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venerdì 5 agosto 2022

Archie, Cappato e quella generale assuefazione alla morte

Abisso chiama abisso.
QUI, sempre la Bussola sull'aborto in Polonia, su come buone leggi possono cambiare in meglio la situazione.
Luigi

05-08-2022, Riccardo Cascioli, La Nuova Bussola Quotidiana

Non possiamo nasconderci che la terribile vicenda di Archie Battersbee stia passando nella generale indifferenza, così come le iniziative mortifere di Marco Cappato. Si respira un senso di assuefazione e di rassegnazione, ci stiamo abituando alla morte e alla schiavitù dal Potere. È tempo di farci qualche domanda...
Ancora una volta il “sistema” ha stritolato una famiglia decidendo data e modalità per mettere a morte un bambino. Quanto accaduto ad Archie Battersbee, il12enne inglese rimasto in coma dal 7 aprile in seguito a un incidente, e alla sua famiglia, in attesa del via definitivo alla morte dopo una lunga battaglia legale con un procedimento che è la versione sanitaria di una esecuzione vera e propria, è l’ultimo episodio di una lunga serie. E, c’è da scommetterci, non sarà neanche l’ultimo anche se avesse successo l’iniziativa legislativa in corso nel Regno Unito per dare più peso al volere della famiglia.
Nulla di nuovo dunque, da questo punto di vista, purtroppo. Ciò che è nuovo invece è l’atteggiamento dell’opinione pubblica: c’è un evidente crollo di interesse per questi casi. E non dipende soltanto dalla visibilità che danno i media, possiamo riscontrarlo – e non fa piacere - anche tra gli stessi lettori della Bussola. Si direbbe che c’è una certa assuefazione, come se ormai anche questo passaggio nella nostra società sia stato metabolizzato.

Ricordiamo tutti il caso di Alfie Evans quattro anni fa, analogo a quello attuale di Archie, il coinvolgimento che provocò in tantissime persone e le iniziative politiche e religiose che crebbero con il crescere della mobilitazione della gente comune. Il caso destò una fortissima impressione, era chiaro che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in un sistema che imponeva di tagliare corto con la vita di un bambino disabile o in fase terminale. Sono passati appena quattro anni e di quella partecipazione non si vede neanche l’ombra, non solo in Italia.

Si potrà dire che allora la vicenda si protrasse per più tempo mentre ora medici e giudici sembrano avere una fretta pazzesca; si potrà dire che allora ci fu maggiore copertura mediatica, ma in realtà l’attenzione internazionale dei media esplose soltanto dopo che il papà di Alfie, Thomas Evans, fu ricevuto in udienza dal Papa; si potrà anche dire che un bambino di pochi mesi genera più emozione di un ragazzino cresciuto. Ma questi sono soltanto fattori che incidono marginalmente, la realtà è che a certe vicende ci si è ormai assuefatti.

Lo dimostra anche il caso di Marco Cappato: ha portato ancora una volta una persona a morire in Svizzera, si è autodenunciato ma l’interesse dell’opinione pubblica si è quasi azzerato, e la polemica che vediamo nei media sembra ormai il copione di un vecchio spettacolo recitato per dovere di contratto, senza una vera partecipazione. C’è assuefazione e c’è anche rassegnazione, si dà per scontato come andrà a finire.

Non vuole essere un’accusa contro nessuno, è solo un dato di fatto che costringe a farci qualche domanda. Anche perché è un fatto che riguarda tutti noi. È possibile che ci si abitui a tutto? Anche allo Stato che pretende di avere potere di vita e di morte su noi cittadini? È possibile non restare agghiacciati nel leggere il protocollo con cui sarà messo a morte Archie, non provare un senso di ribellione? Ed è possibile non percepire come un inno alla disperazione la decisione di andarsi a fare uccidere e non sentire lo squallore di politici che sfruttano la sofferenza altrui per spingere la società ad abbracciare la cultura della morte? Ci siamo davvero assuefatti alla morte?

La vicenda di Archie, le iniziative di Cappato, la fretta eutanasica della Regione Puglia, hanno tutte a che fare con il senso della nostra vita. Non sono episodi lontani o scelte politiche che non ci riguardano direttamente. Davanti a tutto ciò siamo costretti a chiederci che senso abbia la nostra vita; se ci sia ancora una scintilla dentro di noi che grida all’infinito e alla vita ed è irriducibile al Potere, ai suoi protocolli che prevedono tutto, presentando come compassione ciò che è profondo disprezzo per la vita umana; se siamo ancora in grado di amare la verità sopra ogni cosa e se siamo disposti a lottare per la nostra libertà o troviamo più comodo vivere da schiavi.

Questi fatti gravi che stanno accadendo sono un richiamo a scuoterci, a rispondere a queste domande: dalla nostra risposta e dalle conseguenze pratiche che trarremo dipenderà il futuro personale e della nostra società molto più che non da chi vincerà le elezioni del 25 settembre.