Continuiamo le riflessioni sull'arte sacra.
Luigi
Schola Palatina, Corrado Gnerre | 24 Gennaio 2023
C’è un dipinto attribuito ad Alessandro Turchi detto “L’orbetto” (1578-1649), che è esposto alla Biblioteca dei Girolamini a Napoli e che possiede un’originalità.
L’uomo bacia Dio e non vuol perderlo
La Vergine ha in braccio il suo Divin Figlio e lo bacia. Ma i due non sono soli. C’è un altro bambino nel dipinto. È Giovanni Battista, coetaneo di Gesù, il quale anch’egli bacia il Verbo incarnato. Il suo bacio però esprime anche qualcos’altro: quasi un senso di possesso. Le piccole braccia del Precursore afferrano le fragili gambe di Gesù quasi a volerle far sue. È proprio quel gesto tipico dei bambini che esprime un possesso a cui non si vuole rinunciare: è mio e solo mio!
Insomma, in questo gesto è possibile intravedere un sentimento che nell’uomo è connaturale. Dopo aver incontrato la felicità, l’uomo non vuole smarrirla. Costi quel che costi. Cerca di trattenerla, la stringe a sé: quasi ne è geloso. È tutto profondamente umano.
Il filosofo cattolico Gustav Thibon (1903-2001) afferma: «Ama ciò che ti rende felice, ma non amare la tua felicità», che vuol dire che l’uomo deve prendere coscienza del fatto che la sua vita si gioca non sulla felicità in sé, ma sull’incontro di Colui che – solo – può rendere felici. E Questi non va perduto, va stretto a sé. Non va smarrito.
Dio bacia l’uomo e non vuole perderlo
Il Cristianesimo, pur affermando questo, va oltre e dice qualcosa che non c’è in nessun’altra religione: anche Dio vuole stringere a sé la creatura amata. Fermo restando l’assolutezza di Dio, fermo restando la Sua sostanza immutabile, fermo restando il fatto che Dio è assoluto e quindi non bisognoso di nulla, nella parabola del Figliuol prodigo avviene che il Padre (che rappresenta Dio), dopo aver tanto desiderato che si realizzasse quel momento, baci il figlio ritrovato e che tutti pensavano definitivamente perduto. E dinanzi a quel bacio il figlio si stupisce: «Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc. 15). Il Padre gli corse incontro, lo abbracciò e lo baciò.
Nel Cristianesimo si realizza pienamente una biunivocità: da una parte l’uomo invoca Dio, dall’altra è Dio che va talmente incontro all’uomo da incarnarsi fino a soffrire e a morire per lui. Da una parte l’uomo bacia Dio; dall’altra Dio bacia l’uomo. Da una parte l’uomo vuole stringere Dio a sé; dall’altra Dio stringe a Sé l’uomo.
Dio salva, nella propria carne, l’uomo e la carne dell’uomo
Tornando al dipinto da cui siamo partiti, l’immagine del piccolo Giovanni che stringe a sé la piccola gamba del Bambino Gesù manifesta una verità che è sempre stata presente nella vita cristiana: Dio salva, nella propria carne, l’uomo e la carne dell’uomo.
Una verità che oggi è invece dimenticata, facendo cadere in tal modo il Cristianesimo in una deriva non solo spiritualista e astratta, ma anche pericolosamente intellettualista e irenista. L’irenismo – lo ricordiamo – è la pretesa di conciliare diversi credi religiosi; in questo caso: il Cristianesimo con altre fedi e perfino con culture assolutamente incompatibili con il Cristianesimo stesso.
Infatti, far passare in second’ordine il Cristo storico a favore di un’idea del Cristo, quasi come se Cristo stesso fosse una sorta di principio ideale, è funzionale a qualsiasi tipo di sincretismo religioso e culturale. Ma così non è. Cristo è il Dio-Logos che si è fatto uomo; non un principio ideale e teorico, ma il Dio persona, unico salvatore del mondo e della storia. Dio salva l’uomo nella carne di Suo Figlio, in quella precisa carne dell’Incarnazione, e in quell’irripetibile Incarnazione avvenuta in modo definitivo in un preciso momento storico.
