Da Magister un articolo del prof. Pietro De Marco.
Luigi
11 dicembre 20, Settimo Cielo
L’ultimo grande dittatore è biancovestito. Un’analisi teologico-politica
(s.m.) Si avvicina il Natale e con esso anche quel discorso prenatalizio di papa Francesco alla curia vaticana che “augurale” è solo di nome, perché si risolve ogni anno in una iraconda sgridata ai malcapitati cardinali e capi d’ufficio.
Ma “Medice, cura te ipsum!”, griderebbe il bambino della fiaba al posto del meno appropriato “Il re è nudo!”, visto come l’attuale papa esercita i suoi poteri.
Sono i poteri ipertrofici che il professor Pietro De Marco analizza nell’intervento che segue, con gli effetti che ne derivano per il papato e per la gerarchia della Chiesa.
LA “DIKTATUR” TRA SCHMITT E BERGOGLIO
Il cardinalato da ufficio permanente a mandato a discrezione?
di Pietro De Marco
Gli atti recenti di papa Francesco contro alcuni membri del collegio cardinalizio hanno, come ogni atto rilevante dell’autorità suprema in condizioni di straordinaria gravità, sia un rilievo immediato, sia una portata che investe l’ordinamento.
Che le condanne siano avvenute per gravi e accertate colpe sessuali nella vita privata o nell’esercizio del governo pastorale, o per altre fattispecie, dietro al dato giurisdizionale non può non apparire quello sostanziale dei contenuti e delle conseguenze materiali degli atti di governo, amministrativi e penali. Appare cioè il dato politico. La Chiesa è una “societas” umano-divina, e ogni “societas” ordinata è, prima e oltre le norme che è la “societas” stessa a darsi, una entità politica, “sui generis” nel suo caso.
Ora, non vi è dubbio che l’iniziativa che ha colpito negli ultimi mesi alcuni porporati, da Theodore McCarrick a Giovanni Angelo Becciu, certamente non nuova nella storia della Chiesa ma ostentatamente pubblicizzata, può far pensare – anzi, in alcuni circoli della Chiesa sperare – a una volontà deliberata del papa di indebolire il collegio cardinalizio, la sua funzione, le sue potestà. E più oltre, l’episcopato.
Non va dimenticato che il collegio dei cardinali ha assunto nella tradizione politica moderna una immagine analoga a quella del senato, il grande senato di Venezia ad esempio, influente sugli ordinamenti politici europei. Il senato è, in forme diverse, sempre una camera alta, di peculiare composizione – aristocrazie di nascita o di censo – e funzione. È dunque un organo necessario, dotato di poteri stabili, sotto l’autorità ultima del sovrano. Ma la libertà di disporre a piacimento della sua composizione, ovvero dei suoi componenti, appartiene più che al sovrano assoluto a un esercizio assolutistico della sovranità, che è altra cosa.
Ora, è difficile non cogliere la componente straordinaria, anzitutto politica – interna alla “societas” ecclesiastica come esterna ad essa, presso i laicati, i governi e l’opinione pubblica mondiale – della prassi di Jorge Mario Bergoglio verso i cardinali. Il papa infatti: a) ha rafforzato la sua “potestas” sul terreno repressivo, che è ciò che più la rende temibile; b) ha ottenuto una conferma della sua autorità sul terreno dell’opinione, col conseguente rafforzamento della sua legittimità carismatica; c) ha indebolito la personalità collettiva del collegio cardinalizio; d) ha rafforzato nel collegio un proprio partito, con nomine apparse tali ai commentatori di ogni tendenza.
Chi abbia assistito in diretta tv alla messa di domenica 29 novembre, celebrata con i nuovi cardinali, ha avuto la sensazione – sicuramente gradevole per una parte della cosiddetta opinione pubblica ecclesiale – di avere davanti un trepido schieramento di dipendenti, scelti dalla benevolenza del papa ma non meno soggetti agli umori del Maestro, perché minacciati dal sonno della mediocrità e dell’indifferenza.
La battuta “Compòrtati bene!” detta da Francesco a un nuovo cardinale, rilanciata con compiacimento dai giornali, è da considerarsi inaudita, una confidenza irrituale e offensiva, estranea al senso di una cerimonia che non è una premiazione di un concorso di catechismo o di diplomati di un college, ma un evento alto della Chiesa gerarchica e universale. Non sarebbe stato, in sé, nemmeno il momento per una predica – una paternale – quasi rivolta da un superiore a persone immature che si apprestano a entrare nella vita. Si è avuta l’ennesima conferma che i temi della battaglia conciliare – qui il cardinalato e la collegialità – si possono usare e gettare a piacimento, strumentalizzare insomma, quando a farlo è un leader autoritario con poteri straordinari, nella Chiesa del tutto anomali.
