Luigi
Veritatis Diaconia n. 17 (2023)
In linea di principio, il diritto di e alla proprietà privata è un diritto naturale[1]. E qualunque filosofo o scienziato del diritto, anche chi giunga a negare il diritto naturale ritenendo diritto solo quello positivo, giudicherebbe risibile la distinzione tra diritti naturali primari e secondari: un diritto di natura è di natura e basta. Cioè, non è concesso da alcuno (il concedente può sempre revocare la concessione), ma fondato sull’ordine stesso delle cose create, e va perciò riconosciuto appartenente all’uomo in quanto tale, in forza della stessa natura umana. Ad esso è correlato il diritto d’intrapresa economica – senza, verrebbe otturato, per così dire, cioè non avrebbe modo d’esercitarsi, se non nel consumo –, che consente di trarre profitto dall’imprenditoria e dall’investimento di capitali – che possono consistere anche in una conoscenza, il famoso know how –, senza apparentemente «lavorare» (si pensi a chi riscuote il canone d’un affitto o le c.d. royalties su un marchio, sull’uso d’un opera dell’ingegno, a chi gode di una rendita fondiaria, etc.).
Ma
nessun diritto dell’uomo è, in senso proprio, assoluto.
Assoluto è solo Dio, e quindi i suoi
diritti. Per capirci: il diritto di Dio ad essere adorato e rispettato
dalla creatura ragionevole non è in nessun modo limitato, non è derogabile, non
è prescrittibile, non è condizionato. Ogni diritto umano, invece, persino
quello alla vita, in quanto mezzo e non fine, tollera di essere, in misura
minore o maggiore, «relativizzato» e derogato.
Anzitutto da doveri supremi.
Così il diritto di proprietà trova un
suo limite nel dovere di pagare i debiti, per cui l’obbligato può subire
espropriazione; ovvero nel dovere di concorrere a spese pubbliche assolutamente
indispensabili, anche straordinarie, come in tempo di guerra, per la tutela
della collettività, quindi anche del proprietario che contribuisce con il suo
danaro. Il diritto di proprietà – e tutti quelli che ne derivano – è limitato
inoltre da stati di necessità di varia specie (per sfuggire ad un pericolo
mortale o comunque grave, come extrema
ratio, è lecito appropriarsi di cosa altrui, violare confini, etc.).
Persino al diritto alla vita talvolta è
doveroso rinunciare, o si può legittimamente privarne taluno. Esso, infatti,
non consente moralmente, a chi venisse minacciato di morte se non bestemmi, se
non abiuri la vera religione o comunque la religione in cui sinceramente e
in modo innocente crede, di fare queste cose per conservare la propria vita –
altrimenti il martire che accetta la morte violenta, nonché santo, sarebbe
colpevole. Oppure, non impedisce di sacrificarla per una giusta causa, non
diversamente perseguibile e non temerariamente perseguita. Così, infine, il
diritto alla vita dell’ingiusto aggressore è limitato, e talvolta se ne viene
giustamente privati per la gravità dell’aggressione a beni di altissimo valore,
come la stessa vita, da quello di chi – individuo, o società con la pena di
morte – si difende dall’ingiusta aggressione, come avviene a quello del soldato
per il fatto stesso di essere coinvolto nella guerra.
L’esercizio
del diritto naturale alla e di proprietà privata si colloca più in generale all’ombra
del principio (non diritto, e che non fonda alcun diritto specifico) dell’universale
destinazione dei beni materiali. Il creato è per tutti gli uomini, non solo per
alcuni. Meglio ancora: nessun bene è ab
initio destinato ad alcuno, non v’è un destino
manifesto in forza del quale una cosa sia mia e non di altri.
