Ricordiamo che l'estensore del testo è un sacerdote che celebra di norma il NOM.
Luigi
Lettera di Paix Liturgique n.128 del 22 Settembre 2021
LETTERA DI DON PELLABEUF AL SOVRANO PONTEFICE PER L'ABROGAZIONE DI «TRADITIONIS CUSTODES»
Se ho deciso di pubblicare questa lettera, quando numerose voci si sono espresse in merito a Traditionis Custodes, è perché, in generale, coloro che si rammaricano della pubblicazione di questo motu proprio utilizzano abitualmente il vecchio messale. Ora io utilizzo quotidianamente quello nuovo, non avendo celebrato messa col vecchio che in rarissime occasioni.
Per di più, è proprio in nome del Vaticano II che io chiedo che Traditionis Custodes venga abrogata, benché il Sovrano Pontefice l’abbia pubblicata affermando di voler promuovere l’accettazione di tale concilio: ma il nuovo messale non corrisponde a ciò che i Padri Conciliari dicevano della riforma liturgica ch’essi invocavano speranzosi.
Inoltre, benché ciò appesantisca l’argomentazione, ho voluto praticamente ad ogni passo indicare in quale modo io sia coinvolto nelle discussioni liturgiche in corso.
Don Bernard Pellabeuf
Nella festa di Santa Maddalena
Lettera aperta
Summo Pontifici Francisco Papae
Santità,
il bene della Chiesa ed il Suo sono inseparabili ed è per l’uno e per l’altro che io Le scrivo. Filialmente Le suggerisco di abrogare il Motu Proprio «Traditionis Custodes» e lo faccio in spirito di fedeltà al Concilio Vaticano II. Poiché è falso affermare che il messale promulgato da San Paolo VI sia quello voluto dai Padri Conciliari.
Io La considero in quanto Sovrano Pontefice, il Vicario di Cristo, il successore di Pietro. Lei ha diritto non soltanto al mio rispetto, ma anche al mio affetto ed io certo non intendo negarGlieli.
Aderisco pienamente all’insegnamento di S. Ignazio, che non dubito esser caro al Suo cuore: se vedo alcunché di bianco e la Chiesa mi dice ch’è nero, io mi schiero con l’opinione della Chiesa. Evidentemente però questo suppone che la Chiesa non si contraddica. In effetti, se la Chiesa dicesse «ieri ho detto ch’era nero, ma oggi dico che anche ieri era bianco», sembrerebbe di conseguenza ch’io sia stato stupido ad aderire a quanto la Chiesa dicesse ieri e non ho più, di conseguenza, alcuna ragione per aderire a ciò ch’essa potrebbe dire in futuro. Io parlo qui, certamente, di ciò che non può cambiare, specialmente il dogma e la morale. Le scrivo colmo di questo spirito di fedeltà alla Chiesa.
So che Traditionis Custodes è un documento disciplinare e pastorale, dunque fallibile; ma riguarda la comunione ecclesiale e la fedeltà al Vaticano II e riveste dunque un’importanza capitale. E ciò che concerne la liturgia è spesso molto legato al dogma.
La morale, sancita in questo dal diritto canonico, fa obbligo al subordinato di dare il suo parere al superiore, qualora il subordinato pensi che questi si inganni in materia grave. Se lo faccio tramite una lettera aperta, è da una parte per evitare che qualche cortigiano vada a dire, nel caso la pubblicassi, che pubblico la corrispondenza privata del Papa, come si è tristemente constatato quando dei cardinali hanno pubblicato il testo dei loro dubia. Questa lettera è pubblica.
