Grazie a Marco Tosatti per questa bella riflessionme sul prossimo Conclave.
"Guareschi, che lo avrebbe voluto Papa per vederlo libero dalla prigionia e per dare voce alla cosiddetta Chiesa del silenzio, fece la celebrazione più bella di Mindszenty. Al pretino progressista don Chichì che, riferendosi al cardinale, si chiede: «Perché questa smania di martirio? Non avrebbe potuto trovare anche lui un modus vivendi con l’autorità del suo Paese?», don Camillo risponde nettamente: «Bisogna compatirlo. È stato portato fuori strada da quell’altro tizio che s’è fatto inchiodare sulla croce. I soliti estremismi».
Non c’è altro messaggio da dare ai cardinali che di qui a pochi giorni si riuniranno nella Cappella Sistina".
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Luigi C.
30 Aprile 2025, di Federico Catani
Provvidenzialmente, la vigilia del Conclave sarà anche il giorno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario della morte del cardinale József Mindszenty (6 maggio 1975), dichiarato venerabile nel 2019.
E proprio al venerabile Mindszenty, arcivescovo di Esztergom-Budapest negli anni del comunismo, possiamo rivolgere le nostre preghiere per la Chiesa, perché il Collegio Cardinalizio elegga un Papa davvero cattolico, che segua il suo esempio. Il porporato ungherese, infatti, è stato ed è ancora il simbolo di una Chiesa libera, senza compromessi e senza paura nei confronti dei nemici.
Venne arrestato per la prima volta dai comunisti di Bela Kun, che presero il potere in Ungheria dopo il crollo dell’Impero asburgico. Durante il secondo conflitto mondiale, divenuto vescovo, fu sbattuto in carcere la seconda volta dagli occupanti nazisti.
Finita la guerra, arrivò l’Armata Rossa e si passò dalla padella alla brace. Mindszenty, nominato primate d’Ungheria, nel 1946 fu creato cardinale da Pio XII. Nell’imporgli la berretta, Papa Pacelli gli disse: «Tu sarai il primo a sopportare il martirio simboleggiato da questo colore rosso».
L’arcivescovo fronteggiò indomitamente la persecuzione dei comunisti, che fecero di tutto per estromettere la Chiesa dalla vita pubblica e per sottometterla al loro volere. Si arrivò così alla sera del 26 dicembre 1948, quando la polizia penetrò in episcopio e lo arrestò. Era la terza volta che finiva dietro le sbarre.
Quello che i comunisti commisero contro questo pastore resterà una delle più grandi infamie della storia. Per giorni e giorni il cardinale venne picchiato, drogato, privato del sonno e costretto ad ascoltare oscenità. Il tutto per fargli confessare di essere nemico del popolo e di aver tramato contro lo Stato. L’unica volta che i carcerieri gli permisero di rivestire la talare fu quando venne a visitarlo il senatore del Partito Comunista Italiano Ottavio Pastore: era un modo per dire al mondo che l’arcivescovo stava bene. Dopo un processo farsa, Mindszenty fu condannato all’ergastolo. Distrutto nel corpo e nello spirito a causa delle torture, alla fine firmò una confessione di colpevolezza, ma ebbe ancora la lucidità di aggiungere, sotto il suo nome, C.F. (“coactus feci”, ossia “firmai perché costretto”). Papa Pio XII protestò pubblicamente per denunciare quello scempio. Il 6 febbraio 1949, dopo la condanna, Giancarlo Pajetta insultò e derise il cardinale in modo sprezzante sull’Unità. Tra una prigione e l’altra, Mindszenty fece ben 8 anni di dura galera. Riuscì a portare con sé un’immagine del Cristo coronato di spine che, quando aveva il permesso di celebrare la messa, usava come quadro d’altare. Per moltissimo tempo non gli furono messi a disposizione testi sacri. Tra le vessazioni subìte, anche il divieto di inginocchiarsi in cella e le continue interruzioni delle sue preghiere. Spesso gli portavano carne il venerdì, in modo da non farlo mangiare.
Nell’ottobre del 1956, durante la rivolta d’Ungheria, il cardinale fu liberato dagli insorti. Ma i carri armati sovietici riportarono ben presto il buio in terra magiara. Mindszenty dovette rifugiarsi nell’ambasciata americana di Budapest, dove rimase recluso per quindici anni, senza poter uscire nemmeno per il funerale della mamma.
