Lo scorso 9 novembre la Chiesa ha ricordato e celebrato la dedicazione della Arcibasilica patriarcale di S. Giovanni in Laterano (cattedrale di Roma e madre e capo di tutte le chiese di Roma e dell'Orbe cattolico).
Cogliamo l'occasione e presentiamo un libro dedicato alla Cattedrale di Chartres.
Cogliamo l'occasione e presentiamo un libro dedicato alla Cattedrale di Chartres.
Il testo che segue (segnalatoci da un nostro amico lettore che ringraziamo) è infatti tratto dal romanzo La Cattedrale, di Joris Karl Huysmans (autore già presente nella nostra rubrica sugli echi tridentini), pubblicato nel 1898.
La traduzione è quella della prima edizione italiana ad opera delle Paoline (1959), a cura del sacerdote Gennaro Auletta.
La traduzione è quella della prima edizione italiana ad opera delle Paoline (1959), a cura del sacerdote Gennaro Auletta.
Purtroppo, non è la traduzione integrale del testo, di cui vengono tralasciate alcune parti, ritenute troppo erudite (sic!). L’auspicio è che ne venga fatta una nuova edizione, magari unitamente all’altra opera sulla conversione dell’autore, Per strada (o In cammino), così come già avvento per L’oblato (altro romanzo ricco di riferimenti liturgici e di vita relidiosa tradizionale).
In questo passo, stupendo (tratto dal capitolo IV), il protagonista, Durtal, ovvero l’alter ego di Huysmans, si reca a Messa nella Cattedrale di Chartres.
Roberto
Aveva ragione Madame Bavoil; per apprezzare l’accoglienza che la Madonna riserva ai suoi visitatori, bisogna assistere alla prima messa nella cripta; bisogna soprattutto comunicarsi.
Durtal ne fece l’esperienza. Un giorno che il Rev. Gévresin gli ingiunse di fare la Comunione seguì il consiglio della perpetua e all’alba andò a ingabbiarsi in quel sotterraneo.
[…]
Apparve un chierichetto che precedeva un vecchio prete. E per la prima volta Durtal vide servire realmente una messa, capì l’incredibile bellezza che si può scoprire seguendo attentamente il Sacrificio.
Il chierichetto inginocchiato, con la mente raccolta e le mani giunte, parlava ad alta voce, lentamente e recitava con tanta attenzione e con tanto rispetto le risposte del salmo, cheimmediatamente Durtal comprese il significato di quella meravigliosa liturgia che più non ci meraviglia perché da tempo non la comprendiamo più, perché borbottata e recitata frettolosamente a bassa voce.
Anche il prete, forse inconsciamente, seguiva il tono del chierichetto, si uniformava a quello, recitava con lentezza, non profferiva più versetti a fior di labbra ma si compenetrava delle parole che diceva, sospirava, come alla sua prima messa, affascinato dalla grandezza dell’atto che stava per compiere.
Infatti Durtal sentiva fremere la voce del celebrante che, in piedi davanti all’altare, come se fosse il Figlio stesso da lui rappresentato presso il Padre, chiedeva grazia per tutti i peccati del mondo, soccorso, nella sua afflizione e nella sua speranza, dall’innocenza del chierichetto il cui amoroso timore era meno cosciente del suo e meno vivo.
E quando pronunziò la frase desolata: “Dio mio, perché l’anima mia è triste, e perché mi turbi?”, il prete rappresentava benissimo Gesù sofferente sul Calvario, ma l’uomo era ancora presente nel celebrante, l’uomo prendeva coscienza di sé e applicava a se stesso spontaneamente, per le sue colpe, per i suoi peccati personali i sentimenti d’angoscia espressi nel testo ispirato del Salmo.
E il chierichetto lo confortava, lo incitava a sperare e, dopo d’aver recitato il Confiteor davanti al popolo che anche lui si purificava con una identica confessione rigeneratrice, il celebrante, più rassicurato, saliva gli scalini dell’altare e cominciava la messa.
A dir il vero, in quell’atmosfera di preghiere echeggianti sotto la greve volta, in quell’assemblea di suore e di donne inginocchiate, Durtal pensò a un primitivo cristianesimo rifugiato nelle catacombe; c’era la stessa viva tenerezza, la stessa fede; e si poteva immaginare anche un tantino di apprensione d’essere scoperti e il desiderio di confessare la propria fede in siffatto pericolo. Cosicché in quella cripta divina si poteva ritrovare una confusa impronta, un vago spettacolo di neofiti che una volta si radunavano nei sotterranei di Roma.
Intanto la messa continuava sotto gli occhi di Durtal, meravigliato di vedere il chierichetto, che, con gli occhi socchiusi, con un piccolo gesto di ritrosia prodotto da una discreta commozione, baciava le ampolline dell’acqua e del vino, prima di presentarle al sacerdote.
