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martedì 31 ottobre 2023

Se a S. Maria Maggiore a Roma spunta l’errore. Il declino dell’arte sacra. E #rupnik

Neanche il latino sanno più scrivere! 
Effetto Francesco dopo che anche la risposta ai Dubia e molto altro viene scritto in spagnolo (la nuova lingua della Chiesa)?
"Sul secondo gradino è inciso invece, in latino, il nome del papa, seguito da quattro lettere inframezzate da punti, un’assoluta novità epigrafica: «Franciscus P.M.A.X.»".
A lato (QUI e QUI) le nuove opere.
Non ultimo il problema delle opere dell'abusatore Rupnik. in fondo all'articolo.
L'ex direttore dell'Osservatore Romano Vian spara a palle avvelenate anche sul grottesco monumento ai migranti di piazza s. Pietro.
Tutti - noi compresi - possono fare errori di latino dovuti a velocità o a defezioni della memoria di studi lontani, ma in un progetto artistico come questo (che prevede bozze, ricerche, revisioni, studi, e quindi anche tempo - in cui qualcuno si sarebbe potuto anche accorgere dell'errore-) stupisce che chi doveva approvare l'incisione di un'epigrafe nel marmo, destinata a restare nei secoli, non abbia accuratamente controllato e verificato l'abbreviazione  - che tra l'altro compare in migliaia di lapidi e documenti di circa "solo" sei secoli.
QUI i post pubblicati sul caso Rupnik da MiL.
Luigi



Il Sismografo, 21-10-22

(Giovanni Maria Vian, Domani) L’errore nell’epigrafe dei nuovi manufatti installati a Santa Maria Maggiore per il giubileo sono solo il punto di arrivo nel lungo declino dell’arte sacra. A cui oggi si aggiunge la complicata gestione delle opere realizzate da Marko Rupnik -- Presumibilmente in vista del giubileo, a Santa Maria Maggiore sono stati collocati, davanti all’altare maggiore, due nuovi manufatti marmorei di un bianco squillante. Sulla destra, affiancato da un alto candelabro destinato a sorreggere il cero pasquale, un ambone – il podio utilizzato per le letture liturgiche – è decorato con bassorilievi in metallo dorato e fregi in mosaico che riecheggiano il pavimento cosmatesco, tipico del medioevo romano.
A sinistra una cattedra bianchissima si innalza su una gradinata grigia circolare a tre livelli. Su una placca sormontata dallo stemma papale – la triplice corona sopra le chiavi incrociate – si legge l’attuale denominazione latina dell’antichissima chiesa, «sacrosancta papalis basilica Liberiana». Sul secondo gradino è inciso invece, in latino, il nome del papa, seguito da quattro lettere inframezzate da punti, un’assoluta novità epigrafica: «Franciscus P.M.A.X.».
Dato il contesto, non è difficile capire che la sigla vorrebbe indicare la qualifica di Francesco, ovviamente «pontifex maximus». In origine la denominazione indicava nell’antica Roma il capo del collegio sacerdotale incaricato del culto pagano. Con Augusto il titolo di pontefice massimo venne assunto dagli imperatori e fu mantenuto da quelli cristiani – iniziando da Costantino – finché Graziano lo rifiutò una quarantina d’anni più tardi, probabilmente nel 375.
Come titolo papale «pontifex maximus» entra invece nell’uso dopo oltre un millennio, in età umanistica. Abbreviato «pontif. max.» si trova nella porta bronzea eseguita per la basilica vaticana dal Filarete tra il 1433 e il 1445, divenendo comune con l’abbreviazione «pont. max.» che prevale in moltissime iscrizioni. Così, sulla facciata di San Pietro a lettere gigantesche si legge che la basilica fu completata «in onore del principe degli apostoli» da «Paulus V Burghesius Romanus pont. max.», il cui nome spicca al centro con più risalto di quello del pescatore di Betsaida.
Unico è il contesto della nuova sigla. La basilica dedicata alla Vergine – detta liberiana da papa Liberio e dove si mescolano almeno tredici secoli di arte e di storia – è infatti la più bella delle quattro basiliche «papali» (che erano «patriarcali» fino al 2006, quando Benedetto XVI ha lasciato cadere il titolo di «patriarca d’occidente»): oltre Santa Maria, la basilica vaticana di San Pietro, l’ostiense di San Paolo fuori le Mura e la lateranense di San Giovanni, cattedrale di Roma.