Nel frattempo, però, il Vaticano aveva iniziato a mutare atteggiamento nei confronti dei regimi dell’Est Europa: era la Ostpolitik, la politica di apertura e dialogo verso i comunisti. In questo clima di distensione, Mindszenty era divenuto ormai un ospite scomodo anche per gli americani. Già nel 1965, Giovannino Guareschi scriveva sul Borghese: «Don Camillo, non s’è accorto come le Superiori Gerarchie della Chiesa evitino di parlare di quel Cardinale Mindszenty d’Ungheria che, con riprovevole indisciplina, persiste nell’ignorare la Conciliazione fra Chiesa Cattolica e Regime Sovietico e nel ricusare di tributare il dovuto omaggio al cosiddetto “Comunismo Ateo”, ritenendo addirittura valida una Scomunica Papale che è oggi oggetto di riso in tutti gli Oratori parrocchiali?».
Dopo varie trattative, nel 1971 la Santa Sede riuscì a far giungere il cardinale a Roma. Ma iniziò in quel momento l’ultima tappa della sua Via Crucis, forse la più dolorosa.
Mindszenty, infatti, ricevette grandi amarezze proprio dalla politica vaticana, così simile a quella condotta in questi ultimi anni dal cardinale Pietro Parolin con la Cina e coraggiosamente denunciata dal cardinale Joseph Zen: nihil sub sole novum.
L’Osservatore Romano scrisse che il trasferimento dell’arcivescovo aveva reso più facili i rapporti tra Vaticano ed Ungheria. Il primate decise di risiedere a Vienna, iniziando a effettuare numerosi viaggi per incontrare le comunità ungheresi sparse nel mondo e per raccontare a tutti la verità sul comunismo. Ma da Roma gli fecero sapere che non avrebbe dovuto più parlare in pubblico senza prima aver sottoposto i suoi interventi e le sue omelie al vaglio della Santa Sede. «Pregai il nunzio di comunicare ai competenti organi vaticani – spiegò il cardinale nelle sue Memorie – che in Ungheria regnava ora un opprimente silenzio di tomba e che io inorridivo al pensiero di dover tacere anche nel mondo libero».
Mindszenty capì che Paolo VI non era stato «più in grado di resistere alla pressione del regime di Budapest, che si appellava alle garanzie e alle promesse del Vaticano». Nonostante quanto pattuito in precedenza, nel 1973 il Papa chiese al cardinale di rinunciare alla sua carica arcivescovile, ricevendone un rispettoso ma fermo rifiuto. «Non lo potevo fare – scrisse Mindszenty – perché queste misure avrebbero aggravato la situazione della Chiesa ungherese, recando danno alla vita religiosa e confusione nelle anime dei cattolici e dei sacerdoti fedeli alla Chiesa». Il primate temeva che un’eventuale rinuncia avrebbe potuto in qualche modo far pensare ad una legittimazione del regime ungherese. Paolo VI però fu irremovibile. Di fronte ad alcune agenzie di stampa che diffusero la notizia di una rinuncia volontaria, il cardinale ribadì che tale decisione era stata presa unicamente dalla Santa Sede, non avendo egli mai rinunciato né alla carica di arcivescovo né alla sua dignità di primate d’Ungheria. Non chiese mai nemmeno l’amnistia, che pure gli fu strumentalmente concessa, ma la piena riabilitazione. Riabilitazione ottenuta soltanto nel 2012.
Guareschi, che lo avrebbe voluto Papa per vederlo libero dalla prigionia e per dare voce alla cosiddetta Chiesa del silenzio, fece la celebrazione più bella di Mindszenty. Al pretino progressista don Chichì che, riferendosi al cardinale, si chiede: «Perché questa smania di martirio? Non avrebbe potuto trovare anche lui un modus vivendi con l’autorità del suo Paese?», don Camillo risponde nettamente: «Bisogna compatirlo. È stato portato fuori strada da quell’altro tizio che s’è fatto inchiodare sulla croce. I soliti estremismi».
Non c’è altro messaggio da dare ai cardinali che di qui a pochi giorni si riuniranno nella Cappella Sistina.
Federico Catani