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sabato 19 marzo 2022

Garcia Moreno: il presidente martire cattolico che dette dignità all’Ecuador

«La verità è il bene, così com'esso è pensato dall'intelletto umano; la bellezza è quello stesso bene e quella stessa verità, materialmente incarnata in una forma viva e concreta»
(Vladimir Sergeevič Solov'ëv)

La vita di un grande presidente cattolico, Garcia Moreno pubblicato da Marco Tosatti (QUI QUI).
Luigi

Prima parte

Antonello Cannarozzo

Immaginate, per un attimo, i nostri politici: dal Presidente della Repubblica al capo del Governo con i suoi ministri fino ai parlamentari dei vari schieramenti politici, tutti inginocchiati in piazza san Pietro, congiuntamente ai rappresentanti della Chiesa, degna ancora di questo nome, e tutti partecipano commossi alla consacrazione della nazione italiana al Sacro Cuore di Gesù.
Certo, con i tempi che corrono è una pura fantasia eppure ci fu un tempo e una nazione in cui tutto questo avvenne veramente.
Era il 30 gennaio del 1875 nel lontano Equador, per volontà del suo presidente Gabriel García Moreno, un nome che oggi dice poco anche ai cattolici, ma che, per il suo coraggio e soprattutto il suo esempio di fede, divenne un argine contro la sovversione anticristiana che si avviava a conquistare il suo Paese e tutta America Latina.

Una vita che, come vedremo, per le sue tante avventure sembra quasi un film, ma tutto ciò che affrontò è la pura verità.

Aveva, come dichiarò più volte egli stesso, la forza della fede in Cristo e, dunque, il senso vero della giustizia e della carità, non fatta delle melliflue e false parole pronunciate oggigiorno, ma di forza e di volontà nel perseguire questi ideali nella difficile lotta che aveva intrapreso grazie a due elementi fondamentali: con lui c’era una vera Chiesa, forte della propria verità e della propria missione ed un vero papa come Pio IX.

Oggi la lotta che Moreno intraprese più di cento anni fa sarebbe impossibile; intorno a lui ci sarebbe solo il vuoto, per non dire il tradimento di una Chiesa, intesa come Vaticano, ormai priva di qualsiasi autorità spirituale e civile.

La forza della fede

Forte della sua fede, riuscì negli anni alla presidenza dell’Ecuador a fare del suo povero ed emarginato Paese una realtà economica e culturale di prim’ordine per il Sud America, mettendo in pratica, ante litteram, la Dottrina sociale della Chiesa fondata sulla solidarietà, sulla destinazione universale della ricchezza e del bene comune, ben vent’anni prima della Rerum Novarum di Leone XIII.

Un programma di pace e di fede che non poteva certo piacere alle forze destabilizzanti e sovversive che si muovevano in tutta l’America Latina, che provocavano rivoluzioni e colpi di mano militari quasi a getto continuo, sempre in nome della loro libertà.

Molte furono le minacce, gli attentati contro Moreno e, purtroppo, alla fine, come erano solito fare questi sovversivi contro gli avversari che non si piegavano ai loro voleri, decisero di ucciderlo e così avvenne.

Il 6 agosto del 1875, all’uscita dalla cattedrale della capitale Quito, pochi giorni prima del suo terzo mandato presidenziale, veniva ucciso da un sicario di nome Faustino Lemus Rayo al grido: “morte al dittatore”.

A Lima, in Perù, a dimostrazione che tutto era già stato previsto, una settimana prima i giornali parlavano apertamente della sua morte sapendo che la mano dell’assassino era già pronta e lo sapeva anche Moreno che i giorni che gli rimanevano erano pochi, tanto che quando venne ucciso aveva ancora tra le mani un decreto presidenziale in cui si scusava per i suoi errori chiedendo perdono al suo popolo, un testamento spirituale di un vero cristiano.

Finiva così la sua avventura terrena, ma non certo il suo ideale cristiano, morendo, infatti, le sue ultime parole furono:” Dio non muore” e così fu, la sua figura giganteggia ancora oggi nella sua patria e non solo.

Nel museo a lui dedicato a Quito, tra i tanti cimeli, ciò che colpisce di più i visitatori è un dipinto del XIX secolo con il ritratto di Garcia Moreno a grandezza naturale. È ormai una consuetudine per tanta gente che di fronte al dipinto si metta a pregare, lo toccano e si fanno il segno della croce e chiedano una grazia.

A lato del dipinto c’è una preghiera che recita così: “O Vergine Santissima di Lourdes, (di cui era devotissimo. Ndr) ricorda che il tuo servo Gabriel García Moreno giurò di difendere la tua Immacolata Concezione… Morì vittima della Fede e della sua carità cristiana con la Patria…!” e si dice che i miracoli siano anche numerosi.

L’America Latina nel XIX secolo

Per comprendere il pensiero e l’opera di Garcia Moreno, bisogna ripercorrere brevemente la storia dell’America Latina in quegli anni, fatta di colonialismo, di arretratezza e, ovviamente, di corruzione che rendevano sempre più povere e umiliate le popolazioni, specie quelle degli indios.

L’unico baluardo in loro difesa era la Chiesa, grazie all’opera dei suoi missionari, uomini di un coraggio e di una fede eccezionali, ma, proprio per questa determinazione, crearono intorno a loro invidia, rancore e tante minacce per il lavoro di affrancamento dalla miseria di tanta povera gente.

Purtroppo, vinsero i loro nemici e furono cacciati da quelle che ieri come oggi, erano sempre quelle forze rivoluzionarie e progressiste che si andavano affermando, ma che lasciavano in realtà queste terre in balia dello sfruttamento, appoggiandosi da una parte all’Inghilterra o la Francia e dall’altra ai ‘cattolicissimi’, ma non sempre degni di questo nome, regni di Spagna e del Portogallo, facendo così del Sud America una terra di sfruttamento e di massacri.

