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Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

sabato 12 novembre 2022

Seminari: "In rovina la fabbrica dei preti"

Le magnifiche sorti del postconcilio e dell'"effetto Francesco"?
E poi bastonano gli ordini tradizionalisti, pieni di giovani.
QUI qualche numero sulla situazione nel mondo.
QUI il glorioso seminario di Bergamo che, dopo aver chiuso il seminario minore, rischia di chiudere anche quello maggiore.
QUI alcune interessanti e dolorose riflessioni sulla formazione dei seminaristi e dei sacerdoti con alcune critiche sulle bizzarre opinioni del regnante pontefice all'incontro con i preti che studiano a Roma (già l'abbigliamento - foto in fondo al post - ci dice qualcosa...).
Se lo meritano l'8xmille certi sacerdoti e vescovi di nostra conoscenza?
Luigi

Il Sismografo, 30-10-22
(Matteo Matzuzzi, Il Foglio) Dimenticata l'antica gloria, la Chiesa si domanda che cosa fare dei seminari. C'è chi vuole riformarli e chi chiuderli -- Il Papa che invita gli aspiranti preti a stare lontani dalla pornografia, la Cei che vuole farli esaminare dalle psicologhe. Palazzi sempre più vuoti, numeri sempre più ridotti. L’Italia si salva ancora rispetto al resto dell’Europa secolarizzata, ma fino a quando?
Asentire il Papa c’è da restare un po’ turbati e inquieti: pure i preti e le suore sono tentati dalla pornografia digitale: “Non dirò ‘Alzi la mano chi ha avuto almeno un’esperienza di questo’, ma ognuno di voi pensi se ha avuto l’esperienza o ha avuto la tentazione della pornografia digitale”, ha osservato lunedì scorso ricevendo in udienza i seminaristi e i sacerdoti che studiano a Roma. Dopotutto, ha aggiunto Francesco, “è un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche, e anche sacerdoti e suore. Il diavolo entra da lì”. Si riferiva – e l’ha specificato – non al lato “criminale” della cosa, quanto alla pornografia “un po’ normale”: “E’ una cosa che indebolisce l’anima”, che “indebolisce il cuore sacerdotale”. Troppe le storie di uomini usciti dai seminari che poi denotano uno stile di vita non propriamente incline alla missione per cui sono stati formati, le cronache l’hanno raccontato bene, ci sono diocesi senza più preti che per disperazione accolgono quelli che altrove sono scartati o allontanati per le più varie ragioni. E sovente non buone. Pure i seminaristi, definiti appunto “vaganti”, che girano da un capo all’altro l’Italia cercando qualche vescovo che li accolga: “L’instabilità relazionale e affettiva, e la mancanza di radicamento ecclesiali sono segnali pericolosi”, sanciva il documento finale del Sinodo sui giovani del 2018. Non va bene, ha detto e ribadito il Papa, bisogna fare qualcosa per intervenire prima, alla radice del problema.
Il tentativo, chissà se sarà l’ultimo, è quello di affidare a uno psicologo (preferibilmente una psicologa – curiosa la distinzione fra maschi e femmine pure tra i professionisti, quasi che uno psicologo solo perché maschio non sia in grado di indagare lo stato del candidato) quanti entreranno in seminario. L’esperto o esperta sarà chiamato a valutare se esistano problemi nei giovani ragazzi, così da ridurre al minimo infauste sorprese future che non di rado hanno a che fare con episodi di violenza o di crolli psichici che peserebbero anche sulle comunità affidate a tali pastori. I cosiddetti preti “nevrotici” (cit. Jorge Mario Bergoglio). La Conferenza episcopale italiana sta lavorando al progetto, se ne saprà di più a maggio, quando il plenum dei vescovi voterà i progetti per cercare di smentire coloro che – e non sono pochi – profetizzano l’imminente chiusura dei seminari per assenza di nuovi ingressi. L’Italia si salva ancora rispetto alla desolazione evidente ai confini, è sufficiente sapere che mentre in Francia nel 2018 venivano ordinati 114 preti (di cui solo 68 diocesani), alle nostre latitudini i novelli sacerdoti ammontavano a 248. Però i campanelli d’allarme suonano a ritmo incessante e sono sempre più forti, se è vero che da sette anni i numeri sono sempre sotto quota 300, che per lungo tempo è stata una sorta di linea rossa convenzionale che valutava la salute “del sistema”. Non c’è molto da fare: da cinquant’anni le vocazioni sono diminuite di oltre il 60 per cento, dai 6.337 seminaristi del 1970 ai 2.103 del 2019. Oggi, gli aspiranti presbiteri in Italia sono più o meno 1.800 e se si calcola l’età media del clero, è facile intuire che ben presto vi sarà un problema di copertura delle parrocchie, con sacerdoti chiamati a fare gli straordinari e a essere sempre più funzionari che padri. La falla è aperta da tempo e la questione va ben oltre le cifre e le statistiche.