Sant’Amedeo di Losanna (1108-1159) era un monaco cistercense che poi divenne vescovo. Interessanti per ciò che stiamo dicendo sono alcuni passaggi di una sua omelia: «Mi venga in aiuto la tua mano! (Sal. 118, 173). Il Figlio unico del Padre, per mezzo del quale egli ha creato tutte le cose, è chiamato la mano di Dio. Questa mano ha operato quando si è incarnata, non soltanto nel fatto che non ha causato a sua madre nessuna ferita, ma anche, secondo la testimonianza del profeta, addossandosi le nostre malattie, caricandosi delle nostre sofferenze (Is. 53,4). Sicuramente, questa mano, piena di rimedi diversi, ha guarito ogni malattia. Ha respinto ogni causa di morte; ha risuscitato dai morti; ha frantumato le porte degli inferi; ha incatenato l’uomo forte e gli ha strappato via le armi; ha aperto il cielo; ha elargito lo Spirito di amore nei cuori dei suoi.
Questa mano libera i prigionieri e dona la vista ai ciechi; rialza coloro che sono caduti; ama i giusti e custodisce i forestieri; accoglie l’orfano e la vedova. Strappa dalla tentazione coloro che sono in pericolo; ristora, riconfortandoli, coloro che soffrono; ridà gioia agli afflitti; ripara sotto la sua ombra coloro che faticano; scrive per coloro che vogliono meditare la sua Legge; tocca e benedice il cuore di coloro che pregano; li rafforza nell’amore, per mezzo del suo contatto; li fa progredire e perseverare nella sua azione. Infine, li conduce alla patria; li riporta al Padre. Infatti, si è fatta carne per attrarre l’uomo attraverso l’Uomo, unendo la nostra alla sua carne, per riportare, nel suo amore, la pecora smarrita a Dio, Padre onnipotente e invisibile. Poiché questa pecora, avendo lasciato Dio, era caduta “nella carne”, era necessario che questa mano, fatta uomo, venisse a sollevarla “ dalla sua carne” per riportarla al Padre (Lc. 15,4s)».
… ma la carne di Cristo non è rimasta nel sepolcro
La carne di Cristo non è rimasta nel sepolcro. Non ha subito corruzione. La carne di Cristo è risorta. Tale esito è la possibilità di vittoria a cui ogni uomo può essere chiamato se solo corrisponde all’infinita Grazia che gli è offerta. Dio salva nella carne e Dio trionfa anche nella carne.
Una poetessa rinascimentale, Laura Terracina (1510-1577), scrive in alcuni suoi versi: «Ove sei, vita mia, dov’è il tuo loco? / Ove sei gita, ohimè, chi mi t’ha tolta? / Chi t’ha dal petto mio sì tosto sciolta / e chiusa tal bellezza in spazio poco?». Ovvero: “Vita mia, dov’è adesso il tuo posto. Dove sei andata? Chi ti ha tolto a me? Chi ti ha sciolto dal mio cuore e rinchiuso la sua bellezza in così poco spazio?”.
Quel “in spazio poco” sta certamente a significare il sepolcro, la tomba. La Terracina (poetessa che amava scrivere al maschile e senza nessun riferimento autobiografico) mostra bene il fastidioso, inaccettabile, paradosso di costatare la bellezza che deve finire nel marciume di un sepolcro. Può davvero terminare tutto in questo modo? La Resurrezione di Cristo dice “no”. Non finirà così.
Dal bacio del piccolo Giovanni al piccolo Gesù (dal suo stringere a sé la piccola gamba del Redentore), al bacio del Padre mentre stringe a sé il proprio figlio che ritorna e che sembrava irrimediabilmente perduto, nel Cristianesimo è la carne che esprime la salvezza. Una salvezza però che non è solamente del corpo, ma prima di tutto dell’anima e poi – di conseguenza – anche del corpo … e tutto si sigilla con la Resurrezione dal Sepolcro. La carne salvifica di Cristo, risorta, risolverà ogni problema, asciugherà le lacrime, quelle lacrime versate per tutto ciò che si credeva irrimediabilmente perduto: «Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto (…)» (Is. 25,8).
FONTE: Radici Cristiane n. 82