A pochi giorni dalla conclusione dell’Ottavario per la conversione dei non cattolici (QUI, ma ora ridenominato «Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani»), vi proponiamo – in nostra traduzione – questa interessante, e un po’ provocatoria, riflessione espressa nella lettera di Paix Liturgique.
L.V.
In questa lettera riprendiamo il titolo che abbiamo dato alla nostra lettera 729 pubblicata il 15 gennaio 2020, e che è perfettamente attuale, come ci ricorda un articolo de La Croix.
La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è stata creata su iniziativa di padre Paul Couturier (1881-1953), sacerdote di Lione, nel gennaio 1933, per l’unità di tutti i cristiani battezzati, soprattutto cattolici, ortodossi, anglicani e riformati. Dopo il Concilio, la Settimana ha visto l’organizzazione di preghiere comuni, a volte anche di cerimonie comuni. È preparato congiuntamente dal Consiglio Mondiale delle Chiese di Ginevra e dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani. Si svolge dal 18 gennaio, data dell’antica festa della Cattedra di San Pietro a Roma, al 25 gennaio, festa della conversione di San Paolo.
Nel 2020 abbiamo posto questa semplice domanda: coloro che sono fedeli – per solide ragioni che hanno espresso più volte – alla celebrazione della liturgia tradizionale sono ancora cattolici? Se non sono più cattolici, a causa del cambiamento di paradigma, come diciamo noi, portato dal Vaticano II, o almeno se non sono più completamente cattolici, cioè se sono in «comunione imperfetta» secondo la nuova terminologia, allora sono cristiani separati, allo stesso modo degli ortodossi, degli anglicani, ecc. E in questo caso, si applicano gli stessi principi della liturgia tradizionale. E in questo caso, gli stessi principi di comprensione e di dialogo caritatevole, insieme al generoso prestito di edifici di culto, devono essere applicati alla loro cura pastorale. E se lo sono, quanto più devono essere trattati con carità e rispetto, come lo sono i cattolici di rito orientale o di lingua diversa da quella parlata in un paese, che hanno diritto alla piena libertà e a tutti i mezzi per celebrare il culto divino come sono abituati a fare.
La coerenza dei sostenitori dell’ecumenismo!
Per questo ci ha fatto piacere vedere che quattro personalità cattoliche francesi, Dom Jean Pateau, abate di Notre-Dame de Fontgombault, l’abate Pierre Amar, sacerdote diocesano, Christophe Geffroy, direttore de La Nef, e Gérard Leclerc, scrittore, hanno utilizzato questo modo di argomentare e hanno pubblicato un articolo su La Croix del 19 gennaio dal titolo: «Guerra liturgica: “Invece di accusarci a vicenda di presupposti ideologici, e se ci ascoltassimo a vicenda?”». Abbiamo riprodotto il testo completo di questo articolo qui sotto.
Si può trovare il tono di questo testo un po’ sentimentale, o addirittura molto irenico, quando si sa quale violenza si scatena oggi a Roma contro i sostenitori della liturgia tradizionale. Resta il fatto che questo appello al dialogo, alla comprensione e alla fraternità è prima di tutto un appello alla coerenza rivolto ai sostenitori dell’ecumenismo: «La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani pone dunque prima di tutto una questione interna alla Chiesa cattolica. Il processo sinodale che sta iniziando ci invita ad andare oltre la verticalità, l’autoritarismo severo e il legalismo pignolo, che creano solo situazioni insopportabili e risentimenti duraturi».
Se, dunque, si è ferventi difensori dell’ecumenismo ad extra, tanto più lo si deve essere ad intra, e circondare i fratelli, non separati ma diversi, «con fraterno rispetto e carità», come richiede il decreto conciliare Unitatis redintegratio.
Certo, la tribuna di Dom Pateau, Pierre Amar, Christophe Geffroy, Gérard Leclerc, si rivolge sia agli ecumenisti che ai tradizionalisti, ed evoca la reciprocità che questo atteggiamento deve assumere. È giusto dal punto di vista della carità, che non deve mai essere dimenticata in nessuna situazione. Tuttavia, dobbiamo distinguere la situazione dell’agnello dal lupo che sta per divorarlo: è prima di tutto al lupo che dobbiamo predicare la carità!
E la coerenza del tradizionale…
Soprattutto, i difensori della liturgia tradizionale devono essere loro stessi coerenti. Spesso criticano il modo in cui è concepito il processo ecumenico. Per esempio, Christophe Geffroy, in un editoriale su La Nef nel dicembre 2016, ha chiesto che l’ecumenismo sia «un dialogo nella verità».