Ma la dimensione dell’uomo è limitata,
individuale e corporea. Non s’incontra, infatti, un’indistinta umanità, che
nell’insieme possa fruire dei beni materiali, bensì s’ha a che fare solo con
singoli individui, ben delimitati nello spazio e nel tempo, che hanno qui
e ora le proprie esigenze vitali, che non possono essere soddisfatte una volta
per tutte (la fame torna), ma si rinnovano, ed in qualche caso aumentano
costantemente. Pertanto, non si può pensare che «altrove», nel tempo e/o nello
spazio, sia la loro «porzione» d’universo. Per effetto di tale dimensione, di tale
natura, il modo migliore – anzi il modo
– per attuare l’universale destinazione dei beni è l’appropriazione
individuale. E poiché quasi sempre i beni che servono all’uomo (dall’abitazione
all’abito, dagli alimenti e le cure agli strumenti di difesa, quanto meno da un
mondo ostile – si pensi ai virus, al clima, agli altri animali) non si trovano
in natura, egli deve pensare anche ai mezzi per produrli, per soddisfare in
modo tendenzialmente stabile e permanente le proprie esigenze. E poiché,
ancora, l’uomo ha coscienza della propria discendenza, ed affetto per essa, è
capace anche di pensare a dotarla in modo altrettanto stabile e permanente di tali
mezzi e di tali beni, costituendo un patrimonio familiare, risultato del
proprio sforzo e del proprio risparmio, che è giusto trasmettere per via
ereditaria al frutto del proprio seme, che è una sorta di continuazione di sé[2].
Ecco il fondamento naturale
- del diritto di proprietà privata, non solo dei beni
di consumo, ma anche di quelli destinati a produrli (strumenti di produzione), come
di quelli necessari a produrre gli stessi strumenti di produzione (il capitale è
lavoro consolidato che continua a «lavorare»), e comunque di beni stabili come
la terra (che a sua volta produce), e la casa;
- del diritto d’intrapresa per accrescere il proprio
patrimonio, degli uni e degli altri beni, sia per soddisfare in via permanente
le esigenze primarie, sia per soddisfare altre e superiori esigenze, anch’esse
umane, che vanno oltre quelle di sopravvivenza, tra le quali sono
annoverabili il desiderio di accrescere le proprie conoscenze, il desiderio d’emanciparsi
dal lavoro per dedicarsi all’otium,
cioè alla coltivazione di sé, che è la cultura, o a quell’attività sovranamente
«inutile» che è il culto, ed anche il legittimo desiderio di una vita più
confortevole, etc.;
- del diritto alla trasmissione ereditaria, e
quindi all’eredità, che non è mai qualificabile come
ricezione parassitaria, se non giudicando tutti gli uomini parassiti, perché
non v’è uomo che non sia erede, e perché essa importa la responsabilità in capo
all’e-rede – debitore del proprio de cuius – di conservare e se del caso
accrescere per trasmettere a sua volta, sia in termini materiali, che morali e
spirituali, quel che ha ricevuto, per saldare il suo debito per interposto e proprio erede.
Emerge
così che per sé stesso il diritto di proprietà svolge una funzione sociale. Rende pacifico il possesso; libero l’accesso ad
esso facilitandone l’acquisto e l’acquisizione, nel senso che non lo concentra
nelle mani d’un’unica entità dotata d’autorità; salvaguarda la libertà e
l’indipendenza; favorisce la fecondità, la conservazione, e la non dissipazione
con il mero ed irresponsabile frenetico consumo, dei beni (l’occhio del padrone ingrassa il cavallo), facilitandone
l’amministrazione in quanto parcellizzata, e la redditività, e dunque
l’incremento, a vantaggio di tutti per definizione. D’altra parte, la legge
intrinseca dell’economia è che i ricavi devono superare i costi, altrimenti
anche i beni strumentali si esauriscono – dal seme ad ogni altra sorta di capitale,
materiale e monetario. Il rispetto di questa legge è facilitato dall’uso
privato dei beni, che consente, anzi impone, un conto economico razionale, cioè
un’attenzione ai costi e ai ricavi. Il che porta come detto anche una sana e
legittima prosperità – sempre nei limiti dell’umana condizione –, ch’è
tutt’altro che un male come pretende la concezione sociale pauperistica (la
scelta individuale di povertà è tutt’altra e lodevole cosa). Prosperità che
manca per definizione (e per esperienza) nei luoghi e nei tempi di negazione o
forte limitazione della proprietà privata, della libertà d’impresa, e in cui
vige una fiscalità esasperata a scopi perequativi.
È per
questa sua funzione sociale così
benefica, che il diritto di proprietà è protetto da ben due articoli del decalogo.