Durtal non voleva vedere più nulla, cercava di raccogliersi mentre il celebrante faceva il lavabo, perché i versetti recitati a bassa voce erano le sole preghiere che lui, Durtal, poteva rivolgere onestamente a Dio. Non aveva altro da dare a Dio che l’amore sviscerato per la mistica e per la liturgia, per il canto gregoriano e le cattedrali! Senza mentire e anche senza lusingarsi, poteva sicuramente esclamare: “Signore, ho amato la bellezza della vostra casa e il luogo dove abita la vostra gloria”. Era l’unica cosa che poteva offrire al Padre in compenso delle sue offese e della sua mala condotta, per i suoi traviamenti e per le sue cadute.
[…]
“No, - fece Durtal – oltre le preghiere personali, oltre gli intimi colloqui nei quali si rischia di raccontargli tutto quello che ci passa per la testa, soltanto le preghiere della liturgia possono essere usate impunemente da noi, perché la caratteristica della loro ispirazione consiste nell’adattarsi, in tutti i tempi, a tutti gli stati d’animo, a tutte le età.
[…]
“Forse soltanto questo straordinario chierichetto potrebbe parlare col Signore, senza ipocrisia” riprese, guardando il piccolo inserviente e comprendendo veramente, per la prima volta, che cos’è l’infanzia innocente, la piccola anima senza peccati e tutta bianca.
La Chiesa che cerca, come assistenti all’altare, creature assolutamente pure, era finalmente arrivata a formare delle anime a Chartres, a mutare dei comuni monelli in incantevoli angioletti, introducendoli nel santuario. Era realmente necessario che, oltre a una speciale educazione, ci fosse una grazia, una volontà della Madonna di modellare quei monelli votati al suo servizio, facendoli dissimili dagli altri, portandoli, nel diciannovesimo secolo, all’ardente carità e al primo fervore del medioevo.
La messa continuava lenta, nel silenzio profondo degli assistenti. Il chierichetto, ancor più attento e più premuroso, suonò. Fu come se un mannello di scintille crepitassero sotto la volta fumosa; e il silenzio si fece più profondo dietro l’inserviente inginocchiato, il quale con una mano teneva sollevata la pianeta del celebrante curvo sull’altare. L’ostia si levò tra uno scampanio argentino; poi, al di sopra delle teste ricurve, spuntò, tra il tintinnio chiaro dei campanelli, il tulipano dorato d’un calice, e, dopo un ultimo scampanellio prolungato, il fiore vermiglio cadde, e i corpi prostrati si raddrizzarono.
Durtal pensava: “Se Colui, al quale rifiutarono un asilo mentre la Mamma lo portava in grembo, trovasse adesso nelle nostre anime un affettuoso rifugio! Ma ahimè! a eccezione di queste suore, di questi bambini, di questi ecclesiastici, a eccezione di queste contadine che l’amano tanto, quanti tra questi che son qui, sono, come me, seccati della sua venuta, inetti a preparare l’alloggio che Egli s’aspetta, a riceverlo in una stanza adatta, in una camera preparata?
Ah, non è proprio mutato nulla, e si ricomincia sempre daccapo. Le nostre anime sono sempre le furbe sinagoghe che lo tradirono, e l’abominevole Caifa che sta dentro a ognuno di noi urla nel momento in cui vorremmo essere un poco umili e amarlo pregando. Dio mio, Dio mio, non sarebbe meglio che mi allontanassi da voi piuttosto che comportarmi così male nei vostri riguardi? Il Rev. Gévresin ha un bel ripetermi che mi devo comunicare; ma lui non è me, non sta dentro di me; egli ignora ciò che s’agita nella mia tana, tra le mie rovine. Crede che ci sia soltanto atonia e pigrizia, ma no, c’è di più, c’è aridità, freddezza, accompagnate da un po’ di irritazione, da un po’ di ribellione per gli ordini che mi dà”.
Intanto si avvicinava il momento della Comunione. Il chierichetto delicatamente distese la tovaglia sulla balaustra. Suore, povere donne, contadini si mossero con le mani incrociate e la testa china. Il chierichetto prese una candela e precedette il prete, con gli occhi modesti, come se avesse paura di guardare l’Ostia.
In quella creatura c’era una tale sorgente d’amore e di rispetto che Durtal rimase a bocca aperta ed ebbe un gemito di paura. Senza poterselo spiegare, nell’oscurità che scendeva sopra di lui, in quelle velleità, in quelle ondate di commozione che si muovono dentro di noi senza poterle esprimere, egli provò uno slancio e una ritrosia per Nostro Signore.
Il paragone tra l’anima del chierichetto e la sua gli si imponeva ineluttabilmente. “Ma deve comunicarsi lui e non io!” esclamò; e se ne stava inerte, con le mani giunte, senza saper che fare, in uno stato d’implorazione e di timore insieme, allorché si sentì dolcemente spinto verso la balaustra. Si comunicò.
[…]