Gli anni turbinosi del XIX secolo videro, nel caos rivoluzionario, capi-popolo che si autoproclamavano presidenti di qualche Paese, ma che duravano lo spazio di un mattino, lasciando i territori ‘liberati’ in balia della solita povertà e della paura.

A definire questo tempo di Revolucion, sulle mura della capitale dell’Equador, Quito, si poteva leggere una frase che potremo usarla anche ai tempi attuali in merito ai vari cambiamenti politici: “L’ultimo giorno del dispotismo e il primo giorno della dittatura”, cambiare tutto, insomma, per non cambiare niente, una frase di gattopardesca memoria.

In questo bailamme di agitazioni sociali e di rivolte assai sanguinose, si staglia la figura del generale Simon Bolivar, originario dell’odierno Venezuela, grande condottiero, liberatore dell’America Latina dalle forze di occupazione straniere, Spagna e Portogallo, ma, come era scritto sulle già citate mura di Quito,una volta realizzata la cacciata dei colonizzatori, ben presto il popolo rimaneva vittima degli intrighi interni ed esterni dei governi stessi, forze che avevano tutto da guadagnare in una situazione tanto confusa.

Dopo aver rotto il legame di dipendenza con la Spagna ed il Portogallo, era necessario costruire la Nazione, darle una forma e una sostanza, seguendo unicamente l’ideale della laicità, essendo al potere in quel momento solo forze atee e liberali.

Un’ impresa non certo facile, numerosi erano infatti gli ostacoli accentuati da differenze regionali, dal concetto di piccole patrie, di cui Bolivar si lamentava tanto, i vari interessi localiste davanti all’interesse nazionale, l’emarginazione regionale che consolidava i vari egoismi politici spingendo l’entrata in scena dei vari caudillo di turno, sempre alla ricerca dei propri privilegi corporativi.

Purtroppo, pochi anni dopo del suo Alziamento, il generale Bolivar vide con grande dolore le rovine di ciò che credeva aver creato e i suoi generali, con i quali aveva condiviso le fatiche della guerra di liberazione del Continente, accaparrarsi, come lupi affamati, le ricchezze naturali sempre sulla pelle del popolo sfruttato.

L’Equador non era certo esente da questo caos politico e militare, ma si deve proprio ad un generale di Simon Bolivar, la nascita di questa nuova nazione.

Il suo nome era Juan José Flores y Aramburu, venezuelano di nascita, eroe nella guerra di liberazione, ne divenne primo presidente dopo la scissione dall’allora Grande Granada, l’odierna Colombia.

Per prima cosa la nuova nazione doveva darsi una governo con un esecutivo capace e, imitando la Francia e il giovane Cile da poco indipendente, approvò un nuovo Codice civile da cui si dette l’avvio per la nuova Costituzione, ma, in questo lasso di tempo, furono testate almeno tre Carte Costituzionali, secondo i rapporti delle forze sociali o regionali del momento fino ad arrivare a quella definitiva.

Josè Flores padre dell’Ecuador

Massone, con decise idee liberali, Flores volle subito imporre uno Stato completamente secolarizzato e l’iter, come già in altre parti del mondo, era sempre lo stesso: abolizione delle scuole ed università cattoliche, spoliazione delle chiese e dei loro beni, chiusura dei conventi, il controllo statale dei vescovi, una stretta sulle pubblicazioni e circoli di ispirazione cattolica, sempre, ovviamente in nome della libertà di pensiero di cui si facevano vanto gli illuministi dei quali Josè Flores ne era un rappresentante.

Tutte riforme, o ritenute tali, in un Paese attraversato da eserciti occasionali e da tanta miseria, sia materiale che morale.

Il neo presidente dovette fin da subito affrontare i gravi problemi di bilancio statale, creando ad hoc diverse leggi fiscali e stipulare un patto di non aggressione con i Paesi confinanti, essenziale per la sopravvivenza del giovane Stato, ottenendo tra l’altro l’adesione all’Ecuador delle Isole Galapagos.

I problemi certo non gli mancavano e ben presto dovette affrontare anche una vasta epidemia di febbre gialla portata dai marinai nella città portuale di Guayaquil, che decimò la città con migliaia di vittime ciò nonostante impose nuove tasse spesso in favore dell’oligarchia ma, per non inimicarsi troppo il popolo, iniziò a costruire scuole pubbliche dove anche i bambini degli indios e dei poveri meticci potevano studiare laicamente e gratuitamente.

Il suo errore politico fu voler prolungare il suo mandato presidenziale, per cui si manifestarono i primi malcontento per questo suo voler perpetuare il potere e trasformare di fatto una repubblica democratica in una dittatura.

Nasce Garcia Moreno

In questa atmosfera intrisa di anti – cristianesimo e di lotte intestine, nasceva il 24 dicembre del 1821, alla vigilia di Natale, Gabriel Gregorio García y Moreno y Morán de Buitrón nella città di Guayaquil.

La sua data di nascita fu vista, secondo una credenza indios, come colui che farà grandi imprese, e questa volta la profezia ebbe ragione.

Gabriel García Moreno, oltre ad essere, come vedremo un valente uomo di Stato, è considerato ancora oggi tra i rappresentanti del pensiero cattolico-conservatore, un ideale che mise in pratica nei suoi governi anche se oggi potremmo definirlo autoritario per la sua energica in difesa dell’ordine e per il suo stretto rapporto con la Chiesa, considerata da lui strumento di pacificazione e di unità nazionale, oltre che supporto ideologico al regime.