Ha riflettuto sul viaggio di Papa Francesco in Svezia per aprire l’anno che celebra il 500º anniversario della Riforma dei protestanti, quando Lutero affisse le sue 95 tesi a Wittemberg il 31 ottobre 1517.
Christophe Geffroy ha parlato del cosiddetto «dialogo della vita», in cui si dice: «Poiché la dottrina ci separa, mettiamola da parte e vediamo invece cosa ci unisce». Ha continuato: «Il processo può essere accettabile a condizione che coloro che vi si impegnano siano consapevoli della realtà delle differenze dottrinali, il che rende possibile concentrarsi sulle cose concrete della vita che ci uniscono. Così va letta la “dichiarazione congiunta” del 31 ottobre 2016 a Lund di Papa Francesco e del vescovo luterano Munib Younan. È infatti significativo che non affronti nessuna questione sostanziale (tranne un versetto sull’intercomunione che afferma solo di voler “progredire”) e rimanga a livello di generalità».
E il direttore de La Nef afferma: «Il dialogo ecumenico è necessario, ma deve essere fatto nella verità». Per fare questo, bisogna guardarsi dal «rifiutare la realtà [che] può solo portare alla disillusione, e alla fine a sabotare ciò che si pretende di costruire – costruire sulla sabbia e non sulla roccia…».
Non si può che essere d’accordo e applicare il dialogo «ecumenico» che Christophe Geffroy auspica tra i cattolici favorevoli alla nuova liturgia e i cattolici attaccati alla liturgia tradizionale. Devono essere consapevoli, e dirsi in tutta sincerità, in tutta verità, e naturalmente in tutta carità, ciò che separa le loro pratiche liturgiche. Mille volte i tradizionalisti hanno spiegato, ma un dialogo sereno permetterebbe loro di farlo ancora una volta, che non è per ragioni sentimentali che sono attaccati alla Messa tridentina, ma per serie ragioni dottrinali. Sentiranno volentieri i loro «partner» nel dialogo liturgico spiegare che la nuova liturgia è più partecipativa. Al che si risponderà che la liturgia tradizionale conosce la partecipazione dei fedeli, ma che l’eccesso di partecipazione a cui la nuova liturgia dà luogo erode il senso del sacerdozio gerarchico. Spiegheranno, da parte loro, che la nuova Messa, che voleva sostituire la Messa tradizionale, procedeva a indebolire considerevolmente la teologia del sacrificio eucaristico, quella della presenza reale e quella del sacerdozio gerarchico. Ecc. ecc.
E chiederanno prima di tutto, caritatevolmente, persino affettuosamente, che sia loro permesso di pregare ecumenicamente secondo la liturgia tradizionale della Chiesa di Roma.
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Tribune in La Croix del 19 gennaio 2022 - Guerra liturgica: «Invece di accusarci a vicenda di presupposti ideologici, e se ci ascoltassimo a vicenda?»
In occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, quattro personalità cattoliche fanno appello alla «stima reciproca» tra i cattolici attaccati alla forma antica della liturgia e gli altri. Ci invitano a «prendere in mano» la fraternità a cui i cristiani sono chiamati.
«Promuovere il ripristino dell’unità tra tutti i cristiani è uno dei principali obiettivi del Concilio» (1). Queste furono le prime parole del decreto sull’ecumenismo del Vaticano II. Da allora, abbiamo imparato il metodo: il dialogo, l’ascolto dell’altro, la valorizzazione dell’altro. Accettare le differenze a volte, non negarle. Pregare spesso insieme. Abbiamo imparato che l’ecumenismo è affettivo prima di essere dogmatico o giuridico. Abbiamo anche capito che l’unità dei cristiani è vitale per la credibilità stessa del Vangelo. «Dal vostro amore reciproco sarete riconosciuti come miei discepoli» (Gv. 13, 35).
Forse Benedetto XVI aveva questo in mente quando ha voluto mettere fine alla divisione interna tra i cattolici sulla liturgia nata dal Concilio. Piuttosto che argomenti giuridici o dogmatici, ha proposto un dialogo. Dovremmo “arricchirci a vicenda”. Questo significava porre fine alla guerra liturgica fratricida che aveva così diviso le comunità cristiane. D’ora in poi, ci ha chiesto di ascoltarci, di dialogare. L’abbiamo fatto? Certamente non abbastanza. A volte abbiamo vissuto fianco a fianco come estranei, sostituendo l’arricchimento fraterno con l’ignoranza reciproca. Oggi ne stiamo pagando il prezzo.
