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sabato 28 maggio 2022

Da costruttori di cattedrali a costruttori di supermercati

Una vecchia cartolina della Cattedrale di Metz
Da ormai un anno e mezzo, ogni lunedì pomeriggio MiL propone ai suoi lettori la rubrica sugli orrori architettonici, che riscuote molto interesse.
Oggi vi proponiamo questo interessante articolo di Mattia Spanò, pubblico sul blog di Sabino Paciolla il 27 maggio.
L’autore propone una carrellata di esempi architettonici sacri, accompagnata da riflessioni sulla evoluzione di quello che viene definito «autentico Vangelo di Roccia che è sempre stata una chiesa» e che da «casa del Signore» si è sempre più trasformato in supermercati, e «se possibile persino peggio, perché certi centri commerciali sono decisamente più belli, o per lo meno attraenti».

L.V.


Una visita occasionale alla splendida cattedrale di Metz – cittadina della Lorena – mi ha chiarito cos’era la Chiesa, e cos’è diventata. Non ho intenzione di soffermarmi a commentare le opere d’arte che si trovano all’interno, come le vetrate del pittore ebreo Marc Chagall (il quale fa un uso del blu che tocca picchi quasi soprannaturali), o gettarmi in analisi e giudizi artistici o tecnici che non mi competono.

La questione su cui vorrei porre l’attenzione è del tutto superficiale. Vorrei dire: estremamente, volgarmente, schiettamente superficiale.

Innanzitutto, la struttura gotica. Con mirabili differenze – penso, oltre a Metz, a Reims, Notre-Dame e Chartres, ma anche l’italiana abbazia di San Galgano, per limitarmi ad alcune che ho visitato – le chiese gotiche sono l’una uguale all’altra. Detto altrimenti: nella visione medievale cristiana, una chiesa somiglia ad una chiesa, un bicchiere ad un bicchiere, un aratro ad un aratro.

I greci chiamavano questa somiglianza κανών, di cui l’etimo più certo sembra il greco κάννα. La canna, il regolo che gli artigiani usavano per misurare, ovvero definire le proporzioni armoniose dei manufatti, fossero essi una sedia, un giardino, un tempio. Stabilite queste secondo un ideale tendente alla perfezione della bellezza, le proporzioni venivano replicate ed imitate.

Il motivo era, ritengo, che meglio di così non si potesse fare. Quand’anche si potesse migliorare, allora il miglioramento avrebbe preso piede e da quel momento in poi sarebbe divenuto esso stesso canone. La tensione non era dunque all’affermazione dell’identità dell’uomo che l’aveva realizzata, ma alla perfezione dell’oggetto in sé.

Qualcosa che oggi è del tutto inconcepibile. Senza fare esempi antipatici, basta gettare uno sguardo alla cosiddetta arte moderna o all’architettura per rendersi conto che in massima parte si tratta di spazzatura. Originale, provocatoria, autorale, cerebrale spazzatura.

Non mi aspetto che questo giudizio, peraltro vago, sia condiviso né da molti né da pochi. Francamente, me ne infischio.

Secondo elemento d’interesse: gli ornamenti, le statue, i fregi. Su questi, l’uomo medievale riproduce un sistema simbolico straordinariamente ricco. In breve, nelle chiese gotiche sono rappresentati tutti gli aspetti della vita umana, le sue credenze, le sue idee, i suoi usi e costumi, con una concretezza e un’accuratezza sbalorditive.

La chiesa, una chiesa qualunque, era una cosmogonia. Una chiesa era una rappresentazione del mondo intero, uno spazio realmente intelligibile all’uomo che l’aveva costruita e quelli che vi si recavano. La definizione di uno spazio canonico e il suo ornamento vivace restituiscono un’unità concettuale e carnale di una potenza culturale veramente impressionante.

La chiesa, vale a dire il mondo, è un luogo buio. Le vetrate prendono luce – una luce colorata, cangiante, che però rischiara ogni dettaglio quel tanto che consenta all’anima di conoscerlo e riposare in esso – dal cielo. È Dio che illumina il mondo, e i mille riverberi, le penombre, le lame di luce abbagliante, altro non riflettono se non la vita di ognuno.

Ad ogni ora, ad ogni minuto, la luce cambia, e il mondo con essa.