Il suo stile di governo suscitò, ovviamente, aspre critiche nei settori a lui ostili, ma anche l’ammirazione entusiasta di chi vedeva nella sua forma di governo la via sicura verso la pace e il progresso, almeno come avvenne finché rimase in vita.

Era figlio di un nobile castigliano emigrato in America latina che, grazie alla sua capacità imprenditoriale, fece una discreta fortuna, tanto da poter impartire al giovane Garcia una eccellente educazione scolastica, ma, soprattutto, cattolica essendo una famiglia profondamente devota.

Una caratteristica che lo accompagnerà per il resto della sua vita fino al giorno della sua morte.


Un giovane esuberante, ma innamorato di Gesù

Il giovane Garcia cresceva assai vivace, pieno di interessi culturali, scienze naturali e matematica erano le sue materie preferite, inoltre, la sua formazione cattolica gli aveva determinato un carattere forte e risoluto, pronto per le sfide della vita.

Ben presto, con il suo carattere fermo, ma generoso, decise di impegnarsi, ancora giovanissimo, “nell’esercito di Gesù”, una scelta pericolosa in quei tempi, quando tutti scappavano davanti al pericolo di manifestare la propria fede, ma il giovane Garcia non era certo il tipo di vergognarsi delle proprie idee come quella di amare Gesù, tanto che, con questo suo coraggio, volle avviarsi verso la carriera ecclesiastica, ma, ben presto, pur rimanendo un uomo di profonda fede, si rese conto che quella non è ciò che la vita aveva in serbo per lui.

Tornato alla vita civile, decise di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza dove conseguì la laurea con il massimo dei voti e ben presto poté iniziare la carriera forense, pur non abbandonando la sua sete di sapere verso lo studio delle scienze.

Ma i problemi sorsero proprio con la sua attività forense. Essendo un uomo tutto d’un pezzo, non accettava di difendere persone che sapeva essere colpevoli, tanto da rinunciare, così, a grosse parcelle. Inutile dire che la sua attività di avvocato non era certo redditizia e questo gli creava non pochi problemi nel mantenere una famiglia sempre più numerosa.

Nel 1846 aveva sposato Rosa Ascazubi y Mathieu, la quale mori quasi vent’anni dopo, e in seconde nozze, 1866, sposò Mariana del Alcazar. Dai due matrimoni ebbe cinque figli, ma sopravvisse loro solo la figlia Maria del Rosario.

L’inizio della lotta politica

Se già i problemi quotidiani per la sua inflessibilità non bastavano a rendergli la vita complicata, ci si mise anche la politica.

Avversario determinato del regime autoritario ed anti cattolico del generale Flores, partecipò, ancora giovanissimo, ai moti rivoluzionari del 1845 contro la dittatura e, contro ogni previsione, la rivolta si risolse più facile del previsto, con l’esilio dello stesso Flores, dimostrando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, come il regime non avesse alcun sostegno popolare.

Purtroppo, ritornando allo scritto sui muri di Quito già accennato: ‘ultimo giorno del dispotismo, primo della dittatura’, divenne una frase profetica.

Dopo Flores, prese il potere Vincent Ramón Roca Rodríguez che pur avendo guidato la rivolta, si dimostrò, ben presto peggio, del suo predecessore in fatto di malgoverno, tanto che Moreno decise di fondare un foglio satirico anti governativo, La Frusta, intorno al quale si strinse tutta l’opposizione.

Ciò nonostante, con l’attuazione di una nuova Costituzione, oltre a nuove misure innovative di rilevanza nazionale, l’amministrazione di Ramón Roca inizialmente si dimostrò efficace per lo sviluppo delle infrastrutture pubbliche e investimenti industriali, aprendo le prime fonderie e avviando produzioni di meccanica, ma tutto con un decisionismo da despota e favorendo i suoi amici.

Da uomo furbo, capì che doveva scendere a patti con il dissenso, anche perché aveva saputo che Flores stava organizzando, con l’aiuto di forze straniere, il ritorno a Quito per riprendersi il potere.

Visto il pericolo, Moreno con gli altri oppositori, accettò la tregua con Roca per combattere insieme l’ex dittatore una volta arrivato in Equador.

Ma l’invasione straniera con a capo Flores non avvenne per due motivi: primo non erano abbastanza finanziati per una tale impresa e secondo, il governo inglese, con il premier Palmerston a cui si era rivolto l’ex dittatore, non era interessato a smuovere troppo le acque in una zona dove i sudditi di Sua Maestà cominciavano ad avere i loro interessi.

Scampato il pericolo dell’invasione, Roca tornò ad essere il solito despota e, al di là dei programmi di sviluppo, proibì ogni dissenso popolare.

Moreno, resosi conto del tradimento, ruppe la tregua fondando un altro foglio, ‘El Diablo’, ancora più minaccioso nei confronti del regime, ma ormai non era più una questione solamente di idee, ma di vita o di morte per il giovane Garcia (non dimentichiamo che aveva appena ventisei anni), Roca voleva eliminarlo una volta per tutte, ma il nostro venne avvertito in anticipo e così ebbe la possibilità di preparare una fuga in Europa, ma prima di lasciare la sua patria e nonostante il pericolo per la propria incolumità, decise di impegnarsi nel dare rifugio ad un gruppo di gesuiti cacciati dalla Colombia, riuscendoci grazie all’appoggio popolare.

Dopo questa ultima fiammata di audacia, dovette assolutamente andar via al più presto, la terra ormai gli scottava sotto i piedi.

