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mercoledì 22 febbraio 2023

Il latino liturgico è stato introdotto come (e perché era) la “lingua comune”?

Peter Kwasniewski, noto teologo tomista statunitense, spiega in un suo brillante articolo come confutare le tesi di chi sostiene che l'uso del latino nella Messa sia soltanto un archeologismo da superare.
Questa traduzione è stata realizzata grazie alle donazioni dei lettori di MiL.
Luigi

Peter Kwasniewski, New Liturgical Movement, 06/02/2023

In una conferenza pubblicata di recente sul Church Life Journal, “In the Swarm: The Liturgy and Liquid Identity”, Angela Franks offre un’intrigante analisi degli aspetti “solidi” e “liquidi” del cristianesimo e dell’impatto che ciò dovrebbe avere sul nostro concetto di cura pastorale. L’articolo – un discorso programmatico per la Society for Catholic Liturgy – contiene molte intuizioni: la sua linea generale ricorda l’enfasi di John Henry Newman sullo sviluppo ecclesiale come arricchimento e articolazione di ciò che è sempre già dato in Cristo e nel deposito della fede.

Si deve, tuttavia, fare eccezione per un aspetto che la dottoressa Franks prende dalla storia della liturgia, dove purtroppo si fa eco a un equivoco che ha mostrato una notevole resilienza contro tutti i tentativi di correggerlo. Ecco cosa scrive:

Abbiamo bisogno di solidità... Tuttavia, non liquidiamo troppo rapidamente

la realtà equilibrata della liquidità. La storia dello sviluppo della liturgia e della teologia sacramentale lo conferma. Non cercherò di addentrarmi in questa storia, ma facciamo un semplice esempio: i cambiamenti nei linguaggi liturgici della Chiesa. La primissima liturgia cristiana privilegiava il greco (anche se non esclusivamente), come lingua della Scrittura e lingua universale ‘comune’ (koinè), ma altri riti in lingua volgare presentano radici antiche, come il rito copto e quello siriaco. La standardizzazione del latino come lingua liturgica occidentale cominciò a verificarsi quando il latino divenne la lingua ‘comune’. In questo e in molti altri modi, la liturgia si è sviluppata e cambiata sotto la guida della Chiesa.

Ciò che si afferma qui è qualcosa di già sentito: la liturgia cristiana era “fatta in volgare”, e ogni volta che il volgare cambiava, anche la lingua della liturgia cambiava (o, presumibilmente, avrebbe dovuto cambiare). La latinizzazione della liturgia nel IV secolo si spiega quindi semplicemente in termini di desiderio di passare da un vernacolo precedente ma non più accessibile (koinè greco) al volgare dell’epoca (latino).

Il problema di questa affermazione è che è fortemente fuorviante, per non dire altro, e decisamente errata sotto alcuni aspetti. Nella sua opera classica Liturgical Latin: Its Origins and Character, pubblicata da CUA Press nel 1957 (e felicemente tornata in stampa), Christine Mohrmann (1903-88) ha spiegato a lungo, con un’abbondanza di esempi, che il latino della liturgia romana primitiva è tutt’altro che il latino vernacolare del suo tempo. Abbondava di arcaicismi, ebraismi, legalismi, sintassi strana o intricata e tropi retorici. Sotto questo aspetto era simile all’insolito greco dei Settanta e delle prime liturgie cristiane greche – il che non dovrebbe sorprenderci, dato che gli ebrei stessi continuarono ad usare l’ebraico nel proprio culto, che, a quel punto, era una lingua non più comunemente parlata. Infatti, il Figlio di Dio avrebbe condotto l’Ultima Cena almeno parzialmente in un linguaggio sacrale arcaico. [1]

La discussione sul linguaggio in The Traditional Mass: History, Form, and Theology of the Classical Roman Rite di Michael Fiedrowicz è piuttosto illuminante. L’intera sezione (153-78) merita di essere letta. Citerò qui solo i passaggi immediatamente più pertinenti.