Perché, vede, Santità, credo di avere dei doveri verso i fedeli, che intendono ricorrere a modalità più tradizionali per andare a Dio. Infatti, è noto ch’io sia stato tra i primi seminaristi di mons. Lefebvre, quando ha cominciato la sua opera a Friburgo, in Svizzera. Molti, oltre cinquant’anni dopo i fatti, me lo rimproverano ancora e mi sospettano d’integralismo: ciò è stupido. Perché, va ricordato, Monsignor Lefebvre ha cominciato con tutte le autorizzazioni necessarie; ed è praticamente solo all’età di vent’anni che ho pensato di dover lasciare quest’opera. Presentivo ch’essa andasse più lontano di quanto fosse auspicabile, specialmente sulla questione del messale. Ma io non ho mai abbandonato i valori, cui i membri della Fraternità San Pio X tenevano legittimamente. Per fare solo un esempio, all’epoca della condanna dell’opera di Monsignor Lefebvre, nella maggior parte delle diocesi francesi si dissuadevano i preti dal portare l’abito ecclesiastico: il Codice del 1983 ha dimostrato che Monsignor Lefebvre aveva ragione in questo; ed aveva ragione anche su molti altri punti. Faccio in modo di non perdere mai alcuna occasione di dialogo con gli eredi spirituali di Monsignor Lefebvre, nella speranza di un ritorno alla piena comunione con Lei e con tutta la Chiesa e, se non prendessi la parola pubblicamente nelle circostanze presenti, la mia partecipazione a questo dialogo parrebbe menzognera.
Devo pertanto precisare la mia posizione sulle questioni controverse tra la Chiesa ed i cosiddetti lefebvriani. Io aderisco pienamente al Concilio Vaticano II, in quanto concilio pastorale, cioè, a mio avviso, un concilio destinato a porre la Chiesa nell’ordine dell’evangelizzazione. Questo Concilio è buono, ma non esente da critiche: la Chiesa lo ha riconosciuto quando, nel suo dialogo con la Fraternità San Pio X, ha affermato che tali critiche dovessero essere costruttive. Ad esempio, io aderisco all’intento di Dignitatis Humanae, ma penso che la presentazione e la base dell’argomentazione nuocciano a quest’intenzione.
Allo stesso modo sostengo che il messale detto di Paolo VI è perfettamente valido e legittimo; affermo a fronte dei tradizionalisti che una riforma del vecchio messale fossa necessaria e, poiché sostengono che il messale detto di San Pio V fosse una garanzia di ortodossia, faccio con loro valere il dover essere sensibili al fatto che i Padri Conciliari, che utilizzavano tutti (a parte gli Orientali) il predetto messale, avessero considerato necessaria una riforma. Ed è sulla base della mia esperienza di 43 anni di sacerdozio che posso affermare come il messale recente sia un autentico mezzo di santificazione. Tuttavia, concedo ai lefebvriani ch’esso non sia esente da critiche e lo faccio sulla base del Vaticano II. In effetti, non lo si è abbastanza evidenziato, il messale promulgato da San Paolo VI non segue le raccomandazioni del paragrafo 23 di Sacrosanctum Concilium, particolarmente questa:
non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti.
Questo passaggio di Sacrosanctum Concilium è fondamentale, poiché ciò che dice si radica in uno dei primissimi principi della scienza liturgica, richiamato con forza dal Suo venerato predecessore, Papa Benedetto XVI: la liturgia si riceve, non si costruisce. E questo stesso principio discende dall’atteggiamento di San Paolo: «vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto». È una lezione di profonda saggezza quella data dai Padri Conciliari, valida per qualsiasi riforma liturgica in qualsiasi epoca essa si collochi. Se i riformatori della liturgia fossero stati ricettivi nei confronti di questa lezione, senza dubbio non vi sarebbero stati dissensi in merito al messale; in ogni caso, tali dissensi non avrebbero avuto la portata che conosciamo. Purtroppo, però, nel messale promulgato da San Paolo VI, l’offertorio o il lezionario, tanto per fare due esempi, non sono conformi a questa esigenza.
È questo il motivo per cui non si può che concordare con Benedetto XVI quando ha affermato la necessità di una «riforma della riforma». Rifiutarla significa respingere un punto fondamentale del Vaticano II. Per quanto io possa discernere, Benedetto XVI ha visto come questa riforma della riforma non potesse arrivare per decreto, voleva che giungesse da un’influenza reciproca – o un mutuo arricchimento – tra le due forme del messale, l’una con l’altra. Qui è stato mal interpretato. Gli uni dicevano che voleva un ritorno puro e semplice alla vecchia forma e che, se aveva parlato di reciprocità, era per ragioni diplomatiche; gli altri affermavano al contrario che ciò che voleva era la scomparsa graduale del vecchio messale e che, se non lo diceva apertamente, era per ragioni diplomatiche opposte (in particolare, il suo auspicio di una riconciliazione con la Fraternità San Pio X). Queste supposizioni sono assolutamente contrarie a quanto si sa circa la grandissima semplicità di cuore del Suo predecessore, che non aveva nulla del furbo, come credo che si dica nella Sua lingua madre.