Sappiamo che Bergoglio ha alle spalle una carriera di superiore entro la Compagnia di Gesù, occasionalmente esercitata in maniera impropria, di cui egli stesso si è rammaricato anche di recente. Ma l’aspetto che interessa non è quello umorale, talora violento, del suo carattere – non mancano papi che gli si possano avvicinare in questo –, quanto piuttosto quello teologico e spirituale, soprannaturale. Il legame che nella Chiesa unisce il titolare con il destinatario di un esercizio di autorità è sotto il segno dei fondamenti e dei fini ultimi per cui la gerarchia esiste, nell’ordine della Chiesa-sacramento. L’obbedienza è “l’origine e la madre di tutte le virtù” – nota formula di Agostino – perché essa è figura, nella Chiesa, di quel distacco dalla nostra volontà che è necessario all’unione con Dio.
Quindi il mero e funzionale esercizio di autorità legittima, al fine di piegare “politicamente” l’altro, non ha a che fare con l’”ordo amoris”, che certo non significa un bagno di dolcezze. L’”amor” asimmetrico, come quello tra un superiore e un inferiore, è un plesso di mutua benevolenza e di reciproca giustizia, è nel fondo un patto. Quando invece la giustizia, anche “sacrosanta” di papa Bergoglio appare priva di “caritas”, un mero “esercizio della coazione legittima”, per di più amministrata ad uso dell’opinione pubblica mondiale da cui il papa si sente giudicato. Scarsa di “sensus ecclesiae”, dunque, nonostante le molte parole in questo senso: purificazione, domanda di perdono, ecc.
Per concludere il ragionamento: lo stile istituzionale emerso improvvisamente col pontificato di Bergoglio e che consiste in una costante paternale, in un’inarrestabile rampogna inflitta ai vescovi del mondo – come le fantasiose accuse di pelagianesimo e formalismo ai vescovi italiani, a Firenze nel 2015 –, questa sorta di savonarolismo del soglio pontificio, ha effetti perversi: soprattutto l’indebolimento dell’autorità morale della gerarchia mondiale presso i rispettivi popoli, a vantaggio del potere carismatico di Roma, anzi, di questo papa. Quello che i cosiddetti “cattolici adulti” lamentavano negli anni di Giovanni Paolo II, la famigerata ipertrofia del ruolo petrino, si sta in realtà realizzando politicamente oggi.
È palese che sono esonerati dal cruccio papale quei vescovi e quei cardinali che cercano di assomigliargli in stile e ideologia, e finché lo fanno. Il capo carismatico ha sempre attorno a sé una sequela più che un’istituzione; e se dispone di quadri istituzionali li usa in stretti termini di potere, coercitivi. Per usare le categorie illuminanti del Carl Schmitt costituzionalista, il papa, riplasmando il collegio cardinalizio, più che da titolari di uffici si vuole circondato da commissari in costante dipendenza da lui, revocabili in ogni momento. Scriveva Schmitt nel suo celebre saggio “La dittatura” del 1921, a proposito dell’antico istituto del commissario: “Il contenuto dell’attività commissaria è rigorosamente vincolato all’istruzione ricevuta, la discrezionalità è strettamente limitata, il commissario rimane sempre e in ogni dettaglio direttamente dipendente dalla volontà del mandante, che però può anche concedergli un ampio margine di discrezionalità”.
Naturalmente questo è solo un paradigma con cui misurare un possibile approssimarsi della Chiesa gerarchica di Bergoglio a modelli politici noti. Non potendo essere, per divina costituzione, assolutistico, il governo del papa attuale tende a una “dittatura commissaria” la cui discrezionalità sarebbe dovuta alla eccezionalità dei tempi. Ma “quis iudicabit” una eccezionalità nella Chiesa? La crisi della pedofilia è stata invocata analogicamente come una pandemia che legittima risposte eccezionali; ma i paladini del papa sono giudici idonei? Per parte loro i critici conservatori si sono legate le mani in materia perché hanno ritenuto più importante deprecare il degrado della morale personale nelle generazioni di clero postconciliari come effetto del Vaticano II, che guardare alle innovazioni nell’esercizio dei poteri da parte dell’attuale papa.