Detto pur faticosamente questo, va
osservato che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato, confermando la
teoria, che perché i beni siano il più possibile fruiti da tutti (in tutte le loro
dimensioni, persino quelle estetiche, si pensi ad un bel palazzo che rende
più gradevole l’ambiente urbano), la via migliore – che non vuol dire la via perfetta – è quella del riconoscimento
pieno – che non vuol dire illimitato – del diritto di proprietà e della libera
iniziativa economica. Naturalmente SEMPRE l’esercizio di tali diritti ha
comportato abusi ed ingiustizie, talvolta anche gravissimi. Ma questi dipendono
più dal cuore dell’uomo che dall’istituto in quanto tale. La colpa è del
proprietario, non del diritto di proprietà. Prova ne sia il fatto che, ogni
qualvolta si è provato a limitare gravemente se non ad abolire la proprietà
privata e la libertà d’impresa, nonché meglio distribuire i beni del mondo e
rendere migliore la vita, si è creata solo povertà, e persino bruttezza (basti
pensare all’edilizia pubblica). E ciò non solo nei luoghi del socialismo reale,
cioè del sistema che nella sua storia di fenomeno mondiale un giorno si è proposto
sintetizzando il proprio programma nella formula «abolizione della proprietà privata»[3].
Il
che non significa ovviamente che il «liberismo» – inteso, negativamente, nel senso
di ideologia che considera come «fine» la proprietà e la libertà dell’impresa,
anche se questo non è mai stato in verità teorizzato da nessuno, perciò le
virgolette – sia invece la ricetta perfetta, come s’è appena detto, che
preserva dal male.
Anzitutto, perché la proprietà (rectius: la tutela e la libertà della) non
è «fine» della vita sociale, che ha invece come scopo il bene comune. E cioè
la tutela e la promozione delle condizioni perché ogni uomo ed ogni
legittimo gruppo sociale possano esistere e perseguire il proprio reale, non
preteso tale soggettivisticamente, perfezionamento materiale e spirituale,
quindi anche soprannaturale, il che rende il bene oggettivo e qualificato
nel contenuto, non meramente formale. Del bene comune sono perciò parte (e non lo esauriscono) il diritto
di proprietà privata e quelli ad esso correlati.
E poi perché ogni libertà assoluta – se
per «liberismo» si vuole intendere questo – è di per sé contraddittoria, perché
l’espansione illimitata della propria libertà non può che coincidere – in una
realtà finita qual è quella umana – con la compressione d’un’altrui libertà.
Ma anche questo «liberismo» starebbe
comunque al bene comune/diritto e realtà della proprietà, come la ferita sta
alla vita corporale: guasta, ma non sopprime. Il socialismo, invece, in ogni
sua forma, anche in quella non brutalmente tirannica e totalitaria, è in un
rapporto analogo a quello della morte: sopprime. Per cui il regime di
proprietà, vigente nel «liberismo» nella sua accezione illimitata, è
riformabile; mentre non si può riformare ciò ch’è stato cancellato. E la negazione
di un diritto naturale, essendo «contro natura», realizza nonché il bene
comune, il male comune, cioè contraddice lo scopo della società civile, altera
la convivenza umana fino a farne condizione non di umanizzazione –
perfezionamento possibile dell’umano secondo la propria natura e vocazione –,
ma di deperimento di esso fino all’imbestiamento, all’inselvatichimento.
Si
deve poi, di nuovo, considerare che la proprietà ed il diritto d’intraprendere
sono presidio materiale di libertà ed indipendenza, tanto che il rivoluzionario
bolscevico russo Trockij (Lev Davidovič Bronštejn, 1879-1940) disse
(soddisfatto) che dove l’unico proprietario dei mezzi di produzione è lo stato,
al vecchio detto «chi non lavora non mangia», si sostituisce il nuovo «chi non
obbedisce non mangia». È non è chi non veda l’ulteriore male sociale che
questa condizione comporta. Inoltre, senza una sia pur minima base
patrimoniale (che può essere costituita anche dalla capacità/possesso di un «mestiere»:
métier vaut baronnie), non può
esserci famiglia nel senso forte, cioè che duri al di là della singola
generazione, come autentico coesivo sociale e nazionale: si può dire che il
patrimonio sta alla famiglia, come il territorio alla nazione e alla patria.
Ma
ho detto che l’esercizio del diritto di proprietà può causare (ed in concreto
ha causato e causa) ingiustizie e soprusi anche molto gravi e radicati. Questo
è uno (uno) degli aspetti della «questione
sociale», che comunque non è esaurita dalla sua dimensione socio-economica. Essa
in realtà s’identifica con ogni difficoltà nei rapporti di convivenza fra
gli uomini. È «questione sociale», per esempio, anche la crisi della
religiosità, della famiglia, della moralità pubblica, dell’educazione,
dell’autorità, e così via. Le sue radici autentiche sono nel peccato originale,
cioè nella fatica per l’uomo di essere giusto e virtuoso: è uno dei modi di
manifestarsi del male nel mondo. In radice, essa è ineliminabile; è solo
arginabile.