Il declino

Il grottesco incidente della sigla P.M.A.X. si aggiunge alla stridente collocazione di ambone, candelabro e trono – più adatti a un film ambientato nel medioevo – ai due lati del baldacchino, retto da quattro meravigliose colonne di porfido, che sormonta l’altare maggiore. Cioè in una zona dove gli importanti interventi settecenteschi e ottocenteschi avevano dimostrato di sapersi confrontare con l’assetto precedente della millenaria basilica, a conferma che l’antico può armoniosamente convivere con il moderno.
Del tutto incongrue appaiono dunque a Santa Maria Maggiore le nuove aggiunte, di un livello certo non all’altezza dello scenario circostante. Ma stupefatti lasciano tanto la sigla – più surreale che maccheronica – quanto la trascuratezza o la distrazione dei committenti, davvero imperdonabili. Quelli che avrebbero dovuto sorvegliare sono anch’essi così a digiuno di un minimo di latino e di storia da non essersi finora accorti dello sfondone?
I maldestri interventi nella basilica liberiana sono l’ennesima manifestazione di un innegabile declino della committenza artistica, ma più in generale del livello culturale, nella chiesa cattolica. Almeno nella città papale. Anche se a Roma proprio gli anni santi – da quello del 1450 e nei tre secoli successivi – sono all’origine di trasformazioni artistiche e urbanistiche spesso magnifiche, ma seguite da una decadenza che negli ultimi decenni si è accentuata.
Fino a tollerare in piazza San Pietro, spezzettata da transenne, la collocazione nel periodo natalizio di presepi, giganteschi e sempre più brutti, dal pontificato di Giovanni Paolo II in poi. Ma nel 2019 è stato aggiunto nell’emiciclo un monumento ai migranti. Per la verità il manufatto avrebbe dovuto essere poi spostato nei giardini vaticani – che da quasi un secolo e mezzo ospitano opere di modesto valore donate ai pontefici – ma per il momento resta, accostato al colonnato di sinistra, a cimentarsi con il capolavoro di Bernini.

Il filo perduto

Notissimo è il lamento di papa Montini, che il 7 maggio 1964 incontrò gli artisti nella Cappella Sistina e davanti a loro riconobbe con franchezza come si fosse «perduto il filo» del rapporto tra arte e fede. «Noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente di cui siete capaci» disse Paolo VI, e nel discorso – spesso ricordato, ma in genere superficialmente – evocò per l’espressione artistica e per la stessa religione l’esigenza di «un tirocinio tremendo, duro, ascetico, lungo, graduale». E proprio nello stesso anno alle parole seguì la committenza papale a Pier Luigi Nervi per una grandiosa aula delle udienze.
Montini la inaugurò il 30 giugno 1971 e volle rivelare come avesse incoraggiato l’architetto a «osare, ben sapendo come egli avesse genio e virtù per tale impresa, e come l’incombente vicinanza della basilica di San Pietro esigesse non certo la velleità di un’emulazione, ma l’impegno a tentare opera non meschina o banale, ma cosciente della sua privilegiata collocazione e della sua ideale destinazione». Il risultato è un capolavoro, a differenza invece della banalissima residenza di Santa Marta – voluta da Giovanni Paolo II come alloggio per i cardinali durante il conclave – che dista poche decine di metri dall’aula Nervi e dove ha deciso di abitare papa Francesco.
L’aula delle udienze è così rimasta l’unica realizzazione architettonica degna di nota nel Vaticano moderno, dove non a caso è ancora al pontificato montiniano che si devono, a San Pietro, la splendida porta della Morte – frutto peraltro di un lunghissimo progetto – e la piccola fiammeggiante porta della Preghiera, opere rispettivamente di Giacomo Manzù e Lello Scorzelli. Un’altra notevole porta bronzea è infine quella realizzata, come nuovo ingresso agli affollatissimi Musei vaticani, da Cecco Bonanotte sul tema della creazione per il giubileo del 2000.
Nel 1998, per l’anno santo celebrato da Wojtyła all’inizio del terzo millennio cristiano, fu avviata anche la costruzione a Roma dell’ultima chiesa giubilare voluta da un papa, progettata da Richard Meier nella periferia sudorientale, a Tor Tre Teste, e dedicata nel 2003 a Dio Padre misericordioso. Un edificio controverso e discusso – come la sistemazione progettata dall’architetto statunitense per l’Ara pacis – ma imponente con i suoi immensi volumi in pietra bianca, e soprattutto destinato «ad felicem magni iubilaei recordationem», come si legge in un’iscrizione all’entrata della chiesa, costruita appunto per ricordare il grande giubileo.

Il caso Rupnik

Nel ventennio successivo la committenza artistica papale è invece venuta meno, anche negli otto anni di Ratzinger, pure conoscitore come pochi della tradizione culturale e artistica cristiana. Segno dei tempi, sul giubileo straordinario della misericordia – aperto da papa Francesco l’8 dicembre 2015 nella cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica centroafricana – si è poi proiettata l’ombra inquietante di Marko Rupnik, autore di mosaici in diversi luoghi di culto cattolici, e per l’occasione anche del logo dell’anno santo, riprodotto ovunque.
Scomunicato dalla Santa sede e perdonato in circostanze non chiarite, il gesuita sloveno è stato ora espulso dalla Compagnia di Gesù per le accuse, ritenute del tutto credibili, di abusi sessuali e di potere su donne. In precedenza, verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II, grazie alla protezione del confratello Tomáš Špidlík (poi cardinale), il religioso aveva collaborato al controverso rifacimento di una cappella nel Palazzo apostolico, dove già aveva lavorato l’artista russo Alexander Kornoukhov che gli ha rinfacciato di aver distrutto il suo lavoro.
Molte voci chiedono lo smantellamento delle opere di non pochi preti abusatori, tra cui i mosaici di Rupnik, certo non indimenticabili. La decisione di accogliere queste richieste – pienamente giustificate, anche sul piano artistico – sarebbe un minimo segno di rispetto per le vittime. Come è accaduto in Francia per le vetrate del prete Louis Ribes che sono state finalmente rimosse: un esempio senz’altro da seguire.