I Padri sinodali si sono visti recapitare in questi giorni ai loro indirizzi romani uno smilzo libretto – un opuscolo - pubblicato per la prima volta nel lontanissimo 1970, poi ripubblicato nel 1994 e poi ancora nel 2008 dalle Edizioni Studio Domenicano.
Si tratta de «Il quinto evangelo» e il suo autore è il cardinale Giacomo Biffi (1928-2015), docente di Teologia Dogmatica presso la Facoltà Teologica di Milano, quindi parroco prima a Legnano e poi a Milano, quindi dal 1975 al 1984 vescovo ausiliare e infine, dal 1984 al 2003, arcivescovo di Bologna. Autore di numerosi saggi teologici e pubblicazioni di carattere pastorale, il suo spirito acuto e arguto prendeva di mira i miti teologici del suo tempo che, con garbata e intelligente ironia, dissacrava. Nel «quinto evangelo», l’autore immagina che un suo amico industriale con il quale si è recato pellegrino in Terra Santa – il commendator Giovanni Migliavacca - torni da lui in albergo «con un involto misterioso pieno di carte sbrindellate» acquistate da un mercante - che lo aveva sicuramente imbrogliato - assicurandolo che si trattava di antichissime pergamene scritte in greco . Inizialmente scettico, l’amico prete si rende però conto che è uno sconosciuto codice del Nuovo Testamento e decide di farlo esaminare da esperti che diedero un sensazionale responso : erano frammenti neotestamentari della seconda metà del secondo secolo o della fine del prima , un «quinto evangelo» capace di gettare nuova luce sul vero insegnamento di Gesù dove, di rivelazione in rivelazione la sua parola si adegua, si adatta e si conforma al mondo, un testo attualissimo, che ricapitola e rilegge in filigrana l’ Instrumentum Laboris del sinodo in svolgimento a Roma in questi giorni.
Un testo dove Cristo «è un uomo di gran buon senso», che «ha fondato la Chiesa sui poveri» e sulla discussione democratica,
dove accetta le tentazioni del diavolo ma non per adorarlo o servirlo ma per prendere sotto il suo dominio i regni della terra per il più nobile degli scopi : « Perché dove c’è miseria io porti gioia, dove c’è ingiustizia io porti la giustizia, dove c’è schiavitù e l’oppressione io porti la libertà, e sia pace sulla terra per tutti i figli dell’uomo».
O dove non sceglie i Dodici ( Luca 6, 12-13) ma sentenzia che : «nessuno può veramente rappresentare gli altri uomini, se non è eletto da loro. Poi chiamò a sé coloro che l’assemblea aveva indicato». Così, l’invito di Cristo a non nascondere la lucerna sotto il moggio, si ribalta nel suo contrario perché la Chiesa diventi « una rete sotterranea di microscopiche comunità, che si radunano a discutere con molta franchezza e con molta fede se il Signore sia risorto o meno».
Il quinto vangelo rende poi evidente quanto Enzo Bianchi, Vito Mancuso, Eugenio Scalfari siano stati profetici perché Dio « ha rivelato i misteri del Regno ai dotti e ai sapienti, che poi potranno spiegarlo ai semplici» ; in cui il duro monito « se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Matteo 19,17) va sostituito con l’ovvio: « se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i dettami della tua coscienza».
Un gran conforto per i padri sinodali che – come papa Francesco - non vedono di buon occhi gli «indietristi» i quali si lasciano distrarre dalle solite banalità sulla salvezza delle anime e il Paradiso e che non possono ritenere padre il Dio della Bibbia, spesso antimoderno e imprudente. Così anche Amoris Laetitia trova poi nell’antico testo ritrovato una bella conferma : « Se qualcuno rimanda la propria moglie e ne sposa un'altra – a meno che la prima sia imbruttita ai suoi occhi – commette adulterio. Chi poi sposa la divorziata compie un vero atto di carità».
Il vangelo apocrifo - commentato da Biffi - che nel 1970 poteva apparire un testo paradossale è oggi la narrazione corrente nella Chiesa dove il Vangelo è un elenco di spunti per aprire un dibattito e mettersi d’accordo con dei compromessi che aggirino la radicalità cristiana. L’estensore del quinto evangelo lo sapeva benissimo : « Se il mondo vi odia, è segno che non lo capite. Conformatevi al mondo, e il mondo vi salverà».
Michele Di Pietro