Ebbene, sia certo «liberismo»
(illimitato) che il socialismo sono due risposte sbagliate alla parte della «questione
sociale» che concerne il diritto di proprietà e d’iniziativa economica. Il
primo per risolverla vuole «liberare» l’esercizio del diritto di proprietà e d’intrapresa
dai vincoli che la morale e l’ordinamento corporativo e municipale gl’imporrebbero
e gl’imponevano, affidandosi integralmente al mercato, inteso in modo
superstizioso come «mano magica», sebbene esso sia certo istituzione benefica. Il
socialismo, nella sua versione comunista, pensa di eliminare il male
eliminandone la causa/proprietà e la causa/profitto; ed in quella «democratica»
si propone di risolvere la questione restringendo, mediante il dirigismo
statale, la libertà d’esercizio del diritto di proprietà e d’impresa fin
quasi a soffocarla. Entrambe le versioni si affidano, in modo fideistico, alla «mano
magica» dello stato e dei pubblici poteri.
Ma mentre la prima risposta (o il primo
errore) sta dalla parte, per così dire, della vita, nel senso che
lascia in vita un diritto naturale, ancorché «troppo» in vita (si può dire che
pecchi per «eccesso di vita»), l’altra sta dalla parte della morte, nel
senso che uccide – o riduce in stato comatoso – il diritto (naturale) di
proprietà primaria e di libera iniziativa economica.
Venendo
ora (era ora!, dirai) al tema del tuo quesito, lo stato interventista (risposta
socialdemocratica, new deal
rooseveltiano, solidarismo «cattolico democratico») pretende di sanare le
ingiustizie sociali lasciando teoricamente in vita il diritto di proprietà, ma
attribuendosi la funzione di principale, se non unico, distributore della ricchezza
che ne deriva, quando non direttamente quella d’imprenditore. La solidarietà
economica, da virtù soggettiva, viene oggettivata in un sistema in cui domini
la pretesa di stabilire chi ha troppo, di toglierli coattivamente quello che con
la medesima pretesa venga individuato come superfluo, e distribuirlo a chi,
sempre con quella pretesa di superiore capacità di discernimento, venga designato
come bisognoso. Insomma, se qualcuno ha legittimamente due case, e altri
nessuna, dovrebbe intervenire un’autorità che faccia legalmente quello che
fatto dal singolo sarebbe illegale: espropriare la casa «superflua» e
assegnarla a chi non ne possegga alcuna. Questo modello due secoli fa poteva
forse illudere qualche stupidone – e ce ne dovevano essere tanti, atteso il
numero di sostenitori, quasi sempre violenti, che le varie prospettive
socialiste hanno trovato –, ma oggi, dopo che ne sono state abbondantemente
sperimentate le gravi distorsioni e soprattutto la miseria che sempre, dovunque
sia stato applicato, ha generato, sembra davvero impossibile che trovi ancora
appassionati fedeli. Ma purtroppo la storia è sì magistra vitae, ma non sembra trovare discepoli diligenti, neppure ai
più alti sogli.
La politica interventista, dunque, per
la sua matrice egualitaria, si propone una finalità perequativa, sottraendo ai «ricchi»
proprietari, mediante una fiscalità ferocemente progressiva, per distribuire ai
«poveri» in termini di servizi (assistenza sanitaria, trasporti, istruzione
gratuiti o semi gratuiti), beni (edilizia popolare gratuita o semi gratuita),
danaro (pensioni, assegni di mantenimento per disoccupati, assunzioni
eccessive – e clientelari – nella P.A. o nelle aziende di stato, fino al
vero e proprio abuso elargitivo detto reddito di cittadinanza, vera e
propria esortazione alla neghittosa e parassita nullafacenza[4]).
