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martedì 11 agosto 2020

Porfiri: il canto religioso popolare nella liturgia


Un'interessante analisi del Maestro Porfiri.
Luigi


23 Luglio 2020 Pubblicato da Marco Tosatti 

[...]

Canto religioso popolare

Il tema del canto religioso popolare, è un altro dei temi caldi della riforma liturgica. Nei decenni precedenti alla Sacrosanctum Concilium, già si assisteva alla ripresa di interesse per il canto del popolo, questo anche grazie all’indubbia spinta data dall’azione ceciliana. Il loro grido di battaglia, “che il popolo canti!”, riassumeva gli intenti di un’azione vasta e
penetrante, combattuta con i buoni mezzi della stampa e con l’azione pratica sul campo. Tra i primi del ventesimo secolo e gli anni sessanta dello stesso, si sforneranno migliaia e migliaia di canzoncine di vario genere, su testi non direttamente biblici (e c’è una ragione per questo che vedremo più avanti). Molti ricorderanno senza dubbio le varie “Mira il tuo popolo”, “Dell’aurora tu sorgi più bella”, “Andrò a vederla un dì”, per rimanere solo al campo mariano. Chi di noi non le ha cantate? Ebbene, in questo campo specifico, il concilio ha lasciato aperta questa porta (in linea con tutti i documenti precedenti), ma questa porta è stata divelta da un’energia inarrestabile. Io sono dell’opinione che la SC, perfettamente in linea qui con la letteratura liturgica precedente, è stata superata (e di molto) dalle applicazioni immediatamente successive. Sembra complicato, ma non lo è: si è andato molto più in là di quanto la SC aveva prescritto.


Partiamo come al solito dalla citazione della SC, che al paragrafo 118 del capitolo VI dice: “Si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli.” Qualche osservazione: si dice di promuovere con impegno il canto religioso popolare. Il nome va un attimo meditato; stiamo attenti, perché il canto popolare non è il canto liturgico, che, a norma dell’articolo 116 precedentemente già visto, è il canto gregoriano e in subordine la polifonia. Il canto popolare viene definito “religioso”, questo termine, distingue con decente approssimazione un repertorio che non è pensato per esigenze strettamente liturgiche ma per altri momenti devozionali e non (come ribadito nei documenti preconciliari che leggeremo). Si dirà che nel paragrafo 118 però si dice che questo canto può avere posto “nelle stesse azioni liturgiche” ma, ed è importante, “secondo le norme stabilite dalle rubriche.” E cosa le rubriche dicevano fino a quel momento lo vedremo presto.

I documenti ufficiali

Cominciamo, come già precedentemente, dal motu proprio di San Pio X “tra le sollecitudini” (22/11/1903). Al capitolo III, paragrafo 7, dice già qualcosa che non lascia molti spazi di fraintendimento: “La lingua propria della Chiesa Romana è la latina. E’quindi proibito di cantare in volgare qualsiasivoglia cosa; molto più poi di cantare in volgare le parti variabili o comuni della messa e dell’officio.” In questo commento al motu proprio il concetto viene sempre meglio esplicitato: “Le funzioni liturgiche più comuni, durante le quali non si può eseguire nessun canto in volgare, sono: Messa e Vespero solenni, Processione solenne col SS., Officio e Messa pro defunctis solenni, Officio solenne della Settimana Santa. Nelle funzioni liturgiche, non solenni, come, ad esempio, durante la Messa bassa, si potranno eseguire canti in volgare; similmente prima e dopo della solenne funzione liturgica, purchè si tratti sempre di musica confacente con la santità del tempio.” (Mons. Giovanni d’Alessi, “Il Motu Propro sulla musica sacra di S.S. Pio X con note illustrative e la costituzione apostolica “Divini cultus sanctitatem” di S.S: Pio XI”, 4a edizione, a cura dell’Associazione Italiana S.Cecilia, 1934, pag. 108).