Nel 1849 intraprende, da esiliato, un viaggio in alcune capitali europee vedendo i frutti dei tanto decantati moti rivoluzionari avvenuti un anno prima, nel 1848, per accorgersi, però, come queste rivolte, altro non erano che la longa mano della sovversione per distruggere l’ordine costituito e, soprattutto, la Chiesa cattolica, un po’ come avveniva anche nel suo Equador.

Eletto capo dell’opposizione

Tornato in patria, trovò, neanche a dirlo, un altro golpe ed un altro presidente, il massone José Maria Urbina che rimase in carica dal settembre 1851 all’ ottobre 1856, dopo aver esiliato di un altro dittatore, Diego Noboa.

Gli interventi del suo governo furono tra i più incisivi che dettero una svolta alla totale laicità dello Stato, cacciando ogni presenza della Chiesa dalla vita nazionale ed instaurando una vera dittatura, anche se è riconosciuto per aver promosso l’abolizione della schiavitù nel Paese, ma ciò nonostante il suo governo ebbe notevoli aspetti negativi soprattutto per le libertà costituzionale.

Ancora una volta Moreno fu in prima fila per combattere l’oppressore e fondò ancora un altro giornale, La Nacion, con continui e coraggiosi attacchi al regime.

Urbina non aveva però la pazienza di Roca e lo fece arrestare immediatamente.

In carcere il nostro vi rimase pochi mesi perché evase nottetempo grazie alle complicità delle guardie e non solo, durante la sua assenza venne anche candidato dai suoi amici come rappresentante dell’opposizione alle elezioni politiche.

Moreno aveva un vasto consenso popolare e stravinse le elezioni. Ormai tutto sembrava tornare alla normalità, ma non fu così.

Urbina aveva deciso di arrestarlo di nuovo, se non peggio, e questa volta era veramente deciso. Moreno riparò nel vicino Perù da dove partì alla volta di Parigi.

Nella capitale francese rimarrà due anni dal 1854 al 1856 ed è qui che incontrerà quegli ambienti cattolici che rifiutavano la “vasta fabbrica di anticristi e di idoli”, come la definirà la Francia di allora Louis Veuillot, uno dei rappresentati più significativi del cattolicesimo francese.

Qui maturerà quello che diventerà il suo manifesto del cattolicesimo politico per attuare quelle riforme necessarie al benessere del popolo; una visione sociale che non lo abbandonerà mai più.

Intanto in patria, solo, senza oppositori, Urbina cominciò a gestire il potere in modo sempre più tirannico e, come in un tragico dejà vu già scritto, requisì i conventi con il falso pretesto delle caserme insufficienti, cacciò dal Paese, come indesiderabili, i sacerdoti a lui ostili e, dulcis in fundo, incoraggiò la pubblicazione di squallidi libretti per denunciare la presunta corruzione del clero.

Riordinò poi tutti i programmi scolastici, fucina di eventuali sobillatori, e, da buon dittatore, per tenere buoni i suoi fedelissimi li premiò generosamente, ma sempre a spese di un popolo ormai sempre più povero.

Come tutte le storie di golpe, una volta finiti gli avversari esterni, toccò poi agli stessi congiurati di sbranarsi tra di loro fra invidie e complotti dove i capi venivano puntualmente contestati dal popolo per la loro avidità.

Anche Urbina non sfuggì a questa logica, tanto che con astuzia nel 1856, prima che la situazione sfuggisse al suo controllo, si dimise e fece eleggere al suo posto l’innocuo Francisco Robles Garcia, già suo ministro della Guerra.

Il ritorno di Moreno

Per facilitare la transizione venne concessa anche una amnistia molto ampia che permise a Moreno di poter tornare in patria e riprendere il suo impegno politico, tanto che nelle elezioni del 1857 venne eletto senatore nelle fila dell’opposizione e, ancora una volta, fondò un altro giornale, L’Unione Nazionale, con una caratteristica innovativa per l’epoca, pubblicare tutti gli atti parlamentari, in modo che i lettori potevano conoscere cosa avveniva veramente nei Palazzi del potere.

Grazie al prestigio che si era conquistato e contro la volontà della massoneria locale, venne nominato Rettore dell’Università Centrale di Quito.

Fu certamente un grande onore, ma non privo d’insidie tanto che la sua proposta di riforma degli studi venne bocciata, ma l’uomo era dotato di una costanza senza limiti e non avendo alcuna paura dei suoi potenti avversari, propose addirittura, ma inutilmente, la chiusura delle logge massoniche, vero potere nel Paese.

Riuscì però, inaspettatamente, a far abolire la tassa di capitazione, una imposta che gravava principalmente sugli indios già poveri di loro che, tra l’altro, non potevano neanche accedere ad un impiego pubblico ed emarginandoli ancora di più dal contesto sociale.

Solo nel caos e nel disordine alcune forze trovano il loro habitat naturale e così la troppa tranquillità non poteva durare.

Una nazione nel caos

Nel 1857, con la scusa di problemi territoriali con il confinante Perù, Urbina che, nonostante avesse ceduto il potere, in realtà era ancora lui il vero capo del Paese, decise di imporre la legge marziale con tutto ciò che questo significava per i diritti civili dei cittadini.

Scoppiò una rivolta dove a capo troviamo sempre Moreno, ma questa volta per gli insorti andò male e dopo tante battaglie furono costretti a lasciare il campo e fuggire davanti alle forze sovversive meglio organizzate delle loro.

Queste ultime, finalmente rimaste padrone del campo, cominciarono una serie di riforme, ma, come la storia ci insegna, come abbiamo già esposto, la caratteristica dei rivoluzionari è quella di divorare se stessi e in questa lotta interna prese il posto il nuovo leader Guillermo Franco, grazie all’aiuto militare del Perù a cui aveva promesso importanti concessioni territoriali.