[...] Le traduzioni latine della Bibbia hanno avuto origine a metà del II secolo. Ma anche questi sviluppi non erano semplicemente un elemento colloquiale all'interno del culto divino. Questi testi possedevano anche una stilizzazione sacra, in quanto le traduzioni latine portavano una forte struttura biblica attraverso un certo letteralismo, cioè una stretta osservanza delle forme scritturali del discorso, e in questo modo acquisirono uno stile peculiarmente straniero, presto percepito come sacro. 

L'apprezzamento per la formazione sacra dei sacri testi era l'eredità dell'antica religiosità romana. Per conformarsi alle esigenze di uno stile ieratico, la latinità cristiana doveva prima essere perfezionata in una certa misura ed essere capace di elevarsi al di sopra del linguaggio quotidiano. Se lo sviluppo di una lingua sacra cristiana attingeva completamente a particolari elementi di stile delle antiche tradizioni romane, allora un tale uso imparziale dell'eredità culturale di Roma era concepibile solo nel tardo tempo di pace della Chiesa (dall’anno 313 in poi), quando la religione pagana non rappresentava più una seria minaccia per il cristianesimo; e con la stessa sicurezza con cui la Chiesa introdusse il bottino dei templi pagani nelle proprie basiliche, fece sue le forme stilistiche degli antichi testi di preghiera. (156–57)

L’uso del latino come lingua sacra che si legava stilisticamente alle antiche tradizioni romane avrebbe conquistato soprattutto alla fede cristiana l'influente élite dell'impero, che in questo momento [IV secolo] aveva appena iniziato a scoprire nuovamente i propri testi di letteratura classica. La Chiesa aveva a disposizione un linguaggio di preghiera il cui contenuto era rinnovato dalla rivelazione e allo stesso tempo formalmente legato alla tradizione romana. (157–58)

E più precisamente:

L'introduzione del latino nella liturgia romana, inoltre, non indicava certo l'abbandono del principio di una lingua sacra. In questo senso, la latinizzazione non può essere intesa come un argomento a favore del volgare, come se, con il cambiamento della lingua liturgica, la Chiesa di Roma stesse semplicemente tenendo conto del fatto che la maggioranza dei fedeli da quel momento non erano più cristiani di lingua greca, ma di lingua latina. Il latino della liturgia non era identico né al latino classico di Cicerone né alla lingua colloquiale, il latino volgare. Era, almeno nei testi delle preghiere, una forma di linguaggio altamente stilizzata, che non era facilmente comprensibile al romano medio del IV e V secolo: "Nessun romano aveva mai parlato nella lingua o nello stile del Canone o delle preghiere della Messa romana".

Era piuttosto un linguaggio che cercava di risvegliare l'esperienza del sacro e di elevare l'uomo al di sopra delle cose di questo mondo a Dio. Questa elevazione a Dio non si è compiuta né con una completa rinuncia al linguaggio (santo silenzio, silentium mysticum) né nella forma della glossolalia, il dono delle lingue (cfr. 1Cor 14,2), che non possedeva più il suo carattere comunicativo; piuttosto, è stato compiuto per mezzo di un linguaggio sacro che ha attinto alle fonti bibliche e dall'idioma ieratico della Roma pagana e, non ultimo, ha anche fatto uso della retorica antica. Come dimostra uno sguardo allo sviluppo storico, la Chiesa non ha indossato il latino come un abito che poteva essere sostituito con un altro in qualsiasi momento. Piuttosto, la Chiesa romana ha artisticamente forgiato per se stessa il proprio latino per la propria liturgia, e in essa ha espresso in modo univoco la propria identità. (158)

Nel suo nuovo libro The Liturgy, the Family, and the Crisis of Modernity – che, per inciso, affronta molte delle questioni sollevate dalla dottoressa Franks nella sua conferenza – il Dr. Joseph Shaw riassume e commenta la ricerca del Dr. Mohrmann:

