Un meraviglioso articolo di Susanna Tamaro.
Occorrerà farlo leggere alle commissioni della CEI e a certi vescovi: "I cubici ecomostri, le astronavi, le vele cementizie, i campanili siderurgici che, come un malefico cancro, ormai popolano il nostro Paese umiliando, con la loro aggressiva bruttezza, non solo i credenti ma chiunque vi passi anche casualmente accanto, ci parlano della cecità spirituale dei progettisti e dell’ancora più grave cecità dei committenti".
Anche per questo MiL ha deciso di fare una rubrica (QUI), arrivata alla 21° puntata, al lunedì, degli orrori architettonici delle chiese moderne sparsi per l'Italia e il mondo.
Luigi
Per la fede c’è bisogno di chiese belle
Corriere della Sera, 7-2-21
Tanto nella prima ondata del virus abbiamo trovato la forza di reagire, ricavando anche una benefica pausa nella frenesia dei giorni, altrettanto questa seconda ondata ci ha spinto nell’inerzia di una rassegnata depressione.
I media popolati di aruspici che lanciano i loro vaticini contrastanti senza alcuna sensibilità né rispetto per il sentire comune, le maledizioni crescenti — durerà 18 mesi, i vaccini non funzioneranno, ci sarà sicuramente la terza ondata — la povertà che si allarga a macchia d’olio, l’incertezza del futuro ci avviliscono, paralizzando la nostra già scarsa energia vitale. Siamo tutti sempre più sfiduciati e tristi e la tristezza del cuore, perché non dirlo, è la via maestra per spalancare la porta ad ogni tipo di malattia.
Siamo schiacciati dal nostro destino, non riusciamo a vedere nessuna luce di speranza all’orizzonte. In fondo non siamo molto diversi da Atlante costretto a portare sulle spalle il Cosmo. Mentre lui guardava a terra noi, nella stessa posizione, scrutiamo ossessivamente i nostri apparecchi elettronici cercando una qualche forma di sollievo all’invisibile peso che ci curva la schiena.
Qual è il peso che opprime con sempre più sottile potenza la nostra vita di Sapiens moderni? È la mancanza di una dimensione trascendente. Siamo figli del Caso e schiavi del Tempo, e questa condizione ci costringe ad assumere sulle nostre spalle tutto il peso del mondo. Siamo noi responsabili di ogni cosa, tutto è nelle nostre mani, e non potrebbe essere diversamente dato che la nostra esistenza, così come la vediamo, non è altro che un susseguirsi di casuali colpi di fortuna. Dicendo questo, mi viene in mente un episodio della vita di Edith Stein che, da brillantissima filosofa atea, entrò per caso in una piccola chiesa e venne folgorata dalla visione di un’anziana donna che pregava in solitudine con le borse della spesa accanto. Lì intravide un’invisibile confine: il confine del Fanum , del Luogo Sacro, un luogo sospeso nel tempo, dove era possibile raccogliersi in un qualsiasi giorno feriale ed entrare in un intimo dialogo con l’eterno. Fu l’inizio della sua conversione.
In questi anni ho viaggiato molto per l’Italia e molte volte, nell’imbattermi nella pletora di orribili chiese moderne edificate nel dopoguerra, mi è capitato di domandarmi: sarebbe mai possibile che qualcuno si convertisse qui dentro o, per lo meno, che venisse sfiorato dall’idea che, dietro il mondo materiale, ne esista un altro la cui concretezza si manifesta nel mistero della bellezza? Chi ha deciso, progettato e finanziato questi abomini architettonici si è mai domandato se avesse voluto sposarsi, assistere a un battesimo o celebrare il funerale di una persona cara in un luogo del genere? L’orrore che provo non è però un orrore intellettuale, ma un orrore che ferisce direttamente il cuore perché il brutto, il disarmonico e lo sgradevole sono la negazione stessa del trascendente.
Per questo ho letto, con gioia e sollievo Disegnare il sacro , un piccolo ma importante libro di Christiano Sacha Fornaciari, edizioni Lindau. L’autore è specializzato in architettura e arte per la liturgia, ma non è un libro per specialisti quanto piuttosto un conforto per le anime profondamente turbate, come me, dal proliferare incontrollato di tanta architettonica sciatteria.