Al canto in volgare, si fa qualche accenno più avanti (VI, 21), quando si dice: “Nelle processioni fuori di chiesa può esser permessa dall’Ordinario la banda musicale, purchè non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie congregazioni che prendono parte alla processione.” Il canto religioso popolare (anche se non è così chiamato esplicitamente), quindi è al di fuori della liturgia solenne. Nella Divini cultus sanctitatem (20/12/1928), papa Pio XI richiama con forza le prescrizioni di Pio X, specialmente laddove si richiede un maggiore e necessario coinvolgimento al canto liturgico del popolo, che dovrebbe consistere in una maggiore partecipazione dello stesso al canto gregoriano (“Affinché i fedeli prendano una parte più attiva al divin culto, il canto gregoriano, in ciò che spetta al popolo, sia restituito nell’uso del popolo. Occorre infatti che i fedeli, non come estranei o muti spettatori, ma, compresi veramente e penetrati dalla bellezza della liturgia, assistano in tal modo alle sacre funzioni – anche allorché si celebrano processioni solenni – da alternare la loro voce secondo le dovute norme, a quelle del sacerdote o della schola cantorum; se ciò accadrà felicemente, non si avrà più a lamentare quel triste spettacolo in cui un popolo non risponde affatto, o appena con un mormorio sommesso e indistinto, alle preghiere più comuni proposte in lingua liturgica ed anche in volgare.” (IX)).

Successivamente abbiamo la Mediator Dei (20/11/1947) di papa Pio XII. Questo documento è indubbiamente uno dei più complessi e articolati sull’argomento liturgico: esso si trova in un periodo molto segnato da mutamenti e spinte in avanti. La parola solenne del pontefice cerca di stabilire i punti fermi e di arginare possibili deviazioni. Naturalmente Pio XII incoraggia vivamente la partecipazione dei fedeli al Sacrificio Eucaristico, ma evidentemente si trova a dover confutare idee non conformi alla sua a questo riguardo. Innanzitutto comincia col dire che non si può dire che tutti i battezzati partecipano con lo stesso sacerdozio alla liturgia, in questo modo svilendo il sacerdozio gerarchico. Certo, anche i fedeli offrono il sacrificio ma in un modo differente: questo è dichiarato dalla Chiesa, è significato dai riti stessi (il sacerdote offre in unione con il popolo), con l’offerta del pane e del vino al sacerdote e per mezzo del sacerdote che agisce in persona di Cristo che è Capo e che fa l’offerta per tutte le membra. Anche in questo documento si ribadisce la necessità di ridare al popolo la possibilità di unirsi ai ministri e alla Schola almeno nelle melodie più semplici del canto gregoriano. C’è però anche un passo significativo sul canto religioso popolare: “Vi esortiamo anche, Venerabili Fratelli, ad aver cura di promuovere il canto religioso popolare e la sua accurata esecuzione fatta con la conveniente dignità, potendo esso stimolare ad accrescere la fede e la pietà delle folle cristiane. Ascenda al cielo il canto unisono e possente del popolo nostro come il fragore dei flutti del mare, espressione canora e vibrante di un sol cuore e di un’anima sola, come conviene a fratelli e figli di uno stesso Padre.” (parte quarta, II). Insomma, si prosegue sulla linea tracciata dagli illustri predecessori, anche se c’è un attenzione maggiore per le moderne istanze che vengono dal Movimento liturgico e finalmente si fa menzione esplicita del canto religioso popolare (“Fino al 1947, nessun documento ufficiale aveva mai parlato del canto popolare religioso.” Annibale Bugnini, “Liturgia viva”, editrice Ancora – Milano 1962, pag. 58). Dello stesso Pio XII è l’enciclica Musicae sacrae disciplina (25/12/1955). Qui, dopo aver trattato di quella musica che definisce “liturgica” per eccellenza (gregoriano, polifonia) c’è un lungo periodo molto importante: “Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia per il suo contenuto e le sue finalità reca molti vantaggia alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica “religiosa”. Invero anche questo genere di musica sacra – che ebbe origine in seno alla Chiesa e sotto i suoi auspici potè facilmente svilupparsi – è in grado, come l’esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata in chiesa durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia fuori di chiesa nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare, si fissano nella memoria quasi senza sforzo e fatica, e nello stesso tempo anche le parole e i concetti si imprimono nella mente, sono spesso ripetuti e più profondamente vengono compresi. Ne segue che anche i fanciulli e le fanciulle, imparando nella tenera età questi canti sacri, sono molto aiutati a conoscere, a gustare e a ricordare le verità della nostra fede, e così l’apostolato catechetico ne trae non lieve vantaggio. Questi canti religiosi, poi, agli adolescenti e agli adulti, mentre ricreano l’animo, offrono un puro e casto diletto, danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni, e anzi nelle stesse famiglie cristiane apportano santa letizia, dolce conforto e spirituale profitto. Per la qual cosa anche questo genere di musica religiosa popolare costituisce un valido aiuto per l’apostolato cattolico, e quindi deve con ogni cura essere coltivato e sviluppato.” (II). Anche se in pratica si continuano a dire le stesse cose, è sempre più ampia l’attenzione che si dedica alla riflessione sul canto religioso popolare. Anche se verrà ribadito che: “Dove una consuetudine secolare od immemorabile permette che nel solenne Sacrificio Eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli Ordinari permetteranno ciò “qualora giudichino che per le circostanze di luogo e di persona tale (consuetudine) non possa prudentemente venir rimossa”, ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.” (III). Citando il codice di diritto canonico, si ribadisce che liturgico è il canto che riveste le parole del messale, e queste parti non possono essere cantate in lingua volgare. Il documento che si sta ampiamente citando, è un documento molto importante e che segna sicuramente un’attenzione e uno sguardo nuovo anche ai vari aspetti della musica sacra. Anche se riconferma l’insegnamento dei suoi predecessori, si avverte nettamente un’attenzione diversa al problema della partecipazione dei fedeli (anche citando i libricini bilingue come buon esempio). Ancora più avanti si dirà: “A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della Chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma essendo più adatti all’indole ed ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, a seconda del carattere delle genti e dell’indole particolare delle nazioni. Affinché siffatti canti religiosi portino frutto spirituale e vantaggio al popolo cristiano, devono essere pienamente conformi all’insegnamento della fede cristiana, esporla e spiegarla rettamente, usare un linguaggio facile ed una melodia semplice, aborrire dalla profusione di parole gonfie e vuote ed infine, pur essendo brevi e facili, avere una certa religiosa dignità e gravità. Quando abbiano tali doti questi canti sacri, sgorgati quasi dal più profondo dell’anima del popolo, commuovono fortemente i sentimenti e l’animo ed eccitano pii affetti; quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata come una voce sola, con grande efficacia elevano l’animo dei fedeli alle cose celesti.