Qualche canonista si è allarmato di fronte alle implicazioni di diritto canonico e teologia sacramentale della condanna dell’ex cardinale McCarrick. Mi si assicura che invece va tutto bene; è stato un doveroso provvedimento “amministrativo”. Solo che il giudizio politico non può essere altrettanto tranquillizzante di quello tecnico-giuridico. Il ludibrio pubblico che ha preceduto il processo canonico, se vi è stato, nonché il caso più recente del cardinale Becciu amplificato da una campagna scandalistica sulla stampa nazionale, o ancora l’aver abbandonato alla sua malasorte l’innocente cardinale George Pell finché una corte lo ha scagionato e reso presentabile per la Santa Sede, sono sintomi in una direzione precisa. Al di là della lodevole intenzione di rispettare la magistratura civile, essi indicano in Bergoglio un abbandono della gerarchia cattolica – per la quale dovrebbe avere sollecitudine – al circo internazionale che, com’è noto, cerca e celebra “panem et circenses”. E il papa, che nel frattempo ha predicato “panem”, riceve dal circo quel consenso e quella forza che può usare entro la propria giurisdizione, trasformando – lui, non Paolo VI o Giovanni Paolo II o Benedetto XVI – il suo ufficio in “puissance de commander”.
La deprecata visione ecclesiologica dell’episcopato come funzionariato del papa non raggiungeva – né perseguiva, in realtà – nell’età del Concilio Vaticano I il grado di subordinazione personale e politica che l’episcopato mondiale e il collegio cardinalizio rischiano oggi, sotto la motivazione emergenziale di una Chiesa in ricostruzione. In più, oggi, chiunque, anche non credente, crede di poter denunciare ed esigere la testa di un prelato, non appena lo ritenga sospetto di alto tradimento verso la presunta rivoluzione di papa Francesco.
Un debole “sensus ecclesiae” sacramentale e istituzionale, il manifesto bisogno di consenso – come linfa del pontificato – presso le opinioni mondiali influenti e le istituzioni internazionali, la propensione all’esercizio dittatorio del suo potere sui quadri dell’istituzione, il suo circondarsi di “amici” cioè tecnicamente di partigiani, l’intento riformatore che si esercita nel micro come nel macro (dalle correzioni idiosincratiche di qualche luogo del Messale alla “riforma della curia”, un eterno miraggio demagogico), il ricordato tener sulla corda i fratelli nell’episcopato visti come propri commissari sempre “sub iudice”, infine l’ambizione – con le migliori intenzioni ma entro questa cornice – a una leadership morale mondiale, fanno apparire in piena funzione anche a Roma il modello della presidenza carismatica onnipotente.
Si è evocato per Bergoglio uno stile tra il presidenzialismo nordamericano e quello francese, una sorta di gollismo. Breve il passo al “caudillismo” del mondo ispanico e latino-americano: un’imputazione, quest’ultima, che acquista un significato meno contingente – legato alla storia personale di Bergoglio – se vi si arriva per via comparata o per analogia politico-costituzionale.
Ma non dovrebbe sorprendere le persone che in buona fede celebrano il papa, se a questo slittamento dittatorio di Bergoglio corrisponde una forte e motivata opposizione nella Chiesa. Ed entro questa opposizione, una grave perdita di autorità del papa non sotto il profilo psicologico-carismatico ma sotto quello sostanziale. L’agire quasi in veste di “dictator” è estrinseco all’istituzione Chiesa, è prassi di diritto pubblico statuale, non di diritto sacro.
Ma tale opposizione a papa Francesco è anche una reazione al tanto peggio tanto meglio, ovvero all’umiliazione ed esautoramento di Chiese e cleri, al fango gettato sulla Chiesa da ogni istanza anche la meno autorizzata, ai sospetti gettati su san Giovanni Paolo: una amara congiuntura cui Francesco sembra a molti affidarsi, per vincere la sua battaglia. Forse qualche cardinale elettore, a ridosso del prossimo conclave, dovrà proporre agli altri membri del collegio, se non un patteggiamento o una “capitolazione”, severamente proibiti, almeno uno “scambio di idee” – questo sì consentito e persino incoraggiato dalla “Universi dominici gregis” – che impegni il successore di Francesco a un diverso uso dei poteri di Pietro.
—————
(s.m.) Il “caudillismo” che De Marco associa a papa Francesco è ben sviluppato e argomentato dal professor Loris Zanatta dell’università di Bologna, specialista dell’America latina, nel suo ultimo libro: “Il populismo gesuita. Perón, Fidel, Bergoglio”, Laterza, Bari, 2020.
Una sequenza impressionante di sciocchezze. Da questo punto di vista Wojtyla e Ratzinger hanno fatto ben peggio. E allora dove era il sig. De Marco
RispondiEliminaDietro l'anonimato ognuno diventa "un Marcel che combattendo viene"
RispondiElimina