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mercoledì 18 maggio 2022

Le radici della Modernità. Francisco de Tejada, ne parla Giovanni Turco.

Un nuovo libro e un'intervista per i nostri lettori.
Luigi

13 Aprile 2022, Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, credo sia interessante portare alla vostra attenzione questo articolo-intervista che Antonello Cannarozzo ha scritto sentendo il prof. Giovanni Turco, che ha curato Le radici della modernità per le edizioni Solfanelli. Buona lettura.
[...]

Antonello Cannarozzo

Non sapere che cosa sia accaduto nei tempi passati, sarebbe come restare per sempre un bambino – scriveva già duemila anni fa Cicerone – se non si fa uso delle opere delle età passata, il mondo rimarrà sempre nell’infanzia della conoscenza.
Questo è ciò che capita nella nostra attuale modernità; sapere tante cose, ma non approfondire mai nulla e questo ci porta all’ignoranza rifiutando il nostro passato e rimanendo come delle foglie senza il suo albero.

Gli avvenimenti del passato, come base dell’umanità, andrebbero studiati e ancora di più meditati, almeno per non ripetere gli errori del passato, anche se è una impresa difficile per come sono andate le vicende millenarie dell’umanità.

La storia a volte è come un codice binario che va reinterpretato e rispiegato, dopo secoli di manomissioni e di confusioni.

Per fare chiarezza in un ambito così complesso, è uscito il libro ‘Le radici della modernità’ curato dal prof. Giovanni Turco, per le edizioni Solfanelli, che raccoglie gli scritti di Francisco Elías De Tejada filosofo tomista spagnolo e propugnatore del Carlismo, un movimento culturale, politico e militare schiettamente “tradizionalista e controrivoluzionario”. Un ideale, purtroppo, poco conosciuto dalla maggioranza degli europei ed anche degli stessi spagnoli dove il Carlismo ha avuto le sue origini e ha contribuito alla storia recente del Continente.

Il libro di Tejada si presenta al lettore in maniera organica utilizzando come chiave di volta, per la comprensione del mondo attuale, il Medioevo una cerniera tra il passato e il presente dove, ci permettiamo di aggiungere, troviamo un crogiolo nel quale si sono formate le idee della modernità.


Prof. Giovanni Turco, chi era Francisco Elias de Tejada? Un sognatore della Tradizione o, invece, un intellettuale che ha voluto attualizzare, attraverso il movimento Carlista, un mondo ormai al crepuscolo, utilizzando per questo un’epoca universalmente considerata un’età oscura come quella medioevale per comprendere la storia?

Francisco Elías de Tejada (Madrid, 1917 – 1978), è stato uno degli storici e dei filosofi del diritto e della politica tra i più importanti del Novecento. Studiò filosofia, lettere e diritto presso l’Università di Madrid, dove conseguì il dottorato in giurisprudenza nel 1938. Successivamente, ottenne la cattedra di Diritto naturale e Filosofia del diritto presso l’Università di Murcia (1941), passando poi alle Università di Salamanca (1942-1951), di Siviglia (1951-1977) e di Madrid (1977-1978). Conoscitore attento delle più diverse culture, dall’Africa alla Germania, dalla Scandinavia alla Romania, dal Cile alla Tailandia, fu autore fecondissimo, spiccatamente nei campi della filosofia del diritto e della storia delle dottrine politiche, nonché animatore di numerose iniziative culturali, tra le quali l’Organizacíon de Jurisnaturalístas hispánicos Felipe II, che trova la sua continuità ideale, tuttora, nel Consejo de Estudios Hispánicos Felipe II.

Elías de Tejada non fu un idealizzatore di un passato ormai remoto, né un cultore di archeologie politiche. Fu uno studioso di vaglia, che non si limitò a indagare (in modo documentatissimo) il mondo storico della civiltà cristiana e della modernità, ma ne analizzò le componenti ed espresse giudizi sagaci e motivati.

Su queste premesse, si impegnò nell’intento di far conoscere ed apprezzare i principi della tradizione ispanica (di cui il Carlismo è stato una espressione in fondo esemplare), in quanto forgiatori di una civiltà, e soprattutto in quanto permanentemente validi, quindi attuali.

Il libro, si divide in due parti che sembrano quasi una contraddizione: la prima parte è intitolata “La cristianità medioevale e la crisi delle sue istituzioni” e nella seconda parte, al contrario, “La crisi delle istituzioni della Cristianità medievale”. Ci può spiegare il motivo di questa scelta?

Il libro offre uno sguardo d’insieme che copre due versanti: da una parte i principi e le istituzioni basilari della Civiltà cristiana, come essa si è articolata nei dieci secoli noti storiograficamente come “Medioevo”, in particolare a partire dalla fondazione del Sacro Romano Impero (con Carlo Magno); e dall’altra i passaggi nodali che hanno portato alla modernità (intesa come categoria, non come arco temporale), sul piano culturale e storico.