Una decina di anni fa, tormentata da questo rovello, ho chiesto a un importante cardinale con il quale mi trovavo a cena quali fossero le ragioni di questa abominevole deriva che, in un Paese come il nostro, fa particolarmente male data l’enorme quantità — dalle pievi, alle cappelle, alle cattedrali — di meravigliose chiese edificate nel corso della storia. Si è trattato, mi spiegò, di una tendenza nata negli anni Sessanta con il boom economico, con l’edificazione di nuovi quartieri. Si era pensato che, dato che l’uomo moderno passava il suo tempo tra fabbriche, garage e brutti edifici tirati su in fretta e furia, bisognava creare delle chiese che fossero simili al mondo che li circondava, in modo che si potessero sentire a casa, senza considerare che questi luoghi non avrebbero potuto suscitare altro che un progressivo allontanamento dalle realtà che si presentavano complementari all’orizzontalità del mondo. Se si vive circondati dalla bruttezza ovunque, per quale ragione si deve trovare il brutto nel luogo che, per antonomasia, dovrebbe parlarci della bellezza? «La chiesa — scrive Fornaciari — non dovrebbe forse testimoniare la convinzione che l’invisibile esiste e che la liturgia sia una finestra aperta sull’invisibile?... Come Dio ha ordinato il Caos dal Cosmo, creando per prima cosa la Luce, allo stesso modo, per progettare il microcosmo della chiesa, l’architetto dovrà assumere come stella polare il governo della luce, l’energia epifanica che svela l’invisibile; lo spazio liturgico cristiano deve parlare senza esitazione del trionfo della luce sull’oscurità».
Leggendo queste parole, non può non tornare in mente la ferita di tutti quei sistemi di illuminazione — dai grandi neon, ai fari alogeni puntati sui fedeli come se si trattasse di un interrogatorio di polizia — ormai imperanti nella maggior parte delle chiese. Ricordo ancora, durante un viaggio in Terra Santa, la fuga in massa di un gruppo di fedeli cattolici dalla Basilica della Natività di Nazareth a una vicina chiesa ortodossa, dove, nella penombra illuminata da candele, risuonava un canto celestiale. Com’è bello qui, mormoravano commossi da quell’atmosfera sospesa. «La chiesa — scrive ancora Fornaciari — non può essere un edificio muto. Lo spazio liturgico, come ben sapevano gli architetti del passato, è inevitabilmente uno spazio sonoro nel quale devono riverberare — potenti, chiare e articolate — la parola di Dio e le lodi del suo popolo... È il primo risuonare della Parola a trasformare le pietre e la calce nella casa di Dio, a dare inizio alla delimitazione del sacro, alla costituzione della soglia che separa dal profano, alla creazione dello spazio senza tempo dove vive l’eternità».
Fino al ventesimo secolo, ci ricorda ancora l’autore, ogni epoca ha avuto un’architettura adeguata al suo stile musicale e alla sua teologia: l’architettura romanica e il gregoriano si riflettono l’una nell’altro e «mentre il canto sale, favorito dagli archi a tutto sesto e le grandi absidi semicircolari, le fonti di luce naturale illuminano i luoghi della proclamazione della Parola». Le cattedrali gotiche, alle quali corrisponde la nascita del canto polifonico, altro non sono che «macchine acustiche atte a spezzare e distribuire lo onde sonore degli intervalli di ottava e di quinta che separano le voci gravi da quelle acute, consentendo così la perfetta propagazione del suono. Tutto nella cattedrale gotica è volto al totale coinvolgimento emotivo dei fedeli». Con il sorgere del Barocco invece prende piede «la predominanza di forme plastiche mosse, predilezione per linee curve, l’utilizzo di conformazioni planimetriche e volumi che nascono dalla giustapposizione e compenetrazione di spazi semplici che equivalgono concettualmente alla base della teoria degli armonici naturali. Con il Barocco l’orchestra fa il suo ingresso nelle chiese e il coro viene posto in alto, sopra il portone d’ingresso. Il contrappunto, infatti, richiede di stare in alto per poter scendere. «Non è possibile — conclude Fornaciari — ascoltare Bach in una cattedrale gotica o in una chiesa neoclassica».
Ed ora? A quale dimensione ci conduce la musica di queste chiese moderne? A quella dello scoramento: voci per lo più incolte che cantano, seppur con fervore, come se partecipassero a una scampagnata, vivaci orchestrine giovanili con tanto di chitarre e batteria che si spengono subito dopo, senza lasciare traccia nell’animo di chi ha assistito alla funzione, se non, forse, una forma di epidermica allegria. La dimensione della fraternità è sicuramente importante, ma quando quella trascendente si lega unicamente a questo, alla prima crisi, al primo impatto con l’asperità della vita, la fede che si credeva di possedere si dissolve come neve al sole. I bambini che trascorrono anni rispondendo a quiz religiosi durante le lezioni di catechismo, da adolescenti abbandonano ogni pratica spirituale, convinti che la cosa non li riguardi più: il mondo offre realtà ben più allettanti.
