Un'interessante riflessione sul grande santo e liturgo.
Luigi
La Nuova Bussola Quotidiana, Aurelio Porfiri, 03-09-2021
San Gregorio Magno fu un faro nella storia della Chiesa tra il VI e il VII secolo. Si possono individuare tre motivi particolari per amarlo in modo speciale, cioè: il canto gregoriano, così chiamato in suo onore; la cura della schola cantorum (che stride con le derive odierne); la comprensione del retto significato dell'inculturazione.
I Papi hanno tutti qualcosa di speciale per essere ricordati dai fedeli, anche coloro che sono stati meno edificanti hanno in qualche modo contribuito all’istituzione del Papato. Pensate allora come dobbiamo guardare con ammirazione a quei Pontefici che ci vengono indicati come santi, primo fra tutti quel Gregorio Magno che tra sesto e settimo secolo fu un faro nel cammino tempestoso della Chiesa, un baluardo della dottrina cattolica e della sua retta interpretazione. Voglio offrire tre motivi per amare in modo speciale questo santo, che si festeggia oggi, 3 settembre.
1) Il canto “gregoriano” viene così chiamato in onore di san Gregorio Magnoanche se è un’attribuzione più che altro onorifica, in quanto il repertorio verrà compilato dopo questo grande Pontefice e alcuni musicologi presuppongono che sia Gregorio II a cui si riferirebbe il nome, non Gregorio Magno). Esso è un tesoro di tutta la Chiesa, non solo di coloro che vanno alla Messa tradizionale (finché possono…). È modello per tutta la musica liturgica, offre un’idea di come le nuove forme debbano conformarsi ad un’idea di musica sacra che sposi la liturgia in bellezza. Questo è tanto vero che san Pio X nel 1903 stabiliva il famoso principio: “Il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”. Parole di grande saggezza che sono state completamente disattese.
2) San Gregorio Magno, secondo la tradizione, curava molto la sua schola cantorum. Questo non significava soltanto vigilare per far sì che il canto sacro fosse degno del Tempio, ma anche istruire quei ragazzi che sarebbero stati i sacerdoti e, chissà, i Papi di domani. Chi potrà sorvolare sull’importanza della formazione? Eppure alcuni usano la propria preparazione in materia liturgica per tenere fuori gli intrusi dal recinto in cui possono continuare a tenere in piedi le proprie fisime intellettuali senza essere disturbati. Per alcuni liturgisti la scientia liturgica è un sapere quasi gnostico di cui pochi eletti posseggono il giusto intendimento e che non va discusso ma soltanto accettato inchinandosi al “super dogma” dell’evento del Concilio che non è il raduno dei Vescovi sotto il Pontefice tra il 1962 e il 1965 ma un accadimento quasi metafisico che ha ridefinito la Chiesa allontanandola da sé stessa.
3) Gregorio Magno capì veramente cosa significhi inculturazione. Quando sant’Agostino di Canterbury, evangelizzatore dell’Inghilterra, gli chiese come si dovesse comportare con certi usi che aveva trovato in quelle terre, il Papa gli disse di tenere ciò che era buono perché comunque lui era stato educato alla tradizione di Roma. Il Papa mostrò una saggezza veramente cattolica, in quanto chi ha i piedi saldamente nella tradizione può non aver paura delle novità, in quanto esse poggeranno su una sapienza che si estende era dopo era. Il nuovo senza tradizione è esperimento pericoloso e, come il presente doloroso della liturgia ci insegna, destinato a fallimento.
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