Come potrebbe dunque aver luogo questo indispensabile arricchimento reciproco, se uno dei due messali venisse accantonato, così come Lei vuole che sia? Finché non si sarà arrivati ad un messale conforme ai desideri dei Padri Conciliari, è indispensabile che permanga senza intralci anche l’uso del vecchio messale. Da qui la necessità di abrogare Traditionis Custodes. Non ci si può dire del Vaticano II ed approvare senza riserve il messale recente, così come non ci si può dire del vetus per contestare la validità delle riflessioni dei Padri Conciliari sulla necessità di una riforma del messale, ch’essi utilizzavano.
Temo che in tutto questo si confonda l’unità con l’uniformità. Ci fu un tempo in cui la Chiesa esisteva solo, nell’ambito occidentale, in un mondo pressoché omogeneo culturalmente. Ma oggi, anche in Occidente, si ha a che fare con il multiculturalismo. Non è stato abbastanza valutato il cambiamento operato e di cui una delle componenti principali è il passaggio da una cultura della trascendenza ad una cultura dell’immanenza. Queste due culture danno origine a due distinte spiritualità. Poiché Dio è trascendente e immanente, non c’è ragione di preoccuparsi del passaggio da una spiritualità della trascendenza ad una spiritualità dell’immanenza: semplicemente bisogna rimanere entro limiti ragionevoli ed, in particolare, ricordarsi che in una spiritualità dell’immanenza è più difficile avere il senso del sacro – e giustamente Benedetto XVI ha denunciato una certa perdita del senso del sacro. Il sacro è però costitutivo della nostra religione. Lo vedo come una necessità derivante dal fatto che, pur essendo l’ordine soprannaturale il prolungamento dell’ordine naturale, esso si colloca tuttavia in un piano totalmente altro: è sacro ciò che, preso nell’ordine naturale, viene considerato, per natura o per convenzione, tale da consentire l’accesso all’ordine soprannaturale.
In tale contesto è stato generalmente commesso un duplice errore. Da una parte, senza dubbio poiché numerosi ecclesiastici aderirono all’ideologia del progresso, si è pensato che questo passaggio da una mentalità all’altra fosse necessariamente un bene. D’altra parte, conformemente a ciò, si è voluto imporre tale cambiamento a tutto. Non vi sono forse numerose dimore nella casa del Padre? L’unità non è l’uniformità. Il pluralismo dei riti nella Chiesa deve indurci alla prudenza: se la Chiesa ha saputo, nel corso dei secoli, adattarsi a diverse culture, essa deve continuare a farlo anche oggi. Essa deve cristianizzare le culture, non imporle.
Mi dispiace quindi che nel Suo motu proprio e nella lettera ai vescovi che l’accompagna, i fedeli legati al vecchio messale sembrino condannati senza essere stati ascoltati e senza che si sia loro lasciato il tempo, in un contesto di dialogo, di riconoscere la validità propria del Vaticano II e del nuovo messale – almeno con coloro che potrebbero dubitarne ancora. Non è stata data sufficiente importanza al dialogo con i tradizionalisti. Ne ho avuto prova allorché, pur sapendomi loro vicino, mai in nessuna delle numerose diocesi ove ho servito, mi è stato chiesto alcunché in merito.
Pare dunque alquanto dannoso punire tutta una comunità per gli errori presunti di alcuni dei suoi membri. Si ricordi Mambré: «Vuoi far morire l’innocente con l’ingiusto?», dice Abramo a Dio e questi approva l’argomentazione. Perché ridurre le possibilità d’utilizzo del vecchio messale col pretesto che alcuni, che vi sono legati, sono mossi da cattivi sentimenti, appare necessariamente come una punizione. In breve, poiché Lei dice d’aver agito per rispondere alla richiesta di alcuni vescovi, bisogna riconoscere che questi non appartengono alla parte sanior dell’episcopato cattolico.