Notava mons. Erio Castellucci, che della Cei è vicepresidente, che se è vero che a colpire sono i numeri dello spopolamento, a preoccupare di più sono le forme “meno eclatanti” della crisi, quelle “private”. Scriveva infatti nella prefazione al libro di Enrico Brancozzi Rifare i preti. Come ripensare i seminari (EDB) che “non sono affatto in calo le richieste di dispensa dal ministero presbiterale e continua in Italia a diminuire il numero dei seminaristi: due indicatori molto chiari di una crisi che continua a farsi sentire. Non è più una nave che si muove facendo fischiare le sirene; è un sommergibile che viaggia senza quasi farsi notare, ma gli effetti sono comunque tangibili. La risonanza nazionale è di solito riservata ai casi di immoralità conclamata; ma localmente spuntano non poche situazioni di crisi personali”. Don Domenico Cambareri in Contro don Matteo. Essere preti in Italia (EDB) ne è certo: la crisi del clero nasce “sicuramente laddove dovrebbe essere nutrito il pensiero: i seminari diocesani”. Spiega infatti che “se ci lamentiamo di un’ideologia ecclesiologica fragile è perché c’è un pensiero ormai rachitico che non regge più l’impatto con la storia. Col tempo il malessere s’incarna ed esplode nelle parrocchie e i presbiteri sono il contesto ecclesiale che, invece di intervenire sulla situazione alleviandola, la aggravano dando vita a uno stile di fraternità cordiale sì, ma ben lungi dal rischio di un qualche coinvolgimento affettivo”.
Il già citato documento finale del Sinodo sui giovani del 2018 aveva messo nero su bianco tutti i problemi: se i seminari sono infatti luoghi di assoluta importanza, “talora questi ambienti non tengono adeguatamente conto delle esperienze precedenti dei candidati, sottovalutandone l’importanza. Ciò blocca la crescita della persona e rischia di indurre l’assunzione di atteggiamenti formali, più che lo sviluppo dei doni di Dio e la conversione profonda del cuore”. Quindi, si chiariva: “Nell’accogliere i giovani nelle case di formazione o seminari è importante verificare un sufficiente radicamento in una comunità, una stabilità nelle relazioni di amicizia con i pari, nell’impegno di studio o di lavoro, nel contatto con la povertà e la sofferenza” e “il contributo della psicologia è da intendere come aiuto per la maturazione affettiva e l’integrazione della personalità, da inserire nell’itinerario formativo secondo la deontologia professionale e il rispetto della libertà effettiva di chi è in formazione”. Serve un lavoro d’équipe e nella squadra devono far parte – di nuovo – pure “figure femminili”. Forse il Papa si ricorda ancora di quando non diede peso al suggerimento datogli da una “donna della parrocchia”, che l’aveva messo in guardia su un giovane aspirante al sacerdozio: “Ricordo un caso, un bravo ragazzo, intelligente, che doveva essere ordinato diacono. Una donna della parrocchia mi disse ‘Io lo farei aspettare un po’ perché è bravo, ha tutte le qualità, ma c’è qualcosa che non mi convince’. E un fratello coadiutore mi ha detto ‘Padre, lo faccia aspettare un anno, non gli farà male’. Gli altri, a tutto incenso. Ho seguito quella strada, e dopo quattro mesi se n’è andato di sua volontà: era scoppiata una crisi”.
Fenomeno non infrequente anche se, a sentire le parole di Francesco, non è tanto il ruolo della parrocchiana a rilevare quanto il fatto che chi era deputato alla formazione dei futuri preti non si dimostrò forse molto accorto nel valutare tutti gli aspetti psicologici del candidato. Il problema è tutto nei seminari, scriveva qualche anno fa sulla rivista americana Commonweal un gruppo di ex docenti addetti alla formazione dei futuri preti: “I seminari hanno svolto un ruolo significativo nell’attuale crisi della Chiesa. E’ essenziale capire come si formano i sacerdoti e quindi, in definitiva, i vescovi”. E’ decisivo, si aggiungeva, “capire il modo in cui vengono inculturati al clericalismo fin dai primi giorni di seminario”.