In questo quadro, Tejada ravvisa i prodromi della modernità nel nominalismo e nell’arbitrarismo del XIV secolo, e le sue premesse in quattro fratture successive: religiosa, con il luteranesimo, morale con Machiavelli, giuridica, con Grozio, e politico-istituzionale, con i trattati di Westfalia.

Il giusfilosofo spagnolo osserva che mentre la Cristianità muore l’Europa (moderna) si afferma. Con essa il soggettivismo ed il predestinazionismo religioso, la frattura tra fede e ragione nonché tra morale e politica, la virtù ridotta ad abilità operativa, la cesura tra metafisica e storia, e i rapporti politici condensati nei rapporti di forza, in fondo nel prevalere del potere del più forte.

Fin dalle prime righe del libro, Tejada ci pone un problema fondamentale: il ruolo della Chiesa e dell’Impero, due realtà in una, pur nella loro peculiarità, che avrebbero costruito insieme la Civitas Dei, descritta da sant’Agostino. Eppure, leggendo la storia, non ci fu nel Medioevo conflitto più grave proprio tra queste due entità. Quale furono le cause del loro contrasto che di fatto hanno indebolito il loro alto ideale?

Tejada evidenzia che la diffusione della fede cristiana non si esaurì in uno spazio meramente individuale, né le relazioni sociali mutarono semplicemente come effetto di rapporti personali. Il Cristianesimo fu all’origine di una civiltà, che si sviluppò parimenti grazie all’eredità del diritto romano e della filosofia greca.

E questa intese caratterizzarsi intimamente proprio in quanto cristiana (tanto sul versante occidentale quanto su quello orientale). Il suo modello ideale può essere scorto nel De Civitate Dei, di sant’Agostino, pur ovviamente con tutti i limiti umani di ogni realizzazione terrena. L’universalismo caratterizzò tanto la Chiesa quanto l’Impero.

Nella misura in cui furono concordi – nella irriducibile distinzione – quel mondo fu intimamente pacificato, ma in quanto si prospettarono sovrapposizioni, ambizioni e secolarismi, gli equilibri si alterarono e quelle istituzioni si indebolirono.

Tuttavia, se si ha uno sguardo di “lungo periodo” e si tiene conto dei ritmi “meno accelerati” che in seguito, si colgono meglio gli elementi di continuità ed il vario intrecciarsi di autorità particolari, di ordinamenti tradizionali, di poteri locali, concretamente vigenti eppure indubbiamente iscritti nella prospettiva universalistica.

Importante rilevare come la Cristianità, allontanatasi in seguito dall’ideale carolingio, diventa aperta a tutti gli sconvolgimenti dei secoli successivi. Un errore pagato a caro prezzo dalla sua stessa missione evangelica. Come è potuto accadere?

La Cristianità è una categoria teologica e storica. Sotto il primo profilo, indica la trasformazione delle realtà temporali operata dalla conversione al Cristianesimo, che come tale si esprime e si riverbera in tutti gli aspetti dell’esistenza.

A fondamento vi è la classica relazione tra natura e grazia, come tra fede e ragione (magistralmente delucidata da san Tommaso d’Aquino): gratia non destruit sed supponit et perficit naturam.

La prima non nega la seconda, ma la eleva e perfeziona. Il medesimo Dio è creatore e redentore. Come ha ricordato papa Leone XIII, avendo Dio creato l’uomo naturalmente socievole, egli è il creatore anche della società. Sotto il secondo profilo la Cristianità è un cosmo storico, instaurato là dove una civiltà cristiana è sorta, con una “conversione” piena, quindi anche delle istituzioni politiche.

La nozione di Cristianità, quindi, è ben più ampia di quella di Medioevo, tanto dal punto di vista intensivo quanto da quello estensivo. È nozione più profonda concettualmente e si riferisce ad un più ampio spettro di dati.

La Cristianità, quindi, va ben oltre il Sacro Romano Impero: c’è stata anche una Cristianità bizantina e slava, come c’è stata una Cristianità ispanoamericana. Analogamente, la Cristianità dura ben oltre il termine cronologico del Medioevo. Tejada introduce la categoria di Cristianitas minor, relativamente a quella ispanica, sostenitore della Controriforma e missionaria oltreoceano. Come si può segnalare l’esistenza di una Cristianitas minima, là dove il Carlismo ha custodito l’unità civile e religiosa delle Spagne.

In questo senso la Cristianità è un ideale: quello del regno sociale di Cristo (di cui tratta l’enciclica Quas primas di Pio XI); ed è un ambiente storico: quelle di ogni civiltà cristiana (tale nei principi, nelle istituzioni, nelle leggi, nei costumi).

Nella misura in cui la seconda attualizza la prima, resta se medesima; nella misura in cui se ne discosta o vi si oppone, si disgrega o implode.

Un altro aspetto assai attuale di Tejada sono le contraddizioni (siamo negli anni’70.ndr) dell’allora nascente Comunità europea, una società anonima e senza Dio, basata solo sull’economia, dunque, senza radici e in contrasto con l’ordine della Cristianità, eppure oggi vediamo la Chiesa che dovrebbe difendere gli ideali spirituali, precipitare nel peggior laicismo divenendo fautrice della globalizzazione.

