Cronaca di Magister di un pericoloso, per la Chiesa tutta, tramonto: "Insomma, in questo tramonto di pontificato, la confusione è grande sotto il cielo, tanto più grande quanto più Francesco accentra i sé tutti i poteri, come mosso dall’ansia irrefrenabile di fare lui, da solo, ciò che l’incapace “istituzione” non fa. A un sacerdote argentino suo amico, incontrato a Santa Marta nei giorni scorsi, il papa ha confidato che sta leggendo l’ultimo libro del defunto cardinale e gesuita Carlo Maria Martini, 'Conversazioni notturne a Gerusalemme', e ne sottoscrive in pieno la tesi: 'La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni'. L’ansia di Francesco è di colmare lui, nei suoi pochi anni da papa, questi due secoli di arretratezza della Chiesa. Con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti".
Luigi
Settimo Cielo, 20-6-22
Papa Francesco è furibondo con quelli che lo mettono dalla parte di Putin. “Calunniatori” e “coprofili” li ha definiti in una lettera autografa a un suo amico giornalista argentino. Poi però, nel ricevere l’8 giugno a Santa Marta un terzetto di ucraini presentatigli da un altro suo amico argentino (vedi foto), ha sentito rimproverare anche da uno di loro, Myroslav Marynovych, vicerettore dell’Università Cattolica di Leopoli, che sì, “in Vaticano l’Ucraina è stata vista per troppo tempo attraverso il prisma russo”. Trovando questa volta nel papa “un ascoltatore attento” e comprensivo, pronto persino ad ammettere – punto chiave da lui quasi sempre schivato – che il popolo ucraino “ha diritto all’autodifesa”, perché “altrimenti quanto accade potrebbe assomigliare a un suicidio”.
Il guaio è che, quando prende la parola, a Francesco scappa detto di tutto. Con i fatti che ne conseguono.Ancora nel colloquio dell’8 giugno con i tre ucraini gli è stato chiesto di chiarire se davvero non può esserci una guerra “giusta”, come più volte da lui detto all’opposto di quanto scritto nel Catechismo della Chiesa cattolica. Al che il papa ha risposto d’aver “già incaricato alcuni cardinali di approfondire questo argomento”, con una delle tante sue decisioni personali, anche dirompenti, prese senza consultare nessuno né tanto meno darne notizia.
Sulla guerra in Ucraina, ogni volta che Francesco parla a ruota libera, in segreteria di Stato sudano freddo. Lo stesso giorno, il 14 giugno, nel quale l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede, ribadiva che “dobbiamo resistere alla tentazione di accettare compromessi sull’integrità territoriale dell’Ucraina” – che è quanto di più opposto ci sia alle pretese di Mosca –, la rivista dei gesuiti di Roma “La Civiltà Cattolica” rendeva pubblica la trascrizione di un colloquio del papa con i direttori di questa e di altre riviste europee della Compagnia di Gesù, nella quale di nuovo Francesco tornava a sostenere che “questa guerra è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita”. E da chi? Dalla NATO col suo “abbaiare alle porte della Russia”.
Rispetto alla memorabile sua intervista al “Corriere della Sera” del 3 maggio in cui per la prima volta lanciò questa immagine zoomorfa, quest’altra volta il papa ha svelato da chi, senza farne il nome, egli aveva ricavato l’immagine, presumibilmente dal presidente socialdemocratico della Slovenia, Borut Pahor, ricevuto in udienza il 7 febbraio scorso:
“Un paio di mesi prima dell’inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio, che parla poco, davvero molto saggio. E dopo aver parlato delle cose di cui voleva parlare, mi ha detto che era molto preoccupato per come si stava muovendo la NATO. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto: ‘Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro’. Ha concluso: ‘La situazione potrebbe portare alla guerra’. Questa era la sua opinione. Il 24 febbraio è iniziata la guerra. Quel capo di Stato ha saputo leggere i segni di quel che stava avvenendo”.
Naturalmente, con questa tesi del papa, l’arcivescovo maggiore dei greco-cattolici dell’Ucraina, Sviatoslav Shevchuk, è in totale disaccordo. Il 15 giugno, nel suo messaggio quotidiano ai fedeli, ha detto che “chiunque pensi che qualche causa esterna abbia provocato l'aggressione militare della Russia è in preda alla propaganda russa o semplicemente sta ingannando intenzionalmente il mondo”.
Ma da Mosca hanno buon gioco a piegare il papa ai propri interessi, come ha fatto ad esempio il 13 giugno Alexei Paramonov, direttore del dipartimento per gli affari europei del ministero degli esteri russo, con una nebulosa dichiarazione di disponibilità al dialogo su questioni “umanitarie”. In realtà Putin nemmeno risponde alle chiamate di Francesco, il quale spera invece, almeno, di incontrare il suo “chierichetto” Kirill, il patriarca ortodosso di Mosca, “in Kazakistan a settembre”.
Non fosse scoppiata la guerra, l’incontro con Kirill si sarebbe dovuto tenere a metà giugno a Gerusalemme, in coda a un viaggio del papa in Libano anch’esso annullato.
Ma anche il viaggio in Kazakistan è in forse, come quello in Canada tuttora in agenda per la fine di luglio. Per le stesse ragioni di salute per le quali è stato annullato “in extremis” il viaggio d’inizio luglio in Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan, con vivo disappunto del papa che fino all’ultimo si era ostinato a disobbedire ai medici che lo hanno in cura.
I suoi malanni hanno rinfocolato le voci su un non lontano conclave. Che di fatto è lo stesso Francesco ad avvicinare, con il ritmo senza respiro delle sue giornate, con la sua incessante sfida ai propri limiti fisici, col suo spericolato rischiare di morire all’improvviso sulla linea del fronte, schiantato dalla sua stessa frenesia di tutto dire e fare, di testa sua, senza tregua.