Una forma di guerra interna
È necessario rinunciare a questa ricerca della pace liturgica? Siamo ridotti all’uniformità liturgica come unico mezzo di unità? La questione è più seria di quanto sembri. Perché apre anche una forma di guerra interiore. È essenziale essere in pace con il nostro passato per andare avanti. Se non siamo in grado di vivere in pace con la forma precedente della liturgia, allora stiamo installando la guerra nel cuore di quello che dovrebbe essere il sacramento dell’unità umana con Dio e tra di noi.
La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è dunque prima di tutto una questione interna alla Chiesa cattolica. Il processo sinodale che sta iniziando ci invita ad andare oltre la verticalità, l’autoritarismo severo e il legalismo pignolo, che creano solo situazioni insopportabili e risentimenti duraturi.
Presupposti ideologici
Che ne dite di un dialogo? Piuttosto che accusarsi a vicenda di presupposti ideologici, piuttosto che attribuire all’altro intenzioni non riconosciute o rinchiuderlo nella sua storia, e se ci ascoltassimo a vicenda? Scopriremmo affetti feriti, cuori umiliati da entrambe le parti. Sì, gli anni ’60 e ’70 sono stati talvolta segnati da una politicizzazione e radicalizzazione delle posizioni ecclesiali (soprattutto liturgiche) che ha creato tensioni. Sì, entrambi abbiamo ereditato atteggiamenti culturali e sociologici che devono essere purificati alla luce del Vangelo. Ma come si può fare? Scagliando anatemi gli uni contro gli altri: modernisti! Integristi! Maurrassiani! Progressisti! La verità verrà fuori meglio? Proibendo per regolamento la pubblicazione degli orari della messa? Si è mai visto un tale metodo contribuire alla carità e all’unità?
Al contrario, la moltiplicazione delle proibizioni crea il fascino e il desiderio di trasgressione tra le giovani generazioni di chierici e laici. Bisogna ricordare che le condanne romane di Lubac e Congar hanno contribuito a farli leggere nei seminari, ma non hanno rafforzato la fiducia nell’autorità romana. Inoltre, moltiplicando le misure vessatorie di dettaglio contro la vecchia liturgia, si corre il rischio di perdere l’essenza della riforma liturgica voluta dal Concilio, racchiudendola in un nuovo rubricismo giuridico e autoritario piuttosto che aprirla alla partecipazione del popolo di Dio.
Preghiamo gli uni per gli altri
E se avessimo il coraggio di pregare tra di noi? Certamente, tutti dovrebbero prendere dei provvedimenti. Ma allora sarebbero fatti per amore e non per costrizione. L’ecumenismo non è una questione di diplomazia e di abilità. È prima di tutto un atteggiamento spirituale. Quindi apriamo le porte. Ai sostenitori dell’antica liturgia, quando possono per amore e non per obbligo legale, di osare sperimentare la concelebrazione, la bella ricchezza biblica dei lezionari del Novus Ordo.
Spetta ai praticanti della liturgia rinnovata dopo il Concilio lasciarsi disturbare con gioia da quelle comunità che celebrano il Vetus ordo e portano bei frutti di missione. Siamo costretti a competere tra di noi? La fraternità è impossibile? Chissà che le nostre parrocchie non traggano beneficio dal celebrare di tanto in tanto in Oriente o dall’utilizzare l’antico testo dell’offertorio?
Un cuore benevolo
Visitiamoci l’un l’altro! Passiamo gentilmente una domenica in casa di qualcuno che celebra lo stesso Signore con riti diversi dai nostri. Forse saremo offesi da questo o quel modo di fare le cose. Ma se il nostro cuore è gentile, scopriremo semi della Parola che noi stessi abbiamo dimenticato.
La pace liturgica nella Chiesa non può essere raggiunta finché una parte continua a gettare sospetti sulla Messa dell’altra parte.
Poiché il Papa ce lo chiede, spetta a tutti noi, vescovi, sacerdoti e laici, prendere in mano questa fraternità dal basso, invece di aspettare i decreti per regolarla. Il rischio dell’unità ci è affidato dal Papa. E se avessimo il coraggio di prenderlo in mano? E se avessimo il coraggio di allungare la mano?
[1] Vaticano II, decreto Unitatis redintegratio, 1.
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