Così, da un lato, si scoraggia l’iniziativa
privata (conviene correre il rischio d’impresa, patire la fatica e la
precarietà del commercio, reggere l’impegno d’una professione, per poi poter
godere solo di una minima parte, in taluni casi si giunge al venti, massimo trenta
per cento, di quanto ricavato; o conviene farsi assistere?), e si «svuota» il
diritto di proprietà. Lo stato – che giustifica la teoria del proprio primato
siccome non «egoista», come invece sarebbe per definizione il privato, e
che pensa, mediante la pianificazione, di organizzare meglio, e
quindi «razionalizzare», quello che, se affidato alle scelte imprevedibili ed «irrazionali» dei
singoli o dei gruppi particolari, sarebbe abbandonato al caso ed al caos, oltreché
all'ingiustizia – pretende anche di aver l’ultima parola molto spesso anche sull’uso
della proprietà e sui diritti che essa implica (p. es., ius aedificandi, ius locandi),
nonché si riserva una quota, spesso la maggiore, dell’eredità, reputando che
questa, per il beneficiario, sia una forma d’arricchimento parassitaria.
Dall’altro, si costruisce per svolgere
questa funzione un apparato burocratico mastodontico e – questo sì – alla lunga
parassitario. Esso è soprattutto onerosissimo, esige sempre più danaro per
mantenersi e da distribuire, danaro che viene «spremuto» attraverso la
leva fiscale. Questa esercita una pressione tale, che finisce
per incrinare il patto di solidarietà tra la società e lo stato, sempre più nelle
vesti dello «sceriffo di Nottingham», ed induce la prima, per l’esagerazione
della pretesa, a rifugiarsi nell’illegalità, che da amministrativa e fiscale
facilmente trascorre in criminale, per il principio d’inerzia: una volta
violata la legge, si è più propensi a continuare a violarla anche in
relazione a precetti più gravi ed in relazioni a interessi maggiori.
Tra i principali effetti dell’elefantiasi
dell’apparato burocratico, vi è il suo autoalimentarsi. Più è grande, più
ha bisogno per sostenersi di drenare ricchezza da chi la produce. Più
cresce la sua pretesa, più cresce la riottosità sociale a soddisfarla. Quest’ultima
fa aumentare viepiù la necessità di un controllo pervasivo. Così,
a tale scopo, s’incrementa ulteriormente l’esigenza di funzionari,
agenti ed impiegati di stato, cioè di un apparato di controllo e
repressione, che gonfia a dismisura la necessità di risorse per retribuirli
(risorse sottratte alla produzione di beni reali). E così, in una spirale che
sembra inarrestabile.
Questa spirale, che ha effetti di
demoralizzazione sociale e – sul piano economico – inflazionistici (pochi beni
reali, molto circolante, che quindi perde valore), non soffoca immediatamente l’economia
come nel socialismo reale solo perché il controllo non è totalitario. Parte
della società riesce – purtroppo, come si è detto, rifugiandosi nell’illegalità
(e talvolta per pura esigenza di sopravvivenza), costituendo la cosiddetta «economia
sommersa» – a sottrarsi all’eccesso di pressione fiscale, e perciò contribuisce
a produrre beni reali che consentono appunto all’economia di reggere. È
così la mancata applicazione integrale del sistema dello stato sociale (oltreché
l’enfiagione abnorme del debito pubblico, cioè il riversare i suoi costi spropositati
sulle future generazioni), che gli consente qualche apparente successo. Ma
i nodi delle pensioni d’anzianità (tanto per fare un esempio), pagate con la «persecuzione
fiscale» nei confronti di chi produce, prima o poi vengono al pettine. E
poi lo sviluppo viene certamente tarpato.
Lo stato interventista, dunque, «funziona»
o grazie al debito pubblico o grazie alle sue disfunzioni, che però generano
ingiustizia ed illegalità.
Dirai, però, che nei paesi scandinavi...
Nei paesi scandinavi la società è morta
e demoralizzata. La popolazione è ridotta rispetto alla vastità del territorio,
che è ricco di materie prime, che consentono allo stato
capitalista/interventista di avere una fonte primaria di ricchezza: ma comunque
anche da lì, chi può se ne va, e chi non può, spesso s’ubriaca, si droga e
s’ammazza.
Rimane il problema di come realizzare il
principio – vero – per il quale la proprietà non è un fine, ma un mezzo, e non
può essere impiegata contro il bene comune (fermo restando che non esiste, se
non nei sogni dell’«utopia scientifica», cioè dell’ideologia, «la» soluzione).
Ti propongo due modelli, uno di
carattere giuridico, l’altro di carattere morale.
Il
primo fonda la solidarietà – destinazione universale dei beni – sulla sussidiarietà
– diritto dei privati anche ad arricchirsi. PRIMA la produzione, POI la distribuzione;
PRIMA il giardino e le piante, POI il giardiniere.