Quali sono le cause?

L’analisi di Tejada, già agli inizi degli anni cinquanta del Novecento, aveva colto lucidamente elementi categoriali essenziali. Egli vede una dialettica oppositiva tra Cristianità ed Europa (tanto sotto il profilo storico, quanto sotto il profilo categoriale). È interessante osservare che nella sua diagnosi non rileva affatto il termine “Occidente”, di conio relativamente recente, semanticamente ambiguo, e tale da indicare (dal secondo dopoguerra, in ispecie) prevalentemente l’area politico-culturale liberal-democratica (quindi erede non della Cristianità ma della modernità).

Per Tejada è chiaro che, sotto il profilo concettuale, la Cristianità non è l’Europa, né l’Occidente. L’Europa corrisponde ad una nozione e ad un mondo del tutto alternativi alla Cristianità. Considerate le origini dell’europeismo del XIX e XX secolo e gli sviluppi laicistico-tecnocratici dell’Unione Europea, può dirsi che – con diversi decenni di anticipo – Tejada aveva colto nel segno. Oggi sarebbe opportuno rimeditarne la diagnosi. Non è questione di parole, ma di concetti, non di descrizioni ma di valutazioni.

In questo senso, le istituzioni europee dei nostri giorni non sono l’effetto di eventi fortuiti, ma il traguardo di un plurisecolare processo di secolarizzazione (la cui proiezione è fatta propria anche da non pochi membri della gerarchia della Chiesa e da cospicui settori dei suoi ambienti culturali). Questo processo nelle decadi più recenti giunge ai suoi esiti esplicitamente nichilistici.

Per l’autore, le Crociate sono simbolo di una Europa eroica nella lotta armata per la verità e per la fede e per questo furono effettivamente una ‘Guerra Santa’. Tanta santa belligeranza come potrebbe essere ancora viva nella Chiesa di oggi?

Elías de Tejada pone in rilievo il carattere militante della fede cristiana e della sua professione, facendo eco alle note metafore bibliche. Si tratta sia dell’impegno ascetico, sia della difesa delle verità rivelate, sia della custodia di quanto è condizione e via al suo esercizio. Il pensatore spagnolo, in ispecie, apprezza l’eroismo dei missionari, il coraggio dei difensori della Cristianità (di fronte ai pericoli esterni ed interni), la generosità di quanti, al di là di ogni opportunismo, non hanno esitato ad affrontare sacrifici di ogni tipo, fino all’estremo, pur di non tradire i propri doveri. In tal senso, si tratta di attitudini morali, certamente non irenistiche, di validità intramontabile. Perciò, non temono le mode, anche quelle ecclesiali.

Perché dalla fine del regno di Carlo V la Spagna lentamente, ma inesorabilmente, si allontanò dalle grandi realtà politiche e culturali dell’epoca, fino a subire l’invasione di Napoleone e non riuscire più ad essere quel traino culturale e spirituale che l’aveva contraddistinta secoli precedenti?

Tejada rimarca che, particolarmente con Filippo II e con i suoi successori (Asburgo), le Spagne (al plurale, secondo l’uso tradizionale) si assunsero il compito dell’irradiazione missionaria verso il “nuovo mondo” e quello del sostegno attivo alla dottrina ed alle riforme del Concilio di Trento.

Anche in tal senso, esse furono eredi dell’universalismo cattolico. Ma proprio questo fu all’origine di tanti contrasti.

Le Spagne ressero l’urto, ma questo le logorò. L’invasione napoleonica, poi, si impose, come altrove, con la violenza. Gli spagnoli reagirono e si difesero tenacemente, vedendo negli invasori non un’armata francese ma un esercito rivoluzionario. Sicché non combatterono per rivalsa nazionale, ma per ragioni di principio.

Tejada aveva previsto nella nostra modernità una veloce corsa verso l’alienazione dell’uomo da Dio e dal creato. Come fermare, rileggendo il nostro Autore, tale folle caduta?

Nella mia Introduzione ai testi di Tejada ho messo in rilievo che egli aveva inteso acutamente il dinamismo interno della modernità, fino agli esiti di un incipiente neo totalitarismo cibernetico.

Con gli sviluppi disumanizzanti, oltre che desacralizzanti, che ne segnano tale processo, e che nei decenni più recenti sono divenuti argomento della cronaca.

A quest’ultima domanda si può rispondere portando l’attenzione su molteplici versanti. Nella prospettiva tejadiana, la via al superamento del nichilismo della tarda modernità (o postmodernità) non può che porsi insieme sul piano religioso, intellettuale, morale, giuridico e politico. Insieme e contestualmente. Lo studio dei testi tradotti e pubblicati nel volume apre la strada alla ricostruzione culturale e civile. Questa, invero, ha come condizione imprescindibile la consapevolezza intellettuale della diagnosi e della terapia, quindi delle valutazioni e dei principii.