L’argomento della "convenienza" può sembrare particolarmente debole oggi, alla luce dell'accento posto dal partito riformista su come la liturgia sia stata tradotta in latino per aiutare la comprensione dei fedeli, e su come sia stata tradotta in un certo numero di altre lingue dalle chiese d'Oriente. Questo argomento, per quanto familiare, è fuorviante. Non abbiamo alcuna traccia del ragionamento che ha guidato la composizione della liturgia latina, ma il tipo di latino usato suggerisce che la comprensione popolare non era posta in considerazione in maniera prevalente, contrariamente invece all'importanza di appropriarsi della tradizione del latino solenne e sacro per l'uso della Chiesa, in un momento in cui il paganesimo non era più una minaccia...

Il Canone Romano sarebbe stato incomprensibile per le prostitute e i barboni del IV secolo, almeno quanto lo sarebbero state le contorte orazioni di Cicerone per i loro predecessori. In questi casi lo stile, il vocabolario e in generale il registro non sono progettati per una comprensione immediata e universale. Nel caso del Canone Romano, troviamo arcaismi, neologismi, ebraismi e altre parole straniere, ed echi della sintassi innaturale del linguaggio sacro e giuridico. In ogni caso, dai primi tempi, e molto probabilmente fin dall’inizio, il Canone è stato recitato in silenzio, da un celebrante nascosto da tende agli occhi della congregazione presente nella navata. Se la comprensione verbale fosse stata l’obiettivo della composizione della liturgia latina, papa Damaso (se di lui si tratta) e i suoi collaboratori avrebbero svolto il compito in maniera piuttosto sorprendente. (60, 72)

Avendo considerazioni come queste in mente, diventa chiaro il motivo per cui dobbiamo essere estremamente cauti nel fare affermazioni quali “la liturgia cristiana ha privilegiato [...] la lingua 'comune' universale” e “la standardizzazione del latino come lingua liturgica occidentale cominciò a verificarsi quando il latino divenne la lingua 'comune'”. Entrambe queste affermazioni sono palesemente false.

Per quanto riguarda la prima, la liturgia cristiana, anche quando resa per la prima volta nella lingua di un certo popolo o sfera culturale, ha sempre mostrato tratti peculiari che i linguisti descrivono come sacrali o ieratici, e che sarebbero già suonati in quel modo anche per coloro che erano al momento in cui fu usata per la prima volta, ma molto di più a coloro che vennero nelle generazioni successive, dato sia il continuo sviluppo del volgare sia la tendenza verso un forte conservatorismo delle forme da parte della Chiesa in ogni suo rito storico.

Per quanto riguarda la seconda affermazione, il latino è stato parlato per secoli prima che la liturgia romana fosse resa in latino; la ragione del ritardo, quindi, non è da ricercare nel fatto che il latino non fosse una "lingua comune" prima di allora, quanto piuttosto nel fatto che esso aveva ancora associazioni pagane e mancava delle risorse necessarie per un registro distintamente cristiano adatto al culto divino. Quando la società romana (soprattutto nella sua aristocrazia) era diventata più cristianizzata e un'abbondante letteratura cristiana era disponibile, i tempi furono maturi per la latinizzazione della liturgia romana. Come scrive padre Uwe Michael Lang nel suo recente The Roman Mass: From Early Christian Origins to Tridentine Reform:

La formazione di un idioma liturgico latino fu un importante contributo a questo progetto di evangelizzazione della cultura romana e quindi di attrazione delle élite influenti della città e dell'impero verso la fede cristiana. Non sarebbe esatto descrivere questo processo semplicemente come l'adozione della lingua volgare nella liturgia, se per "volgare" si intende "colloquiale". Il latino del canone, delle collette e dei prefazi della Messa trascendeva l'idioma colloquiale della gente comune. Questa forma altamente stilizzata di discorso, modellata per esprimere idee teologiche complesse, non sarebbe stata facile da seguire dal cristiano romano medio della tarda antichità. (109)

Padre Lang spiega anche perché l'Oriente ha visto una profusione di lingue (tra cui il copto e il siriano di cui il Dr. Franks fa menzione):