Alcuni ricorderanno la proiezione di bestie feroci sulla facciata di San Pietro a Roma, o il vezzo di proiettare bandiere ucraine o francesi o italiane sui monumenti. L’uomo contemporaneo attende il buio e sparacchia laser su ciò che di più bello hanno costruito i nostri antenati, sia il Colosseo, la Porta di Brandeburgo o L’Arco di Trionfo.

Il risultato è che i monumenti sono letteralmente deformati dalla luce artificiale – travisati, se avessero un volto – dall’artificio umano che invece di rivelare distrugge. Trovo significativo che questo esercizio di scellerata idiozia iconoclasta sia fatto a danno di monumenti antichi e non, piuttosto, sulle schifezze post-moderne che ammorbano ormai ogni città del mondo.

Non abbatterei quei monumenti al socialismo reale che sono i palazzi della periferia di Spalato, né l’architettura fascista o quella sovietica: in ogni cosa costruita c’è una traccia del divino o perfino della sua assenza.

Si tratta in fondo di movimenti culturali e politici in fondo umani, di cui serbare le tracce è opportuno e necessario. Per quanto riguarda l’architettura sacra, invece, il discorso a mio avviso cambia. Perché io o chiunque debba recarsi a pregare o assistere alla S. Messa in una chiesa come quella di San Miniato a Siena, per giunta uscendone edificato o consolato, è un mistero efferato.

Chiesa di San Minato, Siena

Scanso equivoci non ho nulla contro san Miniato, re armeno o soldato romano a Firenze che rifiutandosi di adorare gli dei pagani fu decapitato, non prima di essere scampato per mano divina ad un certo numero di orribili supplizi – cercarono di cuocerlo, dividerlo a metà, farlo sbranare da un leone senza successo. Chi meriterebbe di essere sbranato non dai leoni (è vietato tenerli in casa) ma da un branco di legalissimi furetti tenuti a stecchetto per una settimana, è la committenza.

La committenza, nelle espressioni artistiche pubbliche e private, se non è tutto il valore dell’opera sicuramente ne costituisce il canone. All’artista, o in questo caso all’architetto, non resta che ornare l’ossatura facendola bella come può.

Osservando la facciata di San Miniato a Siena come quella di innumerevoli chiese e perfino cattedrali contemporanee, non resta che un’unica conclusione possibile da trarre. Una conclusione durissima: siamo passati dal costruire cattedrali a costruire supermercati. Se possibile persino peggio, perché certi centri commerciali sono decisamente più belli, o per lo meno attraenti.

La chiesa, che una volta si chiamava casa del Signore, è un orrore cementizio che fa sembrare l’architettura nord-coreana un inno alla vita.

Ryugyong Hotel, Pyongyang, Corea del Nord

Che allo spazio sacro sia riservato un simile trattamento dovrebbe inquietare l’animo dei credenti come e più dei brancicamenti dottrinali e degli svarioni dogmatici. Non si tratta semplicemente di costruire chiese povere – basti a tal proposito visitare la cappella costruita dai prigionieri italiani sull’isola di Lamb Holm in Scozia nel 1943-’45: uomini che non avevano nulla e hanno edificato un piccolo gioiello.

Abside della Cappella Italiana, isola di Lamb Holm, Orcadi, Scozia

Si tratta di essere incapaci di nascondere a sé stessi prima che agli altri il rigetto di Dio e l’horror vacui, o meglio l’amor horribilis che ne prende il posto – lo spirito umano non tollera vuoti. L’opera in pietra e l’opera d’arte sono esse stesse testimonianze che valgono la Parola. Anzi, per certi versi sono persino più essenziali ed esatte (principalmente perché il materiale di cui sono fatte non consente manipolazione) e soprattutto comprensibili a tutti.

Questo autentico Vangelo di Roccia che è sempre stata una chiesa è diventato un luogo squallido, tetro, misero e orripilante. Di questa bruttezza offensiva che risuona come una bestemmia e allontana i corpi e le anime io accuso voi committenti, cari pastori della Chiesa in uscita. I fedeli escono dalla Chiesa esattamente come escono da una chiesa, e se possono non vi rientrano. Come uscirebbero da morti, se potessero, da certe tombe nei cimiteri di oggi, coperte da lapidi grevi e anonime che somigliano a tappi e che sussurrano a chi guarda “è inutile sperare, nessuno verrà mai a toglierti da qui”.

Lapidi moderne

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