Cioè: tanta libertà quanta è possibile,
tanto stato quanto è necessario. Il che significa che non si punta all’uguaglianza
sociale, ma all’autosufficienza, salvo un intervento dall’alto di solidarietà
con chi proprio non ce la faccia, ma non che finga di non farcela, ovvero non
ce la faccia perché vizioso (a cominciare dalla pigrizia, fino a tutti gli
altri vizi che affliggono e devastano l’umana natura post peccatum). Intervento che però vede nello stato (pubblici
poteri) l’ULTIMA istanza, preceduta dalla famiglia, dai corpi intermedi, da
ogni altro organismo che la società sappia esprimere nell’esercizio della
propria soggettività.
Questo significa, ancora, che lo stato
deve fidarsi della società che organizza, e non pensare che un burocrate
sappia amministrare la ricchezza meglio di chi la produce (tra l’altro l’amministrazione
dell’altrui ricchezza è una fonte inesauribile di dissipazione, ma anche di tentazione:
la quantità enorme di danaro da gestire a disposizione della P.A. è stata una
delle vere cause di Tangentopoli). Basti pensare alla diversa condizione
finanziaria delle Casse di previdenza private (ordini professionali, p. es.), rispetto
a quelle pubbliche (INPS).
Quindi, piuttosto che sottrarre danaro
ai privati con il fisco, pretendendo di saperli spendere meglio, perché li
spenderebbe non «egoisticamente» ma solidaristicamente (rectius, collettivisticamente), lo stato farebbe meglio a
lasciargliene quanto più è possibile, perché possano provvedere da sé a sé
stessi, e di riflesso anche agli altri, se non altro creando occasioni di
lavoro o di ricavi.
Dunque, non sostituzione da parte dello
stato della società, ma attenzione alle esigenze della giustizia, che non
ostacola, anzi favorisce, la formazione di corpi intermedi (dalla
famiglia alle associazioni di categoria, alle federazioni tra queste, fino ai
municipi quanto più autonomi e «piccoli» possibile), che hanno una naturale vocazione
alla solidarietà, ed un’altrettanto naturale capacità di scorgere la necessità
dov’è veramente tale, e non la è solo formalmente, cioè burocraticamente
(conformità – magari mediante la simulazione e la frode – ad un parametro ed ai
requisiti che esso prevede).
Ma tutto questo – e vengo al secondo modello
– non avrebbe alcuna speranza di successo senza un’autentica e
profonda riforma, prima spirituale e religiosa, poi di conseguenza
culturale, che distolga gli uomini dall’adorazione del vitello d’oro (del cui
culto è certamente corresponsabile l’anticultura pseudo-solidaristica del
marxismo, per il suo ateismo, materialismo e paneconomicismo), e li induca ad
affermare il primato della carità (che certo non è esaurita dall’elemosina, e
forse nemmeno in essa consiste).
Solo coniugando giustizia e carità
potremo affermare nella pratica sociale i principi di sussidiarietà e
solidarietà, limitando le conseguenze nefaste del peccato originale – cioè
della cattiva inclinazione del cuore dell’uomo – sull’esercizio del naturale,
e dunque in sé benefico, diritto di proprietà e di libera iniziativa
economica.
Non è certamente impresa facile, né
breve; ma se non sono lunghe e difficili, le imprese non ci piacciono.
[1] «[…] la proprietà privata è diritto di natura»
(Leone XIII [1878-1903], Lettera Enciclica Rerum Novarum cupiditas, 15-5-1891,
n. 5). Sul concetto metafisico/realistico (e non razionalistico/deduttivo) di
diritto naturale, credo che oltre le note definizioni di s. Tommaso d’Aquino
(1225-1274) e degli altri esponenti della filosofia perenne, sia preziosa la sintesi
di Platone (428/427-348/347 a.C.) nel dialogo Minosse, «la legge è scoperta di ciò che è» (315 a)
[2] Cfr. Leone XIII, Rerum
novarum, cit., nn.5-10.
[3] Cfr.
Karl Marx (1818-1883) e Friederich Engels (1820-1895), Manifesto del Partito Comunista, II.
[4] Cfr., invece, l’autentica Dottrina Sociale della Chiesa, da una sua fonte primaria, cioè la Scrittura: «[…] noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla» (II Ts 3,7-11).