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martedì 18 agosto 2020

Formicola: contro il pauperismo cattolico

Un bell'articolo di Giovanni Formicola sul pauperismo dilagante.
Luigi


Carissimi Stilumcuriali, l’avvocato Giovanni Formicola ci ha inviato – e lo ringraziamo di cuore – un commento a un articolo apparso fra le Opinioni di Avvenire in cui un politico di sinistra ripete il refrain della critica allo stile di vita occidentale che sarebbe causa di chissà quali disastri. Ci ricorda molto la scuola di pensiero – era il Club di Roma? – secondo cui più o meno (esageriamo) il mondo non sarebbe arrivato al Duemila. Buona lettura.
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Il già senatore del PD (e figuriamoci!) Andrea Ranieri scrive ad Avvenire, e Avvenire pubblica senza critica (ri-figuriamoci!), sulla povertà come unico rimedio alla crisi planetaria che staremmo vivendo, a causa dello stile di vita occidentale, che darebbe “origine a una nuova ‘umanità’, che distrugge gli habitat di animali e piante, e che assiste senza battere ciglio allo sterminio di esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame”, e perciò dovrebbe indurre a “riconsiderare da un punto di vista alternativo alla visione dominante la questione della povertà e del cosiddetto sottosviluppo”. Si tratterebbe, cioè, né più né meno, di “organizzarsi in Occidente per diventare più poveri, ridurre il nostro consumo di terra e di energia”. E prosegue sproloquiando sul tema, invocando tasse e tasse, non senza citare quale testimone a favore della sua tesi Papa Francesco.

Immediatamente mi viene da osservare che, al di là del fatto che il mondo dal punto di vista ecologico gode in realtà d’ottima salute, se è vero che oggigiorno un miliardo di persone vive al di sotto della soglia della povertà – e sarebbe interessante capire il vero “perché”, fuor dalle chiacchiere propagandistiche anti-occidentali -, vuol dire che per la prima volta nella storia dell’umanità più dei sei settimi di essa vivono al di sopra di tale soglia.

Ma questo, dopo secoli di proteste contro la povertà e di lotte per emanciparsi da essa, all’ex senatore e ad Avvenire (che tace, e quindi acconsente), non sembra un bene, anzi un male. La povertà andrebbe piuttosto promossa, bisogna organizzarsi per essa. Osservo anche che l’unico effettivo sterminio – intendendo con questo termine l’uccisione intenzionale di esseri umani innocenti – sulla scena del nostro mondo, dopo l’esperimento comunista da circa duecento milioni di vittime (non inclusi i morti in guerra e per fame, stenti o malattie non e mal curate) in talune aree perdurante, e oltre episodi di etno e genocidio a sfondo religioso anti-cristiano in spazi a dominante islamica, è la soppressione ogni anno di quasi sessanta milioni di bambini con l’aborto volontario. E sì, perché l’aborto non è semplicemente uno “scarto”, ma, senza eufemismi di sorta, è l’omicidio intenzionale d’un essere umano innocente.

Ma la considerazione di fondo è un’altra.

Marx, in Critica del programma di Gotha (1875), dichiarò che dal socialismo sarebbe scaturita una società che avrebbe potuto scrivere sulle proprie bandiere “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, una volta liberate le forze produttive dal freno della proprietà privata e della libertà d’impresa parcellizzate. Un programma, nel contesto materialistico ed economicista dell’opera marxiana, francamente iperconsumista. Infatti, prescindendo in questa sede da che cosa si debba intendere per “capacità” (magari, per comprenderlo, si sarebbero potuti e si potrebbero intervistare i protagonisti di Arcipelago Gulag, o gli ospiti dei Lao Gai, o i sudditi della Corea del Nord), la misura del “bisogno” rimane indeterminata, e coincide con il “desiderio”, se l’orizzonte è esclusivamente intra-temporale, mondano. Precisamente, il “consumismo” in un mondo depravato dalla mancanza di fede e di visione trascendente della vita. Qualcuno ha collegato questa prospettiva marxiana a quanto si legge in Atti 4,35, da cui la seconda parte sembra letteralmente copiata. Ma in realtà, il concetto di “bisogno”, in una comunità piccola, assediata e perseguitata – il cui orizzonte, se non unico, certamente dominante, è l’al di là -, ha tutt’altro senso. Così come la consuetudine di mettere il proprio in comune perché sia distribuito a ognuno “secondo il suo bisogno” ha carattere volontario, libero, e occasionato dalle particolari condizioni (in realtà poi perpetuatesi nel tempo e nello spazio, ma non sempre e non dovunque), tanto è vero che non sarà mai prescritta ai cristiani (come dimostra l’episodio di Anania e Saffira in Atti 5,1-11), e cesserà con il cessare o l’attenuarsi della persecuzione e con l’espansione della comunità nella Grande Chiesa.

Ora, non bisogna essere esperti di comunismo per sapere che per oltre un secolo e mezzo esso s’è propagandato come superamento della povertà in una società di comune benessere, in cui ognuno avrebbe potuto soddisfare i propri “bisogni” (rectius, desideri), molto più che nell’Occidente capitalistico, che presto sarebbe stato superato in produttività e ricchezza.

Ma oggi una simile prospettiva sarebbe improponibile, superata, anzi demolita dai fatti, che associano in modo indissolubile, ovunque e sempre, il socialismo alla povertà, e quindi attestano la sua incapacità di cogliere il bersaglio della di essa abolizione.

Ed allora per “salvare” il socialismo non resta che rovesciare la prospettiva, dichiarare il benessere cattivo (come la famosa irraggiungibile uva) e esaltare la povertà proponendola come meta, sicuri che stavolta il bersaglio sarà colto.