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giovedì 16 marzo 2023

Don Barthe. "Dei vescovi per risanare la Chiesa?"

Un'interessante recensione, da parte di don Claude Barthe, di un volume appena uscito.
La vera "Chiesa in uscita".
Luigi

Res Novae, 1-3-23
Un risanamento della Chiesa, capace di strapparla ad un «adeguamento» mortifero alla società moderna, necessita di vescovi, che vogliano realizzarlo. Ma qualsiasi riflessione relativa ad una riforma della Chiesa inciampa contro questo dato di fatto ostinato: ci sono certo «buoni vescovi», in grado di compiere buone analisi e di agire di conseguenza, ma si guardano bene dal farlo oppure lo fanno solo a metà. Bernanos non diceva forse, alla fine della sua esistenza, che ciò ch’era mancato agli uomini di Chiesa all’interno della società moderna non è stata la carità, bensì la forza[1]?
Tuttavia, disperare sarebbe peccare. Aiutandoci con i dati tratti da Vincent Herbinet in Les espaces du catholicisme français contemporain[2] ed interpretandoli, vorremmo evidenziare due punti positivi:Un cambiamento influisce oggi poco a poco sul panorama diocesano, ciò che apre possibilità di un’azione riformatrice[3];
Possono esservi vescovi differenti, che prendono spunto da questa nuova situazione per avviare una riforma.
Precisiamo che i dati di Vincent Herbinet, su cui si basano le nostro riflessioni, sono francesi, ma sembrano potersi estendere, senza dubbio con diversi aggiustamenti, a tutta la Chiesa.

Un cambiamento nel paesaggio diocesano francese

Il panorama diocesano si è progressivamente trasformato dopo gli Anni Settanta del secolo scorso. Innanzi tutto perché il cattolicesimo è divenuto minoritario nella società: quello rurale sta morendo, quello urbano, malgrado in apparenza più favorevole, è esangue. Ed in questa società cattolica numericamente molto ristretta, il «progressismo» non ha più successo. Ad esempio, l’esperienza «progressista» delle Adap, le assemblee domenicali in assenza del presbitero, è praticamente svanita. O ancora, gli auspici del Cammino sinodale tedesco, sintesi del pensiero cattolico «di sinistra», sono completamente sfasati rispetto alle aspettative di quanto resta del popolo cristiano, almeno in Francia: un questionario intitolato Sinodo sulla sinodalità rivela che il 92,9% degli intervistati si aspetta prioritariamente un sacerdote che dispensi i sacramenti, l’87,6% è favorevole al celibato sacerdotale, il 70% rimprovera alla Chiesa di «non farsi carico delle proprie opinioni e di tacere la Verità per paura di scandalizzare», il 74% si aspetta che promuova «un modello bioetico, in grado di garantire il rispetto integrale della persona umana, dal suo concepimento sino alla morte naturale», il 70% ch’essa «difenda la famiglia nella sua forma tradizionale».

V. Herbinet avanza «l’ipotesi che una militanza cattolica più visibile si stia profilando d’ora in avanti sulle problematiche familiare, etica e dottrinale» (pag. 96). Le giovani generazioni di cattolici praticanti sono chiaramente impegnate con un approccio, che attesta maggiormente la loro qualifica di cattolici. L’autore nota un certo numero di fenomeni caratteristici ed in particolare: l’istituzione dell’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento, sostenuta soprattutto dalla Comunità dell’Emmanuele, con candele, incenso, genuflessioni ed un rifiorire delle processioni del Corpus Domini per le strade degli agglomerati urbani.

– L’ascesa della «militanza familialista [pro-famiglia]» con una generazione molto attiva di 30-40enni, quella dell’AFC, in particolare, delle Équipes Notre-Dame, luogo privilegiato di una nuova porosità tra tutte le tendenze del cattolicesimo identitario.

– Una ricattolicizzazione di molti istituti scolastici diocesani, iniziata negli Anni Novanta, ciò che serve anche come base per i movimenti scout e per la pastorale di un «nuovo» clero identitario.

I rari giovani, che ancora bussano alle porte dei seminari, provenienti dal cattolicesimo urbano, hanno per lo più una sensibilità molto classica. Molti di loro sono passati attraverso lo scoutismo (Scout unitari, Scout d’Europa), hanno compiuto degli studi (ma quasi mai letterari) e scelgono il seminario à la carte. Sono però rari, generalmente isolati. Nel complesso, soprattutto nelle campagne, si ha l’impressione che la società clericale sia scomparsa.