La situazione era grave, il Paese era praticamente alla mercè di Stati stranieri e della corruzione sempre più attiva.

Ancora una volta, Garcia Moreno organizzò l’ennesima insurrezione contro dittatura. Attraversò in maniera rocambolesca, la jungla equadoregna per riunire le forze, ma anche questa volta la fortuna non gli arrise.

Venne catturato, ma riuscì ancora ugualmente ad evadere affrontando una marcia incredibile attraverso le Ande per sfuggire ai suoi nemici e riorganizzare l’opposizione.

Benché Moreno fosse momentaneamente fuori gioco, la guerra civile era ormai scoppiata. Il malcontento era vasto nel Paese e il nome del nostro eroe riecheggiava ormai nelle strade delle città e dei villaggi, tutti volevano Moreno per guidare il Paese.

Per fermare questa lotta fratricida costata già tanti lutti, Moreno, con grande spirito di sacrificio, propose a Franco l’esilio per tutti e due, ma la proposta cadde nel vuoto e la lotta proseguì nel sangue e questa volta la vittoria, finalmente, fu degli insorti e del loro capo, Garcia Moreno. Era il 24 settembre del 1860.

Una data veramente storica per l’Equador che aprì una stagione di pace e delle tante sospirate riforme.



Garcia Moreno: il presidente martire cattolico che dette dignità all’Ecuador
Seconda parte
Antonello Cannarozzo

Le prime riforme sociali

A furor di popolo, Moreno prese il potere e il suo primo atto fu consacrare l’esercito che tanto aveva fatto per la liberazione del Paese, a Nostra Signora della Mercede, subito dopo formò un governo provvisorio eletto a suffragio universale anche per i poveri e sfruttati indios, bastava avessero compiuto vent’anni, sapessero leggere e scrivere per poter votare, a differenza dei governi liberali per i quali il diritto al voto era legato solo alla ricchezza, al censo, nonostante la tanto declamata democrazia.

In Italia, ad esempio, per arrivare a questa riforma elettorale bisognerà aspettare cinquantatré anni, il 19 giugno del 1913 con il decreto del Governo Giolitti.

Tornando a quel 1860, l’Equador ebbe per la prima volta un presidente cattolico, non solo, ma, come vedremo, anche intransigente, integralista, ma anche uomo di fede e di giustizia.

Il suo, per onestà, fu un esecutivo non privo di ombre imponendosi a volte come un dittatore anche se certamente illuminato suscitando aspre critiche nei settori liberali, ma anche l’ammirazione entusiasta dei poveri, che avvertivano il suo governo come un cammino sereno verso la pace e il progresso.

In sua difesa ricordiamo, però, come i suoi nemici erano agguerriti e potenti e certo non gli lasciavano molta scelta per difendersi dalle loro macchinazioni.

Elemento fondamentale di tutta la sua politica fu indubbiamente l’alleanza con la Chiesa Cattolica, in controtendenza al processo di secolarizzazione che si stava sviluppando nel resto continente Latino Americano.

Davanti a tanta intransigenza, chi si aspettava dal massimo rappresentante dei conservatori reazionari una involuzione sociale, rimase meravigliato dall’intenso lavoro per innovare la nazione sia nel campo tecnologico e sia educativo, ottenendo importanti successi.

La sua intemerata fermezza in politica si può riassumere in una frase divenuta celebre:” Libertà per tutto e per tutti, tranne che per il male ed i malfattori”.

Facendo comprendere chiaramente che lo Stato non si poteva prendere in giro anche perché i problemi che doveva affrontare, fin dai primi giorni del suo mandato, erano gravissimi come il debito statale spaventoso accumulato dai passati governi, una situazione dove chiunque avrebbe comprensibilmente ‘gettato la spugna’, ma non certo il nostro Moreno.

L’impresa era enorme, quasi irrealizzabile, ma non impossibile, come ricorderà lui stesso anni dopo.

Avviò nel modo più logico il risanamento del bilancio con una serie di azioni tagliando innanzi tutto le spese folli, fatte solo per far arricchire i disonesti, licenziando in tronco i burocrati sleali o incapaci, controllando sistematicamente il debito pubblico ed eliminando quei contratti stipulati attraverso la corruzione.

Avviò con successo la realizzazione della Corte dei Conti alla quale mostrare periodicamente il lavoro degli agenti del fisco che, rendendoli personalmente responsabili del loro operato, diede loro maggiore autorevolezza.

Del suo assegno presidenziale, Garcia Moreno usò metà per le casse dello Stato e l’altra metà per il Fondo delle Opere Caritative.

Il taglio della spesa statale avvenne, tra l’altro, bonificando la pubblica amministrazione dai parassiti di regime, un’ampia riduzione dell’esercito, una misura che, oltre a diminuire una spesa esorbitante per lo Stato già stremato, preveniva di fatto il pericolo di possibili altri “pronunciamientos” e consentendo la costituzione di un esercito professionale agile e, soprattutto, ben pagato.

Le cose da fare però erano veramente molte come la diffusione delle scuole libere affidandole ai vari ordini religiosi, togliendo così allo Stato l’aggravio dell’educazione pubblica e risollevando le finanze dissanguate.

Ottenne ancora l’affidamento, sempre ad altri ordini religiosi, degli ospedali e delle carceri, e allo Stato naturalmente il compito della supervisione e dell’eventuale sostegno, secondo il principio di sussidiarietà.