Perciò sebbene, come abbiam detto, nelle Messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle Messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare affinché i fedeli assistano al Santo Sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti, ma accompagnando l’azione sacra con la mente e con la voce uniscano la propria devozione con le preghiere del sacerdote, purchè tali canti siano ben adattati alle varie parti del Sacrificio, come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio spirituale.(…)

Non possiamo perciò fare a meno di esortare vivamente Voi, Venerabili Fratelli, a voler con ogni cura e d ogni mezzo favorire e promuovere questo canto popolare religioso nelle Vostre diocesi. Non Vi mancheranno uomini esperti, per raccogliere e riunire insieme, dove già non sia stato fatto, questi canti, perché da tutti i fedeli possano più facilmente venir imparati, cantati con speditezza e ben impressi nella memoria.(…) In tal modo si può sperare di ottenere anche un altro vantaggio, che è nel desiderio di tutti, che siano tolte di mezzo quelle canzoni profane che o per la mollezza del ritmo o per le parole spesso voluttuose e lascive che lo accompagnano, sogliono essere pericolose ai cristiani, ai giovani specialmente, e siano sostituite da quelle altre che danno un piacere casto e puro ed insieme nutrono la fede e la pietà; sicchè già qui in terra il popolo cristiano incominci a cantare quel canto di lode che canterà eternamente nel cielo: “A Colui che siede sul trono dell’Agnello sia benedizione, onore, gloria e potestà nei secoli dei secoli”.” (III). Scusatemi l’ennesima lunga citazione, ma credo era troppo importante per ometterla. Via via che mi inoltro nei documenti ufficiali del Magistero, non posso non vedere come la figura di papa Pio XII sembra sempre più stagliarsi nettamente come uno dei protagonisti del Movimento liturgico, colui che saggiamente, pacatamente, ha aperto la strada affinché certe istanze fossero definitivamente accolte ma senza pericoloso, poi realizzatesi, fughe in avanti. L’istruzione De Musica Sacra et Sacra Liturgia (3/9/1958) della Sacra Congregazione dei Riti, ribadisce e puntualizza le acquisizioni già notate nei due precedenti documenti di papa Pacelli. Dà indicazioni pastorali che rendono pratiche le direttive dei due documenti citati sopra. Fino ad adesso possiamo osservare dei punti ricorrenti: a) il canto liturgico per eccellenza è il canto gregoriano; b) la lingua liturgica per eccellenza è il latino; c) il canto religioso popolare in lingua volgare è incoraggiato sempre di più, ma non ha il suo posto nelle liturgie solenni; d) esso promana dal canto liturgico ma con un carattere, appunto, più “popolare” così da favorire la partecipazione dei fedeli; e) non sostituisce il canto liturgico (che usa testi liturgici ufficiali), semmai lo può seguire.