La solitudine in cui ci troviamo a vivere è la solitudine dell’abbandono del sacro perché, paradossalmente, la fede nell’Incarnazione non è più in grado di accompagnarci in una dimensione che ci apra all’interrogazione e ci spinga a trovare delle risposte all’inquietudine che, ontologicamente, ci appartiene. Frastornati dalle immagini, sballottati in un mondo che ignora le ragioni profonde dell’esistere, tanto più in un momento grave come questo, com’è possibile riconquistare la stabilità profonda che ci giunge dalla contemplazione del mistero? Dio ti ama anche se canti male, anche se celebri il divino in un’asettica sala da conferenze, anche se lo spazio in cui ti rechi alla ricerca di un sollievo per la tua anima ti parla solo di opprimente e sciatta bruttezza. Che Dio ti ama comunque è teologicamente vero, ma è altrettanto vero che la radice del sacro, per consentire di crescere in questa dimensione, ha una necessità estrema di bellezza, perché solo la bellezza, con le sue profonde vibrazioni, fa risuonare in noi la parte più profonda del mistero. Senza questa dimensione, il cristianesimo si trasforma in uno sforzo intellettuale di buona volontà e partorisce un mondo che, anziché essere segnato dalla gioia liberante della fede, propaga intorno a sé per lo più un asfittico moralismo. Moralismo che, come ci ha ricordato di recente papa Francesco, è in qualche modo la tomba della vera fede. La fuga in massa verso altre religioni o verso la pletora di sette protestanti ci parla proprio di questo: della necessità di trovarsi in luoghi dove il corpo, nella sua concretezza, percepisca l’esistenza del sacro.
I cubici ecomostri, le astronavi, le vele cementizie, i campanili siderurgici che, come un malefico cancro, ormai popolano il nostro Paese umiliando, con la loro aggressiva bruttezza, non solo i credenti ma chiunque vi passi anche casualmente accanto, ci parlano della cecità spirituale dei progettisti e dell’ancora più grave cecità dei committenti. È la natura, con le sue forme armoniose, a suscitare in noi lo stupore che ci porta alle soglie del sacro, e la natura non contempla mai la rigidità geometrica che ci viene riproposta in questi moderni manufatti. Se geometria c’è, se matematica c’è — e ce n’è molta, in natura — è sempre sotto il segno dell’armonia. Già nella Genesi , Dio istruisce Noè sulle dimensioni dell’Arca: trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. E questo rapporto — 3:5 — si ritrova in molti altri punti delle scritture. «I rapporti proporzionali scelti dal Signore per la sua dimora — ci ricorda Fornaciari — si ritrovano identici nella filosofia pitagorico-platonica dei numeri armonici, sistema teorico su cui si basano i principi alla base della grande architettura rinascimentale. Non vi è spiegazione storicamente plausibile per questa analogia, così come non è possibile spiegare scientificamente come mai i petali di una margherita si dispongano sempre in un numero appartenente alla serie di Fibonacci o come, attraverso una successione di rettangoli aurei (i cui lati, guarda caso, sono approssimativamente proporzionali al tre e al cinque) sia possibile generare una spirale logaritmica in grado di descrivere geometricamente la conchiglia di un nautilus o la conformazione di una galassia».
Nel mio racconto Per voce sola la protagonista, un’anziana donna ebrea, racconta che, da bambina, il sabato il padre la portava in giro per la città dicendo: «Ecco, oggi è un giorno speciale perché puoi vedere tutto con occhi doppi: quelli del corpo e quelli dell’anima». In un momento di crisi profonda della società come quella che stiamo vivendo e con il transumanesimo che incalza, è proprio di questi occhi doppi che abbiamo bisogno. Ne abbiamo bisogno noi, ne ha bisogno ogni bambino che viene al mondo, perché solo lo stupore per l’armonia e bellezza che ci circonda ci potrà riportare al cuore caldo della nostra umanità.
La capissero....
RispondiEliminaUn disastro
RispondiEliminaC'è arrivata perfino la Tamaro...allora è vero che "grideranno le pietre"!
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