Siamo dunque davanti a un’improvvisa corruzione dei costumi seminariali? A leggere Massimo Firpo, che manda in libreria Riforma cattolica e concilio di Trento. Storia o mito storiografico? (Viella), non è che nei secoli passati le cose andassero poi meglio. Ci sono lettere e resoconti firmati da vescovi e notabili che documentano imbarazzanti episodi di dissolutezza, ignoranza, conventi “più barbari della barbarie spagnuola”. Ma ci sono anche altre testimonianze, meno recenti, di preti scomodi o giudicati tali, che fra il tardo Ottocento e la prima metà del Novecento raccontavano la loro dura esperienza in seminario, il più delle volte portando alla censura o scomparsa di tali libelli, con il confinamento nell’oblio dell’autore. Insomma, gli scandali odierni sono solo amplificati dalla circolazione delle informazioni e dalla cassa di risonanza mediatica. La crisi c’era e c’è, e se prima era celata dall’esorbitante numero di quanti in seminario ci entravano – vuoi per ragioni sociali, vuoi solo per studiare – oggi che quegli immensi palazzi sono vuoti, emerge in tutta la sua forza disarmante. Secondo mons. Castellucci, “gli stessi padri di Trento, se si riunissero oggi, darebbero vita a un seminario differente rispetto a quello da loro provvidenzialmente impostato; e lo farebbero, credo, proprio sulla base della medesima istanza di allora: la necessità di formare presbiteri capaci di essere pastori e di stare in mezzo al gregge. Probabilmente però – continuo con una certa dose di presunzione – non punterebbero sul presidio del territorio ma sulla prossimità al popolo di Dio”. La questione è profonda: sempre mons. Castellucci in un’intervista di qualche tempo fa all’Osservatore Romano diceva che “oggi spesso i giovani candidati devono fare i conti con parecchi timori: la paura di vedersi spesi in soffocanti incombenze organizzative piuttosto che nell’annuncio del Vangelo, il rischio di sentirsi impantanati in una pastorale tradizionale, senza novità e senza entusiasmo, il rischio di un iperattivismo che condiziona il tempo della preghiera e della riflessione, i dubbi sulla qualità del proprio celibato che è oggi assai meno protetto che in passato. E, soprattutto, il timore di non essere in grado di mantenere negli anni una coerenza di vita, nel raffronto inevitabile con i preti che coerenti non sono, o che lasciano il ministero: benché pochi, la loro situazione fa parecchio rumore. Mi sembra che l’attuale strutturazione del Seminario non sia più sufficiente ad attrezzare i futuri presbiteri”.
L’Italia a lungo si è cullata nel mito d’essere un’isola felice, solo sfiorata dall’onda della secolarizzazione che aveva tramortito le chiese dell’Europa centrale e settentrionale, quasi che le Alpi avessero fatto da barriera all’ineluttabilità di un movimento che da molti decenni (in Olanda se ne parla a cavallo delle due guerre, ben prima dunque del Vaticano II considerato a torto il fattore che ha determinato il crollo d’un mondo) ha inaridito una presenza un tempo fiorente.
Oggi si moltiplicano i progetti di riforma, e di adeguamento della struttura ai tempi correnti. C’è anche chi – e non sono pochi – ne invoca la soppressione. Non tanto per “odio” del seminario, quanto perché, s’argomenta, non serve più. Il mondo non è quello di Trento, il Ventunesimo secolo non è il Cinquecento, la società non è più cristiana. Bisogna stare nel mondo e non isolarsi. Il seminario, dice sempre chi ne propone l’abolizione, promuove il clericalismo: tema sentitissimo in America, dove decine di articoli, studi e riflessioni sono stati pubblicati su questo aspetto, per lo più dalla parte del cattolicesimo liberal che mette sul tavolo tutti gli indizi che porterebbero alla condanna del seminario: giovani che appena entrati iniziano a studiare l’italiano sognando una carriera romana, che si mettono la talare e perfino i gemelli da polso. Indizi che qualcosa non va, odore di clericalismo e tradizionalismo, altro che poveri e periferie ed ecclesiologia del Vaticano II. Sarà davvero così? Ha scritto mons. Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità san Carlo Borromeo, che manda missionari ovunque nel mondo e che di formazione se ne intende, che “i cardini fondamentali del cammino educativo proposto nel seminario della Fraternità san Carlo sono la libertà, l’autorità e l’amicizia. Educare non significa solo comunicare delle idee, bensì implicarsi nella vita di un’altra persona, condividerne nel profondo l’esistenza”.
Dovranno forse essere ripensati i seminari, ma dovranno aggiornarsi anche le convinzioni di chi ritiene che seminari e case di formazione siano solo arche di Noè dove ragazzi con problemi psichici o di solitudine vanno a rintanarsi cercando di sfuggire dalle fatiche del mondo.