Altro passo importante fu la stipula di un nuovo Concordato con la Chiesa, eleminando tutti quelle leggi liberticide che avevano impedito l’esercizio delle fede presso un popolo cattolicissimo, tutti elementi che lo ponevano, secondo i suoi oppositori, alla mercè della Chiesa e, dunque, di uno Stato straniero.

Il rapporto con la Chiesa

Quasi a confermare queste voci, il 26 ottobre del 1862 il cardinal Antonelli, sotto l’egida di Pio IX,firmò il Concordato tra la Chiesa e l’Equador, ridando al papa l’autorità sul clero, non più selezionato dallo Stato, che sceglieva quelli con idee liberali e, dunque, screditati agli occhi dei fedeli e di fatto succubi del potere.

Inizialmente, questi sacerdoti sospesi dalle loro funzioni, molti dei quali, per la loro condotta scandalosa erano stati ridotti allo stato laicale, si rivoltarono contro le nuove disposizioni, ma ormai isolati dalla gran parte della popolazione, dovettero emigrare in territori certamente più accoglienti per loro.

Provvidenzialmente però furono sostituiti, grazie all’amicizia con Roma, da molti religiosi europei, istruiti e capaci di diffonder la vera dottrina e riaccendere così la fiamma della fede.

Ma se Moreno, avanzava trionfalmente con le sue riforme, i suoi nemici non stavano di certo a dormire.

La violenta guerra civile che stava insanguinando la confinante Colombia produsse un incidente di frontiera che costò la ferita ad una gamba allo stesso neo presidente, ancora una volta in prima linea tra i suoi soldati, ma questo era solo l’inizio, si stava delineando un problema ancora più grave per il suo Paese.

In Columbia salì al potere la frangia liberale che scatenò con il confinante e pacifico Ecuador una serie di incursioni e infiltrazioni di delinquenti, travestiti da patrioti, che al grido di Viva la libertà e abbasso il tiranno, contro Moreno, cercavano di sovvertire il governo di Quito per fare gli interessi colombiani.

Davanti a questi soprusi, il presidente rispose in maniera ferma e decisa “Nessuno potrà mai credere che per salvare quel pezzo di carta che qui da noi viene strappato ogni quattro anni, e che si chiama Costituzione, io sia obbligato a consegnare la Repubblica nelle mani dei suoi carnefici”.

Senza molte riserve legali decide di fucilare sul posto gli invasori “La generosità e la clemenza verso i nemici della Patria sono virtù male intese”, ed ancora dichiara “L’indipendenza, essendo la vita di un popolo e per conseguenza il primo dei suoi beni, io voglio l’indipendenza per l’Ecuador. E’ appunto per questo che io detesto e combatto, con tutta la possibile energia, i grandi nemici di questa indipendenza, che sono la licenza e l’anarchia. L’unità, garanzia di pace e condizione di forza, fu sempre il primo dei miei desideri”.

Allo scadere del suo primo mandato Moreno aveva intorno non solo tanti ammiratori, ma anche avversari temibili e privi di scrupoli, che non esitarono a mettere in pratica il loro programma politico: eliminazione totale delle riforme e la morte del suo propugnatore.

Al grido già citatoto di “libertà e morte al tiranno” nelle elezioni successive del 1865, riuscirono a vincere, anche se con il sospetto assai concreto di brogli, e Moreno dovette lasciare la sua carica in favore di Jeronimo Carrion, un uomo onesto, ma non certo un combattente tale da opporsi al risorgente malgoverno.

Torna allora alla mente un’altra frase dell’ormai ex presidente “il vero amico della libertà è l’uomo che consacra le sue forze per rendere morale il proprio Paese, per correggere le ingiustizie sociali, per radunare insieme gli onesti a lavorare senza posa per il bene pubblico”.

Accusato e prosciolto

Intanto i suoi nemici, ed erano tanti, tramarono l’uscita definitiva di Moreno dalla scena politica e l’unico mezzo sicuro era certamente quello di assassinarlo.

Nel 1866 un congiurato lo ferì con tre colpi di pistola, ciò nonostante l’ex presidente riuscì ad impugnare la propria arma ed uccidere il suo assalitore. Sebbene vi fosse l’evidente legittima difesa, fu accusato di omicidio volontario, ma, fortunatamente, venne prosciolto da questa accusa ad una condizione: doveva ritirarsi alla vita privata e non avere mai più un ruolo pubblico.

Dopo cinque anni di buon governo, la nazione ricadde nel caos e nella corruzione, sprofondando di nuovo nella povertà.

Carrion diventò ben presto, per la sua arrendevolezza, una marionetta dei liberali abolendo per prima cosa il Concordato con la Santa Sede, l’espulse dal Paese tutti i religiosi coinvolti con il precedente governo e infine ripristinò immediatamente tutte le leggi abolite dal precedente governo. In breve crollò tutto ciò che Moreno aveva costruito con tanta fatica.

Non contenti di tutto questo, le forze sovversive nel Paese decisero di sbarazzarsi dell’inutile Carrionaccusandolo addirittura di malversazione.

Si indicono altre elezioni e, nonostante in quei giorni visse la morte della figlia più piccola, Morenodecise di impegnarsi a far incanalare i voti dell’opposizione su José Manuel Francisco Javier Espinosa che venne eletto, anche se di stretta misura, ma la gioia per questa elezione dura poco.

Il nuovo presidente aveva una sua politica, quella di coinvolgere intorno a se il massimo consenso e per questo aprì il suo governo anche agli sconfitti, affidando loro ministeri chiave per l’amministrazione del Paese, un errore grave che dette vigore ai nemici di Moreno e dell’Ecuador.

Ma qualcosa di insperato, anche se drammatico avvenne a cambiare la situazione.

