Michele. Non si tratta di nostalgia liturgica né di devozionismo fuori tempo. È, semmai, il bisogno di riattivare un senso della realtà invisibile, quella che plasma la visibile. In molte chiese – nonostante la soppressione delle preghiere leoniane dopo il Concilio – si continua a recitarla. Alcuni vescovi ne hanno chiesto il ripristino. Lo stesso Giovanni Paolo II, con parole limpide, invitava tutti i fedeli a non abbandonarla. E papa Francesco ha proposto nel 2018 la sua recita quotidiana, legandola alla richiesta di protezione per la Chiesa intera.
Non si può ignorare che Roma, cuore visibile della cristianità, sia anche campo di battaglia per forze contrarie. Dove c’è grande luce, l’ombra è più densa. E chi ha fede non può meravigliarsi se proprio qui si concentrano gli attacchi più sottili e devastanti. La visione di Leone XIII, come quella di altri santi mistici, è un richiamo a non abbassare la guardia. A vigilare, a pregare, a lottare.
C’è un’immagine che può accompagnare questo cammino. È quella della Madonna che, nel quadro che ancora oggi si può vedere nella piccola chiesa dei Santi Quaranta Martiri e san Pasquale Baylon a Trastevere, aiuta l’angelo a schiacciare il serpente. Non lo fa da sola, e non lo lascia fare da solo all’angelo. Preme con il piede, con dolce fermezza, mentre l’angelo colpisce con la lancia. È una visione simbolica, certo, ma profondamente vera. Ci dice che la salvezza non è mai un atto individuale: è una cooperazione misteriosa tra il cielo e la terra. Tra la grazia e la libertà umana. Tra l’intercessione e l’azione.
Forse, questo è il tempo in cui la Chiesa deve nuovamente premere con il piede, anche se tremante, sul serpente. Deve unirsi all’azione degli angeli, alla preghiera dei santi, al grido dei poveri, al silenzio degli oranti, e all’autorità di un Papa che, scegliendo di chiamarsi Leone, ci ricorda che il pastore non è solo colui che guida, ma anche colui che combatte.
Non per nostalgia, ma per necessità. Non per paura, ma per amore. Non per trionfalismo, ma per liberazione.
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