La Bellezza che salverà il mondo.
Luigi C.
Il Cammino dei Tre Sentieri,10 Agosto 2024
Sulla Bellezza san Tommaso d’Aquino si limita a dire che il Bello è ciò, che visto, piace.
Una frase di questo tipo, presa alla lettera, è tanto condivisibile quanto ovvia. Ma attenzione: non dobbiamo prenderla alla lettera, anzi dobbiamo saper andare “oltre la lettera”. Vediamo in che senso.
San Tommaso dice fondamentalmente due cose. Primo: il Bello deve essere visto, cioè deve porsi in una dimensione di oggettività, cioè deve essere riconosciuto. Secondo: il Bello deve piacere, cioè deve appagare.
Iniziamo con l’affermazione per cui il Bello per piacere deve essere visto.
San Tommaso intende dire che il Bello deve porsi dinanzi allo sguardo, il che che non è affatto scontato. Il bello deve porsi dinanzi allo sguardo, cioè non può esserci bello che rimanga solo nel pensiero, che scaturisca dall’immaginazione conservandosi solo nell’immaginazione. Il bello, seppur pensato e in un certo qual modo “prodotto” dal genio dell’artista, deve fuoriuscire dall’immaginazione per concretizzarsi e porsi dinanzi allo sguardo di ogni uomo.
Ma –e qui veniamo ad una questione molto importante- per far questo, il bello deve riconoscersi nella dimensione dell’oggettività, cioè deve esprimere qualcosa che non solo può essere visto ma anche riconosciuto. Il participio passato “riconosciuto” va inteso in senso etimologico: “riconosciuto” nel senso di “essere “nuovamente conosciuto. Insomma, lo stupore dinanzi alla bellezza deve essere già dentro il patrimonio della propria conoscenza. Ciò vuol dire che non si può giudicare bello ciò che è pura astrazione, intendendo per astrazione quel delirio immaginifico che non ha nessuna corrispondenza con i canoni della realtà, anzi che pretende stravolgere questi canoni.
Questa precisazione è importante perché di per sé la fantasia va oltre il piano del reale; è vera fantasia quando tende a sublimare il reale, ad individuarne una possibile chiave di lettura che vada oltre il puro descrivere realistico, ma non quando nullifica il reale prescindendo totalmente da esso.
Una sedicente “opera d’arte” costituita da una pennellata fatta a casaccio su una tela bianca è tutt’altro che corrispondente a ciò che quotidianamente si pone dinanzi allo sguardo, per il semplice fatto che non comunica con chiarezza, ovvero -per riprendere un concetto citato in precedenza- non è ri-conoscibile.
Premettendo che non si può essere d’accordo con le convinzioni “filosofiche” di un autore come Luciano De Crescenzo, convinzioni chiaramente sofistiche e relativiste, va riconosciuta che c’è una scena molto bella in un film che riproduce un suo romanzo, Il mistero di Bellavista. Due sempliciotti napoletani, un netturbino ed un disoccupato, vanno a visitare una mostra di arte contemporanea dove tra le tante “opere” è esposta una scultura fatta semplicemente con un water e il relativo sciacquone. Sorge subito una disputa fra i due. Il netturbino giudica la scultura una grande opera, originale e significativa; il disoccupato invece, per nulla convinto, la giudica una grande sciocchezza: che significa una scultura fatta in quel modo? Non sapendo risolvere la questione, decidono di andare dal professor Bellavista, loro amico e docente di filosofia in pensione. Questi risolve la questione sofisticamente e relativisticamente dicendo che l’uomo è misura di tutte le cose per cui per il netturbino quella scultura è davvero arte, per il disoccupato no. Quest’ultimo però rimane un po’ interdetto. Dinanzi alle parole dell’esperto professore non sa cosa dire … ma non è convinto. Ad un certo punto gli viene un argomento: Sarà anche come voi dite, ma io voglio farvi una domanda. Immaginiamo che questo museo d’arte contemporanea venga ritrovato sotto le macerie tra qualche secolo. Quando troveranno quella scultura, diranno: abbiamo trovato una scultura, oppure abbiamo trovato il cesso del museo? Ecco il buon senso. Un’opera d’arte che voglia davvero essere opera d’arte non può non farsi ri-conoscere come tale.
Veniamo alla seconda affermazione della definizione di san Tommaso: il Bello deve piacere.
Chiediamoci: cosa significa “piacere”? Piacere vuol dire produrre appagamento, ma non un appagamento come semplice soddisfazione; bensì un appagamento che scaturisca da un godere ciò che si è gustato.
Si può fare un esempio gastronomico, ci si può soddisfare mangiando cibi prelibati così come mangiando pan-bagnato. La soddisfazione, come riempimento del ventre, c’è ugualmente, ma è innegabile che è diversa dall’appagamento del gusto. Un conto è placare la fame mangiando pan-bagnato, altro gustando cibi prelibati. Parimenti si deve dire della bellezza. Essa riguarda un appagamento del gusto; non si tratta solo di soddisfare, ma di avvertire piacere in questa soddisfazione.
Ciò che turba, che inquieta non può porsi in questa prospettiva. Certamente si possono avere tante opere d’arte che sono costrette a rappresentare la durezza della vita e anche la drammaticità o tragicità di alcuni avvenimenti, ma anche in questo caso una vera opera d’arte, pur dovendo descrivere la durezza di certi episodi, riconduce ad un significato risolutivo, ovvero offre all’osservatore la possibilità di capire che ciò che è descritto non è fine a se stesso ma che si apre ad un significato “ulteriore” di Bene. “Ulteriore” anche qui da intendersi in senso letterale, cioè come un “andare oltre”.