Il 13 agosto del 1863 si scatenò un terribile terremoto nella provincia di Ibarra, a cento chilometri a nord della capitale Quito con migliaia di vittime.

Come avviene in questi disastri, insieme alle calamità arrivarono anche i ‘sciacalli’, uomini che arraffavano tutto quello che potevano senza alcuna pietà per i sopravvissuti.

La situazione era grave ed Espinosa come capo militare inviò Moreno con pieni poteri nella martoriata provincia.

Con la sua solita decisione, in breve riuscì a sistemare la situazione aumentando la sua già estesa popolarità.

La cosa certamente non faceva piacere alle forze che gli si opponevano, tanto che venne accusato senza alcuna prova di peculato, ma senza successo.

Intanto le nuove elezioni si avvicinano e Moreno era tra i candidati che potevano ottenere la maggioranza dei voti.

Evitò il colpo di Stato

Per evitare un sicuro successo dei cattolici, gli oppositori decisero un colpo di Stato contro Espinosain modo da ritardare, se non addirittura eliminare, le elezioni.

Ma il piano fallì miseramente, Moreno fu avvisato da un pentito della cospirazione e con un tempestivo intervento delle sue truppe riuscì a sventare il pericolo di un colpo di Stato.

Le elezioni furono celebrate e per il nostro furono un vero plebiscito.

Moreno venne eletto per la seconda volta alla più alta carica del suo Paese, ma con tutti i problemi che nel frattempo si erano acuiti con il malgoverno precedente.

Quella nata nel 1869 fu certamente una legislatura non priva di colpi di scena e, memore delle precedenti esperienze, questa volta si adoperò per portare avanti senza alcuna cautela le sue idee, tra cui la chiusura e la revisione dell’Università di Quito, vero covo di sovversione.

Ristabilì, tra l’altro, di nuovo il Concordato con la Santa Sede e non contento, con il consenso della maggioranza del Parlamento, pose nella Costituzione questo preambolo “Nel nome di Dio, Uno e trino, autore, conservatore e legislatore dell’Universo, la Convenzione Nazionale ha decretato la presente Costituzione” e al primo articolo enuncia “la Religione Cattolica Apostolica Romana religione dello Stato ad esclusione di ogni altra” e che lo Stato “la mantiene nel possesso inalienabile dei diritti e delle prerogative di cui le leggi di Dio e le prescrizioni canoniche l’hanno investita con l’obbligo per i pubblici poteri di proteggerla e farla rispettare”.

Inoltre, negli articoli successivi espose un principio che probabilmente con i tempi di oggi sarebbe stato massacrato in primis dall’odierna Chiesa. “Non si può essere elettore o eleggibile, o funzionario di qualunque categoria senza professare la Religione Cattolica“.

Contro la religione laica

A coloro che gli facevano notare il suo eccessivo cattolicesimo lo allontanava di fatto dai Paesi cosiddetti “civili”, rispondeva che nelle nazioni di ispirazione laica veniva di fatto dichiarata una “religione” senza Dio a cui essere sottomessi, “Noi – osservava Moreno– proponiamo una religione non degli uomini, ma che viene da Dio”, tanto che in un altro articolo della Costituzione affermava essere “decaduto dai suoi diritti di cittadino chiunque appartenga a una società condannata dalla Chiesa” e per essere sicuro che il Parlamento, sempre in bilico tra conservatori e liberali, decretò per il ruolo del presidente la facoltà di “veto” sulle leggi per la durata di una legislatura.

Atti che certo non aprivano alcuno spiraglio di dialogo con la democrazia liberale, un’azione del resto mai cercata, e questo accrebbe l’odio dei suoi oppositori, tanto che, pochi mesi dopo la sua elezione, il 14 dicembre dello stesso anno, si fecero avanti in maniera assai plateale attentato alla sua vita.

Il sicario era un giovane appena adolescente che venne arrestato ancora con il pugnale tra le mani e Moreno, vedendolo così giovane, ne ebbe pietà e gli concesse la libertà. Per tutta risposta il giovane, una volta al sicuro, espresse la sua riconoscenza al presidente che stava per uccidere, con un libello dedicato al “mostro” che governa l’Ecuador.

A parte questo fatto drammatico, le riforme erano ormai all’ordine del giorno.

Solo per elencarne alcune: ai cappellani militari dette il compito di aprire le scuole per i soldati analfabeti, inviò militari in Prussia per imparare le nuove strategie di guerra, tolse tutte le norme che avevano evitato ai ricchi la ferma militare, dure sanzioni a bestemmiatori e ubriaconi, ma nello stesso tempo organizzò un servizio sociale per aiutare queste persone ad uscire dal vizio.

Per i concubini ci fu l’obbligo di sposarsi distinguendo il moralismo protestante dalla moralità cattolica dove la vita coniugale è un sacramento e, dunque, non si doveva dare scandalo in pubblico.

Venne promulgata la riforma universitaria che aveva già presentato inutilmente anni prima, creò scuole gratuite in tutto il Paese, anche nelle carceri, con forti sconti di pena per coloro che si fossero distinti negli studi, avviò ancora con l’istruzione obbligatoria fino ai dodici anni, una rivoluzione vera e propria per quegli anni.

Importante fu anche il suo impegno per emancipare gli indios attraverso borse di studio, creando il primo nucleo di maestri indios affinchè anch’essi potessero partecipare al progresso del Paese.

Ma tutto questo non bastava.

L’Ecuador doveva essere una nazione avviata anche allo sviluppo culturale, così al Politecnico di Quito arrivarono professori dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Inghilterra, scienziati anche di fama internazionale e lo stesso impegno lo dedicò alle Belle Arti ed al Conservatorio.