Il Concilio, certamente, cercherà di favorire ancora più fortemente la partecipazione dei fedeli. Tutta la SC è un continuo e forte richiamo alla partecipazione più “actuosa”. Viene detto di curare il canto dei fedeli e le risposte, anche se non ci si spinge laddove non ci si può e non ci si deve spingere. La lingua liturgica rimane il latino, il canto liturgico il canto gregoriano, il canto in lingua volgare continua ad essere chiamato “canto religioso popolare”. Insomma, la spinta al cambiamento che verrà, va cercata nel contesto dell’intero documento e non estrapolando semplicemente qualche frase qui o là.

Ci sono tre questioni principali che ricorrono in tutto il documento e due di esse sono senz’altro subordinate alla terza. Queste questioni sono una chiave di lettura fondamentale per leggere questa costituzione, senza le quali non si è capito il cuore della SC. Le prime due questioni sono la formazione e il problema della lingua. In tutti i capitoli ricorre la richiesta di formazione alla liturgia, all’arte, alla musica. Viene inoltre richiesto un maggiore uso delle lingue nazionali affinché i fedeli possano più facilmente comprendere quanto si compie. Tutto questo è subordinato all’esigenza fondante della SC: la partecipazione, come già detto sopra, linea rossa che è sottesa a tutto il documento e che in esso viene continuamente richiamata. Ma abbiamo compreso la natura di questi termini nelle loro implicazioni più profonde? Tra questi tre termini esiste una forte dipendenza. Ci vuole una maggiore formazione e bisogna poter comprendere tramite le nostre lingue materne perché tutto questo ci porta ad una partecipazione maggiore, concetto chiave della SC. Ma partecipare cosa significa? Non significa partecipazionismo, non significa attivismo a tutti i costi, non significa che tutti devono e possono fare tutto. La SC dice che ognuno deve fare solo quanto gli è dovuto.

L’istruzione Inter Oecumenici (26/9/1964) della Sacra Congregazione dei Riti, comincia a rendere pratiche le indicazioni pastorali della SC, specialmente per quello che riguarda la partecipazione dei fedeli e la traduzione dei testi liturgici. Le prime indicazioni muovono la riforma in una direzione ben precisa: “Le parti del Proprio, che i cantori o il popolo cantano o recitano, non vengono dette dal celebrante privatamente.” (cap. II, 48a); “Nelle Messe lette il popolo può recitare insieme col celebrante il Pater noster in lingua volgare; in quelle cantate può cantarlo in lingua latina, e, se così verrà deciso dalla competente autorità ecclesiastica territoriale, anche in lingua volgare e con melodie da essa approvate.” (cap. II, 48g). C’è poi un punto molto importante, al capitolo II (57b), quando si parla della parte che si può assegnare al volgare nella Messa: “secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nei canti dell’Ordinario della Messa, cioè: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus-Benedictus e Agnus Dei; e nelle antifone d’introito, d’offertorio e comunione, e nei canti interlezionali.” Praticamente ci si imbarcava in un’avventura completamente nuova, in quanto c’era la trasformazione di fatto del canto liturgico dall’esclusivo latino alla possibilità (che sappiamo ampiamente sfruttata…) del canto in volgare. Anche perché, come si dirà più avanti nel documento, deve risaltare che la Schola e l’organista sono una parte qualificata dell’assemblea dei fedeli. In questo documento non si fa riferimento specifico a stili di musica liturgica. E questo, nella mia modesta visione delle cose, non mi sembra privo di rilevanza. Dalla stessa congregazione abbiamo l’Istruzione Musicam sacram (5/3/1967). Nel proemio si afferma: “Sotto la denominazione di Musica sacra si comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia sacra antica e moderna nei suoi diversi generi, la musica sacra per organo e altri strumenti legittimamente ammessi nella Liturgia, e il canto popolare sacro, cioè liturgico e religioso.” Anche se in nota viene richiamata l’Istruzione De Musica Sacra et Sacra Liturgia, ci rendiamo conto facilmente che c’è un passaggio importante, il canto popolare oltre alla sua qualificazione di religioso, viene anche chiamato “liturgico”, la qual cosa sembra portare uno sviluppo nuovo rispetto alla letteratura liturgica precedente, in cui il canto popolare religioso era essenzialmente extra liturgico. Ma naturalmente per canto popolare, qui si comincia ad intendere un’altra cosa. In tutto il documento si chiederà quell’attenzione affinché i fedeli non siano esclusi totalmente dalla celebrazione fino a condurli alla piena partecipazione nel canto. Il repertorio tradizionale non viene certo ripudiato ma va utilizzato nell’ottica delle nuove urgenze pastorali. L’Istruzione Tres ab hinc annos (4/5/1967) allargherà ancora di più la possibilità di servirsi della lingua volgare durante la Messa, comprendendo anche il Canone della stessa. Dopo questa istruzioni ne seguiranno altre.