È stata in parte rimpiazzata da nuove comunità, specialmente quelle più classiche, che i sociologi qualificano come «neo-integraliste», di «un integralismo che si guarda bene, tranne in certi casi, dal condannare il desiderio moderno di libertà in quanto tale, ma che si sforza di scoraggiare l’impotenza del mondo moderno a darvi sostanza» (Danièle Hervieu-Léger, citato da V. Herbinet, pag. 220). Si può aggiungere che si guarda bene dal condannare quella modernità stile gestione aziendale che essa stessa a volte pretende di adattare all’apostolato.

Per la Comunità dell’Emmanuele si parla di realtà «neo-carismatica». Essa si è infatti allontanata dalle sue origini pentecostali, sottacendo le manifestazioni dello Spirito come il parlare nelle varie lingue, spiritualizzando gli incontri di guarigione e cancellando la carica sentimentale troppo forte propria della sua spiritualità. Ne sono usciti sei vescovi francesi ed essa conta un centinaio di seminaristi, che, dopo un anno di discernimento, iniziano i loro studi canonici a Parigi nell’ex-abbazia benedettina di La Source. Presente in una cinquantina di Diocesi francesi, la Comunità dell’Emmanuele è allo stesso tempo più presente e più integrata (i suoi sacerdoti possono essere incardinati sia nelle diocesi, che se ne servono, sia nella stessa Comunità) rispetto alla Comunità di San Martino.

Quest’ultima è tuttavia la comunità, la cui crescita, in seno al cattolicesimo francese, è stata più rimarchevole, al modo di un «”ufo” ecclesiale e sacerdotale», secondo V. Herbinet. Il suo seminario è stato fondato a Genova, sotto la tutela del cardinal Siri, poi è giunto in Francia, a Candé-sur-Beuvron, per stabilirsi infine a Évron, nella diocesi di Laval. È divenuto il più importante in terra di Francia (un buon centinaio di seminaristi). La Comunità di San Martino s’impianta nelle diocesi sotto forma di gruppi di almeno tre sacerdoti. Occupa uno spazio intermedio dal punto di vista ideologico, basato sulla scelta del suo fondatore, don Guérin: né Écône, né lo «spirito del Concilio». Egli l’ha spinta il più lontano possibile dal secondo polo quanto allo stile (abito talare, latino e gregoriano, altare del seminario rivolto verso il Signore, stile conservatore e «virile»), vietandosi al contempo di attraversare il Rubicone liturgico della liturgia tradizionale. La liturgia pre-conciliare fa per l’appunto in modo chiaro la differenza e la forza d’attrazione della galassia tradizionalista con – come si suol dire – «ciò che va con» questa liturgia, vale a dire essenzialmente un catechismo vecchia maniera ben strutturato. Ciò rende anche le sue comunità, per il momento, un mondo a parte. Il motu proprio Traditionis custodes ed i testi successivi hanno cercato di accentuare tale separazione. La prosperità sacerdotale del mondo tridentino, della Fraternità San Pio X e delle Comunità «ufficiali» (Fraternità San Pietro, Istituto Cristo Re, Istituto del Buon Pastore, le più importanti), per quanto relativa, viene sottolineata da tutti gli osservatori. L’ambiente tridentino è giovane come quello della Comunità dell’Emmanuele e della Comunità di San Martino, con famiglie praticanti spesso numerose, ma altresì, per la propria specificità liturgica, ha generato un mondo di opere proprie e specialmente una rete importante di scuole fuori contratto, vivaio di vocazioni, che riattivano in permanenza la militanza degli aderenti, poiché esse necessitano di un conseguente investimento umano (e finanziario).

Vincent Herbinet nota come le comunità tradizionaliste, quali le comunità carismatiche, si stiano evolvendo – lui parla di «neo-tradizionalisti» -, in quanto le giovani generazioni coltivano uno stile disinvolto simile a quello di altri giovani cattolici. Osserva soprattutto una porosità importante nei giovani tra i praticanti dell’Emmanuele, di San Martino e le comunità tradizionali di ogni tendenza. Le critiche che Traditionis custodes ha sollevato tra molti cattolici classici, ma non tradizionali, sono un segno di questa vicinanza. Le comunità della San Pio X e dell’Ecclesia Dei esercitano sui giovani una certa attrazione per l’aspetto strutturato di ciò che propongono, catechismi, scuole, pellegrinaggi (il 40% dei giovani, che si recano al pellegrinaggio di Chartres, non frequentano abitualmente le chiese e le cappelle tradizionali), le manifestazioni militanti per la Vita, il cui pubblico è sorprendentemente giovane, ciò che contribuisce all’amalgama.