D’altronde, Santità, Lei accetterebbe il ragionamento seguente? Consisterebbe nel ritener opportuno limitare l’uso della lingua volgare nella liturgia in quanto taluni suoi fedeli hanno cattivi sentimenti ad esempio riguardo l’Humanae Vitae o riguardo l’insegnamento della Chiesa sull’impossibilità d’ordinare le donne ed in quanto essi criticano l’uso del latino nella liturgia, opponendosi così, pure in questo, alla Sacrosanctum Concilium (Perché i Padri del Vaticano II furono costanti nel voler continuità sia circa l’uso della lingua liturgica dei riti latini sia circa la riforma dei libri liturgici). Questo ragionamento, io non posso ammetterlo, ed ancor più non posso ammettere il Suo, che è simile.
È stata seriamente valutata la proporzione di questi detrattori del concilio o del nuovo messale tra i sacerdoti legati alla forma extraordinaria del messale romano? Non si accetta sin troppo facilmente un’accusa contro il vetus? In proposito San Paolo mise in guardia San Timoteo.
Inoltre, i vescovi, che Lei ha consultato e che Le han parlato di una «chiusura» da parte di alcuni membri degli istituti Ecclesia Dei, sono tutti affidabili in materia? In questo momento abbiamo il caso in Francia di un vescovo, che sta cacciando uno di questi istituti dalla propria diocesi, in quanto i preti di detto istituto si rifiutano di concelebrare. Ora, è in contraddizione con la natura stessa della concelebrazione il fatto che si cerchi di renderla obbligatoria: infatti, essa suppone nel concelebrante la volontà di compiere un’azione sola con quella del celebrante, cosicché la minima riluttanza nei confronti della concelebrazione, giustificata o meno, vizia la volontà di compiere un atto solo con quello del celebrante. Si dice talvolta che la caratteristica propria dell’integralista è quella d’imporre a tutti ciò che dovrebbe restare facoltativo o oggetto di un’adesione libera: seguendo tale concezione, nel caso di cui ci occupiamo, l’integralista non è il tradizionalista, ma il vescovo stesso; d’altronde, gli ho scritto diverse settimane fa e spero che una risposta da parte sua confuti in parte ciò che ho detto sopra circa una carenza di dialogo in merito a quanto attualmente ci preoccupa. La «chiusura» è più diffusa di quanto non sembri, nessuna delle due parti ne ha il monopolio.
Inoltre, ho parlato più sopra di coloro che condannano l’uso del latino nella liturgia, in contraddizione col Vaticano II: questi sono numerosi tra i vescovi francesi; per questo ci si può chiedere se siano per Lei i migliori consiglieri in fatto di liturgia. Uno di loro mi ha anche scritto un giorno: «è male per il popolo pregare abitualmente in una lingua, che non sia la propria». Prima di tutto, bisogno respingere l’idea che la lingua liturgica di un popolo non sia la «propria» lingua: diremmo che il copto non è la lingua… dei Copti, per l’appunto? Il latino è una delle lingue dei popoli di rito latino. Ma, soprattutto, quale orgoglio sottende la riflessione di questo vescovo! Così per lui i papi ed i vescovi si sono sbagliati per quindici secoli, facendo pregare le loro genti in latino, invece lui, questo vescovo, avrebbe capito tutto meglio di loro! È questo tipo di atteggiamento che mi fa dire, come ho fatto più sopra, che i seguaci dell’ideologia del progresso sono numerosi tra gli ecclesiastici: a causa del progresso noi saremmo necessariamente in grado di capire meglio la stessa Rivelazione rispetto a chi ci ha preceduti. D’altronde l’orgoglio istupidisce: il vescovo in questione ha proseguito: «Non sono il solo a pensarlo, poiché il papa, quando viene in Francia, dice la messa in francese».Si era sotto San Giovanni Paolo II. È il livello zero della logica, è come se avesse scritto: «la prova che il papa è contrario alla bicicletta sta nel fatto che scia». Dire la messa in francese non significa essere contrari al fatto che venga detta in latino! È a causa di questo genere di atteggiamenti che io dubito della qualità di certi vescovi per consigliarLa in materia. Lei ha ragione di dire ch’essi sono per natura i custodi della tradizione, ma io ho constatato che molti ne sono, in realtà, i becchini.