In pochi anni da Paese povero ed emarginato, l’Ecuador entrò di diritto nel novero delle nazioni avviate alla modernità.

Stessa cura ebbe per la sanità pubblica e a lui si deve il primo sanatorio e la prima organizzazione di centri sanitari sul territorio.

Un reazionario ‘progressista’

Ciò che colpi molti osservatori, specialmente stranieri, era lo sviluppo del Paese in un intenso lavoro innovativo in materia tecnologica come nelle conquiste materiali e sociali, ad esempio, per rompere l’isolamento regionale, ampliò il mercato interno e incoraggiò un maggiore scambio commerciale; nello stesso tempo allargò la partecipazione popolare attraverso il voto e per tutte queste iniziative venne per ironia della sorte, definito come un reazionario progressista, anche se tutto questo avveniva in un ambiente dove non solo la libera discussione era proibita, a detta dei suoi avversari, ma dove la Chiesa comandava di fatto la nazione attraverso l’educazione, la censura dei libri e di comportamenti sociali, inoltre con una Costituzione che rendeva il cattolicesimo un requisito obbligatorio per esercitare la cittadinanza.

Tutto questo era intollerante per una politica laica e liberale, era un progetto politico fatto di contraddizioni interne che avrebbe portato inevitabilmente ad una vera dittatura, ma nonostante le critiche, il ‘sistema Moreno’ funzionava.

La nazione, grazie alle importanti vie di comunicazione da lui avviate, usciva dall’isolamento con il resto degli altri Paesi confinanti.

Per sistemare il bilancio statale tolse, come nel suo primo mandato, le spese superflue, risparmiando praticamente su tutto, ma non sulle necessità, tanto che con i risparmi poté aumentare gli stipendi e addirittura ridurre le tasse spesso emanate per l’ingordigia dei vari presidenti prima di lui.

In politica estera stabilì accordi bilaterali di la pace e di collaborazione con le nazioni confinanti, in questo modo, otteneva anche l’ armonia all’interno dell’Ecuador e in questo modo l’economia ebbe il suo pieno sviluppo con il sistema finanziario riformato, i tributi erano finalmente equamente ripartiti e in questo contesto, riportò una significativa vittoria sul contrabbando e sulle frodi, tutti elementi che finirono per avere grandi benefici sull’economia e dando fiducia agli operatori economici, oggi diremo ai mercati.

Questa fu la “formula magica” che permise a Garcia Moreno di far prosperare il suo Paese che, cifre alla mano, dal 1869 al 1872 portarono le rendite dell’Ecuador al loro raddoppio.

Ma, curiosamente, il suo programma di modernizzazione e centralizzazione facilitò anche l’avanzamento della borghesia commerciale, simpatizzante del liberalismo e desiderosa di una maggiore partecipazione politica con l’esclusione di una Chiesa opprimente.

Senza accorgersene aveva scavato la fossa alle sue riforme risvegliando ambizioni impossibili da mettere a tacere e dando così l’avvio agli intrighi di cospirazioni nel Paese per farlo fuori.

Come già accennato, Garcia Moreno vinse anche le successive elezioni del 1875 e ottenne un terzo mandato presidenziale, ma per molti venne considerata come la sua condanna a morte. Ormai i suoi nemici erano sempre più forti e sicuri di sé anche con complicità estere.

Del pericolo che correva, Moreno ne era consapevole tanto da scrivere una lettera a Pio IX con la richiesta di una sua benedizione per il difficile momento che attraversava insieme alla sua nazione.

Scrisse, tra l’altro, “Vorrei ricevere la Vostra benedizione prima di quel giorno, perché io abbia la forza e la luce di cui ho tanto bisogno per essere fino alla fine un figlio fedele del nostro Redentore e un servo leale e obbediente del Suo Infallibile Vicario. Ora che le Logge Massoniche dei l paesi vicini, istigate dalla Germania, stanno vomitando contro di me ogni sorta di atroce insulto e di orribile calunnia, ora che le Logge stanno segretamente cospirando per il mio assassinio, ho bisogno più che mai della divina protezione perché possa vivere e morire in difesa della nostra santa religione e dell’amata repubblica che sono chiamato ancora una volta a governare”.

Il 5 agosto, poco ore prima del suo assassinio, un sacerdote nel fargli visita con grande dolore gli disse, “Siete stato avvisato che la Vostra morte è stata decretata dai massoni; ma non vi è stato detto quando. Ho appena sentito che gli assassini stanno mettendo in opera le loro trame. Per amor di Dio, prendete le Vostre precauzioni!”

García Moreno rispose che sapeva benissimo cosa lo aspettava, ma con calma riflessione rispose al sacerdote che l’unica precauzione da prendere era prepararsi ad apparire al cospetto di Dio.

La premonizione di García Moreno si avverò.

Vene assassinato, come già accennato, all’uscita della cattedrale di Quito crivellato di colpi di pistola dai suoi assassini al grido: “Muori, carnefice della libertà!” ma egli ebbe ancora la forza di rispondere: “Dios no muere!”, appena due settimane prima del suo terzo insediamento presidenziale,

Gabriel García Moreno, come aveva desiderato, ricevette l’estrema unzione appena prima di venire ucciso e fra i suoi effetti personali che portava sempre con sé c’era anche una copia del libro‘Imitazione di Cristo’.

Papa Pio IX proclamò Gabriel García Moreno “vittima della Fede e della Carità cristiana per il suo amato Paese”.

Dopo l’assassinio, la sua memoria, nonostante i governi che si succedettero, ha continuato ad essere ricordata in Ecuador, sia per il grande amore alla sua patria, come educatore e come amico della Chiesa.


Antonello Cannarozzo