Vincent Herbinet formula così l’ipotesi che una graduale apertura del mondo «tradi» sia in corso da una ventina d’anni: «La porosità tra cattolici “ordinari” e “extraordinari” si sviluppa sulla scala di una o due generazioni e [noi] pensiamo che possa essere un elemento possibile di riorganizzazione del tessuto ecclesiale e territoriale. A livello globale, la generazione dei giovani sacerdoti, tendendo a rivalorizzare l’adorazione, le confessioni, una liturgia curata, una predicazione di tipo classico, gli insegnamenti dottrinali, potrebbe infatti traghettare i cattolici più giovani (meno di 45 anni) con dei ponti secondo i riti e secondo le comunità» (pag. 276).

Possono esserci diversi vescovi disposti a farsi carico di questa nuova situazione?

Affinché tale nuovo fattore pastorale possa far germogliare un cattolicesimo riformato, più strutturato, occorrono necessariamente pastori diversi, capaci di divenire sacerdoti riformatori. Che un certo numero di vescovi, in varia misura, non sia allineato, è cosa certa. Ma, come abbiamo detto all’inizio, il manifestarsi della loro differenza resta ad oggi alquanto timido. La questione è quindi quella di sapere se dei vescovi possano concretamente mostrare una reale indipendenza rispetto al consenso della Conferenza episcopale, dei sacerdoti che li circondano ed al controllo romano.

V. Herbinet dedica un capitolo di 30 pagine all’esame di un caso molto particolare, quello del vescovo di Fréjus-Tolone. Si tratta della vicenda di un vescovo diverso, forse in via di rimozione, poiché, dopo il divieto di procedere alle ordinazioni, una visita canonica è stata organizzata per farlo rientrare nei ranghi (come precedentemente con i vescovi di Albenga in Italia, di San Luis in Argentina). Resta il fatto che la sua esperienza corrispondeva bene alle aspettative del nuovo cattolicesimo. Mons. Rey, proveniente dalla Comunità dell’Emmanuele, è subentrato nel 2000 a mons. Madec, a sua volta successore di mons. Barthe, due vescovi d’impostazione molto classica. V. Herbinet parla di «quarta via», né progressista, né integralista e nemmeno di una «terza via» come quella del cardinal Lustiger negli Anni Ottanta-Novanta. I piani pastorali molto dinamici del vescovo di Fréjus-Tolone si sono susseguiti e sono stati portati a termine a ritmo sostenuto, associando una grande preoccupazione evangelizzatrice con l’utilizzo del carisma di numerose comunità. In totale, sembra che mons. Rey abbia praticato un’accoglienza sistematica e molto pragmatica di comunità nuove, di sacerdoti classici e tradizionalisti, tutti conquistati dal suo classicismo informale. Il risultato è che il clero della Diocesi è il più numeroso di Francia, di età media nettamente al di sotto della media nazionale e che il seminario de la Castille è il secondo dopo quello di Parigi.

Vincent Herbinet attribuisce un’importanza decisiva al saper articolare il tutto tra classici e tradizionalisti e ne fa il punto centrale del tentativo di Rey: «Noi avanziamo come principio la forte originalità della diocesi di Fréjus-Tolone, retta dal suo vescovo atipico. A differenza del mondo tradizionalista, ancora messo al bando in certe diocesi, in cappelle spesso ai margini, con comunità di fatto poco inclini alla testimonianza verso il mondo, noi notiamo come le comunità Summorum Pontificum di Fréjus-Tolone ostentino questa vocazione missionaria» (pag. 188).

«Ci chiediamo perché, visti i frutti del modello tolonese – afferma ancora V. Herbinet – falsamente ingenuo, altre diocesi non siano ricorse a modalità di guida analoghe» (p. 202). Altri vescovi, in un contesto identico, avranno dentro di sé le risorse morali e spirituali per affrontare una crisi aperta tanto nei confronti degli uffici romani quanto nei confronti della maggior parte dei loro confratelli vescovi e di un buon numero di sacerdoti delle loro, rispettive diocesi? In caso affermativo, si entrerebbe in un’altra fase della storia post-conciliare. Occorre ripeterlo: la preghiera perché Dio dia «buoni vescovi» alla sua Chiesa è oggi la più urgente.

Don Claude Barthe