Voglio darLe un altro esempio. Il Suo predecessore Benedetto XVI sosteneva che le traduzioni liturgiche non sono il luogo dell’adattamento. Ci sono diverse ragioni per questo: da una parte, ciò è da mettere in relazione al fatto che la liturgia non viene inventata, ma ricevuta e, d’altra parte, i testi liturgici dipendono dalla Tradizione, dunque dalla Rivelazione, benché si debba riconoscere che certi testi sono più ricchi di altri quanto a contenuti teologici. Non spetta a nessuno modificare la Rivelazione. Sostenendo il punto di vista del Papa, nel 2011, in occasione del decimo anniversario della Liturgiam authenticam, avevo criticato le traduzioni liturgiche in lingua francese in vigore all’epoca: si era ufficialmente preteso ch’esse fossero degli adattamenti, così da poterne ricavare i diritti d’autore, e non opera di semplici traduttori. Tre vescovi hanno allora preteso di aver diritto ad una risposta sprezzante e bugiarda. Così io aveva fatto notare come uno dei difetti di queste traduzioni fosse il ridimensionamento del ruolo proprio del sacerdote nella messa; essi hanno risposto «che ci sembra si ignori che anche i fedeli offrono il sacrificio» - ma se si parla di un ruolo proprio del sacerdote, è proprio perché si sa che anche altri, oltre al prete, hanno un ruolo! Quindi vede, Santo Padre, io non posso riporre alcune fiducia in certi vescovi come custodi della Tradizione e circa il consigliarLa in materia. Del resto essi affermavano che, nel caso le traduzioni fossero da rifare, ciò non dipendesse dal fatto che le precedenti fossero cattive, bensì dall’evoluzione della lingua francese: sarebbe alquanto difficile per loro giustificare con qualche cambiamento della lingua la maggior parte delle differenze tra la vecchia traduzione del messale e quella che ci si appresta a pubblicare.
A questo proposito bisogna considerare che il legittimo adattamento nelle traduzioni, di cui Lei aveva fatto inserire menzione nel diritto canonico, non può che riguardare quanto richiesto dall’inclinazione della lingua verso cui si fa la traduzione ed assolutamente non il senso del testo. Se degli adattamenti erano stati fatti allo scopo di trarre profitto dai testi sacri, allora si sarebbe di fronte ad un caso di simonia palese. Sarebbe quindi un onore per Lei e per il Suo pontificato fare in modo che in futuro la Chiesa sia al riparo da qualsiasi sospetto al riguardo; la soluzione è semplice, è sufficiente legiferare affinché i testi utilizzati nella liturgia siano liberi da diritti non appena coperti i costi delle traduzioni, ed affinché, qualora ciò richieda più di un certo tempo da stabilirsi, allora si dovrebbero presentare i conti alla Santa Sede. Ciò richiederebbe ai Suoi collaboratori ben poco tempo, al punto che, se questa riforma non avesse luogo, questa sarebbe una macchia sulla veste della Chiesa.
Ed anche, quale credito va accordato ai risultati dell’inchiesta? Lei aveva chiesto se elementi della vecchia liturgia fossero passati in quella nuova, dopo il Summorum Pontificum. Vorrei dapprima fare un’osservazione in proposito. Molti dei sacerdoti, che avrebbero voluto adottare alcuni di detti elementi, ne sono stati impediti a causa del loro rispetto delle norme liturgiche: nessuno ha il diritto di cambiare di propria testa qualcosa nella liturgia. Ho anche sentito un prete dire, a proposito del tenere unite le dita, che hanno toccato l’ostia consacrata: «se le norme non dicono che lo si deve fare, è perché non bisogna farlo». Quanto a me, visto che Lei ha posto una simile domanda, io ho capito che la Chiesa permetteva di prender a prestito dalla vecchia liturgia, così ho adottato alcuni usi della vecchia modalità: così estendo alle altre preghiere eucaristiche l’inchino previsto nel canone romano durante l’epiclesi che segue la consacrazione, faccio la genuflessione dopo il Per Ipsum, prima del Pater, traccio una croce orizzontale al di sopra del calice prima di lasciarvi cadere il frammento di ostia, ecc.
È ora opportuno osservare che, per rispondere alla Sua domanda, i vescovi avrebbero dovuto interrogare ampiamente i loro sacerdoti. Ma da nessuna parte ho sentito parlare di una simile consultazione. Si può pertanto avanzare dei dubbi almeno su una parte dei risultati dell’inchiesta.