L'Oriente cristiano era in grado di utilizzare diverse lingue che portavano con sé un certo peso culturale, sociale e politico: oltre al greco, che mantenne una forte presenza anche nel V secolo, iniziarono ad essere impiegati nella liturgia il siriaco, il copto armeno, il georgiano e l’etiope. Nell'Occidente cristiano, le lingue vernacolari non erano usate nel culto divino. Il caso del Nord Africa romano è istruttivo: Agostino apprezzava la lingua punica e si assicurava che il vescovo scelto per una regione di lingua punica conoscesse la lingua necessaria per il suo ministero. Tuttavia, non ci sono documenti esistenti di una liturgia in lingua punica, sia essa cattolica o donatista. Il prestigio religioso della Chiesa romana e del suo vescovo contribuì a rendere il latino l'unica lingua liturgica dell'Occidente. Ciò si rivelerebbe un fattore importante per promuovere l'unità ecclesiastica, culturale e politica. La Latinitas divenne una delle caratteristiche distintive dell'Europa occidentale. (109–10) [2]

Questo sforzo ebbe un tale successo che il latino sarebbe rimasto la lingua madre della Chiesa occidentale in preghiera per i successivi 1.600 anni. Il nucleo del rito romano continuò intatto, mentre cresceva organicamente nel suo calendario, nei testi di preghiera, nel lezionario, nella codificazione delle rubriche e negli esterni artistici. Davvero si tratta di uno e identico rito romano, così come una persona è una e la stessa, anche se una volta era un bambino e ora è un uomo; ma è anche la fonte di un'infinita profusione di ricchezze culturali in ogni continente. In verità, la liturgia tradizionale dimostra l'interazione più armoniosa tra "solido" e "liquido" nella storia occidentale, a sostegno di un'unità transnazionale e transculturale della religione – un'interazione e un'unità che sono state perse nella babelizzazione demotica e nella frammentazione rituale causata dalle riforme postconciliari.

NOTE

[1] "Al tempo di Cristo, gli ebrei usavano la lingua dell'ebraico antico per le proprie funzioni, sebbene questo fosse incomprensibile per il popolo. Nelle sinagoghe, solo le letture e alcune preghiere ad esse relative erano scritte nella lingua madre dell'aramaico; i grandi testi di preghiera canonici erano recitati in ebraico. Sebbene Cristo abbia attaccato categoricamente il formalismo dei farisei sotto altri aspetti, Egli non ha mai messo in discussione questa pratica. Poiché la cena pasquale era celebrata principalmente con preghiere ebraiche, l'Ultima Cena era anche caratterizzata da elementi di una lingua sacra. È quindi possibile che Cristo abbia pronunciato le parole della consacrazione eucaristica nella lingua sacra ebraica" (Fiedrowicz, Traditional Mass, 153).

Lo stesso autore definisce "le caratteristiche di una lingua sacra" come: "(1) una consapevole distanza dalle parole del linguaggio colloquiale, che fa sentire la "completa alterità" del divino; (2) una tendenza arcaizzante o almeno conservatrice a favorire espressioni antiquate e ad aderire a certe forme linguistiche di secoli fa, come ben si addice all'adorazione di un Dio eterno e immutabile; (3) l'uso di parole straniere che evocano associazioni religiose, come, ad esempio, le forme ebraiche e aramaiche delle parole alleluia, Sabaoth, osanna, amen, maranathà nei libri greci del Nuovo Testamento; e infine, (4) le stilizzazioni sintattiche e fonetiche (ad esempio, parallelismi, allitterazioni, rime e finali di frasi ritmiche) che strutturano chiaramente il filo del pensiero, sono memorabili e consentono un facile ricordo e si sforzano di realizzare una bellezza tonale" (154-55).

[2] Per quanto riguarda il prestigio romano: si può ben capire perché Carlo Magno avrebbe adottato per i Franchi la liturgia latina di Roma.