Religioso o liturgico?

Io credo che si sia compiuto un fraintendimento fondamentale, da parte di non pochi operatori del mondo musicale. Il canto religioso popolare, è un canto che parte da un testo semplice e popolare, che esprime sentimenti religiosi anche in maniera molto forte. Si nutre solitamente della tradizione musicale sentita come propria da un determinato popolo. Pensiamo ai canti di 50 anni fa con melodie popolari che si sentivano nelle nostre chiese, che erano intonati al mondo contadino che era “il” mondo dell’Italia di allora. O pensiamo ad alcuni canti di primi novecento, intonati allo stile un po’ melodrammatico e un po’ militaresco. Il popolo si esprime con la lingua che in quel momento la storia gli fa parlare. Il canto religioso esprime subitaneamente l’affetto religioso, da sfogo ad un sentimento che la gente sente il bisogno di esprimere. Il canto liturgico ha un carattere meno “personale” e soggettivo e si apre ad una dimensione decisamente più comunitaria. Non è il canto del mio sentimento o di quello del mio vicino, ma la somma delle due cose. Esso, naturalmente, non rifugge le emozioni, ma le comprende in una emozione che vuole essere più grande, più spirituale. Nel canto popolare religioso diamo voce ai nostri sentimenti più immediati, quando ci va di gridare “Evviva Maria” o “Gesù, Gesù, Gesù”. In questo non c’è nulla di negativo, anzi lo trovo bello ed edificante. Ognuno lo fa con i mezzi e con la lingua che parla. Il canto liturgico naturalmente si decodifica nella lingua che il destinatario parla, ma mentre nel caso del canto religioso ascoltiamo più la voce del fedele che invia la sua preghiera, nel secondo, tramite le parole liturgiche (e quindi rituali e ritualizzanti) è la stessa celebrazione che tramite quel canto offre al fedele un ponte verso una dimensione più profonda. Questo perché il canto liturgico è inserito in un progetto più grande chiamato celebrazione. Non vive del grido del momento, ma si espande in una inspirazione e in una espirazione. Molta della musica che abbiamo oggi nella liturgia vive dell’equivoco tra canto religioso e canto liturgico. La melodia del canto liturgico deve favorire l’unione dei cuori e non la dispersione emozionale. Il sentimento non ci divide nei nostri personali bisogni ma ci stringe uno all’altro. La Parola da “parlata” si fa “parlante” e chiama a tutti e a ciascuno. La melodia si fa armonia. Quindi una riconsiderazione del ruolo delle emozioni nella liturgia e nella musica liturgica e religiosa, non potrà che fare bene alle nostre celebrazioni, nella consapevolezza profonda che non ci serve esclusivamente quello che ci piace, ma quello che ci costruisce insieme agli altri.

Aurelio Porfiri

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