Faccio dunque appello al Suo senso pastorale e paterno. Le comunità legate al messale di San Giovanni XXIII hanno già molto sofferto; esse sono state spesso oppresse e, se in questa lettera mi sono soffermato un po’ troppo sul mio caso personale, è per sostenere quest’idea, che i tradizionalisti sono stati spesso perseguitati, disprezzati, respinti: perché dei confratelli han fatto passare me, che ho adottato gli usi postconciliari, per un’integralista non solamente presso vescovi, bensì persino presso le autorità laiche da cui dipendevo, ostacolando così il mio ministero: in certi ambienti ecclesiastici, era sufficiente portare il colletto romano o recitare il breviario in latino per finire sotto inchiesta. Se sono stato maltrattato io, quanto più i fedeli legati alle forme precedenti della liturgia lo sono stati? Le domando pertanto rispettosamente di non aggiungere sofferenza a sofferenza.
Si può inoltre farLe notare che, se la Sua volontà è veramente quella di non lasciare che si parli male del Vaticano II e del nuovo messale – e chi ne dubiterebbe? -, allora il Suo motu proprio è assai goffo: se i fedeli legati alla forma extraordinaria del messale non possono più trovarla facilmente presso coloro che sono nella piena comunione con Lei e con la Chiesa, molti di loro andranno a cercarla presso i luoghi di culto della Fraternità San Pio X ed io non ho ragione di credere che là si dica loro molto bene di ciò che Lei intende difendere, Vaticano II e messale recente. Il Suo Motu Proprio aggrava pertanto i mali, che intende combattere. Come vede, non è solo in nome del Vaticano II che si deve criticare il Suo recente motu proprio, è in nome del semplice buon senso: Lei è stato molto mal consigliato.
Prima di concludere, desidero ringraziarLa dal profondo del cuore d’aver richiamato l’importanza del rispetto delle norme liturgiche. Anche in questo caso, ho ragioni personali per farlo, oltre alle ragioni che qualunque prete può avere. Poco dopo la mia ordinazione, si è voluto farmi dire la messa diversamente dalle norme del messale ed, avendo io rifiutato, si è fatto di me un paria condannato al vagabondaggio. Grazie, dunque, Santità! Che Lei possa nominare vescovi convinti di questa necessaria obbedienza alle leggi liturgiche e punire coloro che in ciò manchino gravemente!
Le assicuro le mie preghiere frequenti e La prego di gradire, Santo Padre, l’espressione di tutti i miei sentimenti filiali.
Don Bernard Pellabeuf
Va bene, in un certo senso, ma è un po' patetico, soprattutto nel cercare di rifarsi al Vaticano II.
RispondiEliminaE' vero che la grande maggioranza dei Padri conciliari non voleva cambiamenti nel Rito della S. Messa, ma è verissimo peraltro che l'intenzione degli estensori di 'Sacrosanctum Concilium' era quella di innovare in senso neomodernista. Tant'è vero che il famigerato perito conciliare Edward Schillebeeckx O.P. affermò senza esitazioni che quel documento conciliare era "un capolavoro" (citato dal famoso Ralph Wiltgen, "le Rhin se jette dans le Tibre", nelle prime pagine, cito - con precisione - a memoria ma non ricordo la pagina esatta).
Poi, certo, mons. Bugnini andò molto oltre le innovazioni di quel documento, ma potè farlo perché appunto esso gli aveva aperto la via.
Comunque scrivere a Papa Bergoglio, per giunta con questi argomenti inconsistenti, è tempo perso, e tutti ormai dovrebbero averlo capito. Questo pessimo Papa non torna mai indietro dalle sue perverse decisioni: lo abbiamo già visto con il caso di Amoris laetitia e dei famigerati inserti ad esso collegati e fatti da lui pubblicare negli Acta Apostolicae Sedis, a dispetto di tutte le 'suppliche' e dichiarazioni dottrinali (peraltro anche da me firmate) che gli erano state rivolte.
Quindi non resta che IGNORARE COMPLETAMENTE I SUOI ATTI E DOCUMENTI CONTRARI ALLA FEDE E ALLA MORALE CATTOLICHE, e procedere per la nostra strada, sicuri di fare così la piena e santa volontà di Dio.
don Andrea Mancinella