Un esempio di questa sua incontenibile frenesia è che lo stesso giorno, il 13 giugno, nel quale un comunicato vaticano informava che per ragioni di salute non si sarebbero celebrate con lui né la messa né la processione del Corpus Domini, Francesco annunciava di voler celebrare messa “con la comunità congolese romana” domenica 3 luglio, “il giorno in cui avrei dovuto celebrarla a Kinshasa”.
Anche in quegli ambiti che di regola dovrebbero godere di sovranità propria Francesco ama intromettersi e comandare. È il caso dell’Ordine di Malta, dove il papa ha avocato a sé e al proprio subalterno cardinale Silvano Tomasi praticamente tutto, compresa la nomina, il 13 giugno, del nuovo Luogotenente del Gran Maestro in sostituzione del predecessore prematuramente scomparso. Nel decreto di nomina, in una sorta di “excusatio non petita”, si ricordano tre precedenti analoghe nomine da parte di papi, nel 1803, nel 1834 e nel 1879, evidentemente le sole tre di questo tipo anomalo rinvenute in secoli di storia dell’Ordine.
Completamente di testa sua, quasi sempre senza alcun preavviso neppure per i diretti interessati, sono anche le nomine che a Francesco spettano in pieno, “in primis” quelle dei nuovi cardinali. I prescelti lo vengono quasi sempre a sapere in diretta radiofonica o televisiva, quando il papa ne elenca i nomi dopo l’Angelus o il Regina Caeli. E ogni volta i titolari di storiche sedi cardinalizie scoprono di restare all’asciutto. Nell’ultimo secolo Milano e Venezia hanno dato alla Chiesa cinque papi, ma nel conclave che eleggerà il successore di Francesco i loro vescovi non ci saranno.
Ma accade anche che qualcuno, promosso al cardinalato da Francesco a sua insaputa, rinunci. Come ha fatto lo scorso 16 giugno il belga Lucas Van Looy, 81 anni, vescovo emerito di Gand, dichiaratosi indegno della porpora per avere in passato coperto abusi commessi da preti della sua diocesi: colpa su cui evidentemente il papa non aveva indagato.
Oltre alle nomine ci sono poi le cacciate, eseguite o anche solo minacciate, sempre a suo arbitrio. Nel colloquio con i direttori delle riviste della Compagnia di Gesù, ecco come Francesco ha spiegato che cosa sta combinando con la tormentata diocesi di Colonia e col suo cardinale Rainer Maria Woelki, 66 anni, quindi ben lontano dall’età di pensione:
“Ho chiesto all’arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l’ha data. Io l’ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano”.
E “in mano” Francesco continua a tenere anche un gran numero di promozioni, di congedi, di spostamenti della tanto decantata riforma della curia romana, che è entrata in vigore la domenica di Pentecoste e che il collegio dei cardinali è stato chiamato per la prima volta a discutere a fine agosto, a cose fatte.
In assenza di norme transitorie, una nutrita fila di titolari delle vecchie congregazioni si trovano ora come sospesi nel vuoto, non si sa con quale ruolo. Mentre non si capisce chi comanda nei nuovi dicasteri che ne hanno preso il posto.
Un esempio per tutti è quello del neonato dicastero dell’evangelizzazione, che ingloba l’estinta congregazione “de propaganda fide” e l’altrettanto estinto pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione.
Il prefetto del nuovo dicastero è il papa. Mentre i titolari dei due organismi in esso confluiti ne sarebbero i pro-prefetti, almeno in via provvisoria. Ma passano i giorni, e né il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, né l’arcivescovo Rino Fisichella hanno finora ricevuto alcuna conferma del loro nuovo ruolo, dopo aver perso il vecchio.
All’opposto c’è invece il caso del cardinale Kevin J. Farrell. Oltre che camerlengo, carica chiave nell’interregno tra un papa e un altro, e prefetto confermato del dicastero per i laici, la famiglia e la vita, è ora anche presidente del neonato comitato per gli investimenti finanziari, della cui nascita è stata data notizia ufficiale il 7 giugno con una formula del tutto inusuale: “È stato istituito… È composto da…”, curiosamente tacendo il soggetto di tali atti, il papa.
Quanto all’apparato diplomatico della Santa Sede, anche qui le falle sono vistose. C’è penuria di candidati e ormai sono ben diciassette le nunziature vacanti, anche di rilievo: Bosnia-Erzegovina, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Irlanda, Liberia, Malta, Messico, Nicaragua, Paesi Bassi, Senegal, Serbia, Slovacchia, Svezia, Tanzania, Trinidad e Tobago, Unione Europea, Venezuela.
Ed è vuoto anche il posto dell’incaricato d’affari “ad interim” a Taiwan, ruolo notoriamente indigesto alle autorità di Pechino, con le quali è in bilico il rinnovo dell’accordo “provvisorio e segreto” per la nomina dei vescovi in Cina, un accordo del quale persino il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin si è detto insoddisfatto.
Insomma, in questo tramonto di pontificato, la confusione è grande sotto il cielo, tanto più grande quanto più Francesco accentra i sé tutti i poteri, come mosso dall’ansia irrefrenabile di fare lui, da solo, ciò che l’incapace “istituzione” non fa.
A un sacerdote argentino suo amico, incontrato a Santa Marta nei giorni scorsi, il papa ha confidato che sta leggendo l’ultimo libro del defunto cardinale e gesuita Carlo Maria Martini, “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, e ne sottoscrive in pieno la tesi: “La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni”.
L’ansia di Francesco è di colmare lui, nei suoi pochi anni da papa, questi due secoli di arretratezza della Chiesa. Con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti.