IV ed ultima parte: viene smontata pezzo a pezzo la teoria sostenuta dal blog "Traditio Marciana" riportato (e condiviso) da MiL
In sostanza i pizzi e i merletti del camice sono legittimi, leciti e liturgici (qui la terza, qui la seconda, qui la prima).
Quando la passione per la Liturgia porta
a non capire più la Sua natura
IV parte
IV parte
di Guido Ferro Canale
E veniamo
ai pizzi: ragionamento e confutazione
Innanzitutto,
è bene indicare quale sia l'oggetto preciso del contendere: l'uso, o diciamo
semplicemente l'abitudine, di decorare i camici con pizzo, dal ginocchio in
giù. Abitudine che l'autore sa benissimo essere generale, almeno in Italia; ma,
a suo dire, “un pizzo che scende dal ginocchio
snatura il camice rendendolo una tunichetta, e non è pertanto accettabile per
compiere la Santa Azione.”. Si tratterebbe quindi, se ho ben
compreso, di un abuso semplicemente tollerato, non già di una legittima
consuetudine.
A sostegno di
tale asserto, egli sviluppa un ragionamento piuttosto articolato, che - per
semplicità di approccio e, confido, anche per comodità del lettore – voluto
suddividere per punti, secondo l'ordine logico, rispondendo distintamente a
ciascuno. Ho evitato, però, d soffermarmi sulle varie considerazioni estetiche,
che come tali non possono certo ambire al rango di argomento.
1 - Uso e significato simbolico del camice
Tesi Il camice, ci vien detto in primo luogo, “è la candida veste lavata nel sangue
dell'Agnello e perciò detto anche alba, ed è la veste di colui che compie il sacrificio.”.
Replica Almeno nel rito romano, il camice non
è affatto la veste propria di chi offre il Sacrificio, ma è comune a
celebrante, diacono e suddiacono. Gli unici paramenti sacri propri del solo
celebrante – nelle SS. Messe non pontificali - sono la stola portata intorno al
collo e la pianeta, che rimandano rispettivamente all'immortalità perduta nel
peccato originale, ma riguadagnata dalla
Redenzione, e al giogo del Signore,
leggero e soave per chi lo porta: non sarebbe azzardato, almeno a mio avviso,
considerarli come i due aspetti inscindibili del Sacrificio.
Mette conto osservare, poi, che la simbologia delle vesti è
mutata nel tempo, perché per Rabano Mauro, ad es., il camice esprimeva uno
specifico richiamo alla virtù della castità (cfr. il suo De clericorum institutione, Lib. I, Cap. XVI, in PL 107, 306D). Anche per questo,
essa deve esser desunta dai libri liturgici così come sono in vigore,
precisamente dalle preghiere per la vestizione contenute nel Messale Romano. Ed
esse, oltre ad assegnare a stola e pianeta i significati già detti, annettono
la castità al cingolo e fanno del camice “la lunga veste bianca indossata da
tutti i sacri ministri, che ricorda la nuova veste immacolata che ogni
cristiano ha ricevuto mediante il battesimo. Il camice è dunque simbolo della
grazia santificante ricevuta nel primo sacramento ed è considerato anche
simbolo della purezza di cuore necessaria per entrare nella gioia eterna della
visione di Dio in Cielo (cf. Matteo 5,8).” (così la bella spiegazione dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie; ma cfr. già l'Aquinate, I-II, qu. 102, a. 5, ad 10). Di
qui la preghiera “Dealba me, Domine, et
munda cor meum; ut, in sanguine Agni
dealbatus, gaudiis perfruar sempiternis.”.
Insomma, che il camice sia “la candida veste lavata nel sangue dell'Agnello” è verissimo,
ma da ciò non deriva non deriva affatto una sua connessione esclusiva con colui
che rinnova in modo incruento il Sacrificio perfetto; al contrario, come
dimostra l'uso della cotta, che è una sua riduzione, “La liturgia
cristiana volle sempre gli ecclesiastici indistintamente rivestiti di un
abito-base bianco a somiglianza dei 24 Seniori e della turba innumere che, in
cielo, sta attorno al trono dell'Agnello (Apoc. 4, 4).” (E. Cattaneo,
s.v. Cotta, in Enciclopedia
Cattolica vol. IV, Città del Vaticano 1950, coll. 784-5).
2 - Sua asserita derivazione
veterotestamentaria
Tesi Sull'autorità
di Ruperto di Deutz, il camice viene assimilato alla veste sacrificale
prescritta per i sacerdoti dell'Antico Testamento, forma cultuale “con cui il culto cristiano ha chiare relazioni di
dipendenza”.
Replica Gli
autori medioevali sono una fonte piuttosto dubbia, sia per la notevole arditezza
dei loro allegorismi, sia per l'altrettanto notevole varietà dei riti su cui li
fondavano; la Catholic Encyclopedia, s.v. Alb -
citata anche dal nostro autore, non però a questo riguardo - è scettica
riguardo all'ipotizzato rapporto di derivazione, osservando che gli autori
cristiani più antichi non ne parlano mai, neppure laddove sarebbe ragionevole
attendersi almeno un'allusione; anzi, per l'Enciclopedia Cattolica le vesti sacre discendono
senz'altro dagli abiti civili dei giorni di festa, in particolare il camice dalla tunica. Del
resto, la novità cristiana è soprattutto una novità cultuale, organizzata
intorno al nuovo gesto della fractio panis, e la prospettata dipendenza
dal culto giudaico del Tempio appare poco compatibile con questo dato storico.
3 - Foggia da aversi per disciplinata dall'Esodo
Tesi Appunto
per la summenzionata assimilazione alla veste rituale ebraica, la foggia del
camice dovrebbe ancor oggi essere regolata dall'AT: “Nell'Esodo, al capo XXVIII, leggiamo che questa tunica dev'essere di
lino puro, e coprire l'intero corpo dal collo ai piedi, con maniche fino ai
polsi.”.
Replica Sia che si tratti di un valore propriamente giuridico dell'Esodo,
sia che si ipotizzi un valore solamente esemplare, la tesi non regge. Per il
valore esemplare difetta l'analogia, come già si è detto; sul piano giuridico,
stante la generale cessazione dei precetti cerimoniali, l'autore dovrebbe
dimostrare che l'autorità della Chiesa abbia voluto mantenere o
riportare in vigore questa specifica norma. Ma la vigenza ininterrotta è
senz'altro da escludersi: per Rabano Mauro, op. loc. cit., il camice può
essere di lino oppure di bisso; nel Medioevo, anzi, sembra attestata anche
l'esistenza di camici blu e/o in materiali completamente diversi, come la seta.
Ipotizzare un ripristino espresso del precetto cerimoniale dell'Esodo,
invece, significa in definitiva ricercare, nel diritto posteriore alla riforma
di S. Pio V, quale sia la disciplina relativa al camice (v. di seguito).
4 – Asserito impiego esclusivo del lino nella prassi della S.R.C.
Tesi A
conferma della propria tesi, l'autore ritiene di poter addurre la prassi della
Sacra Congregazione dei Riti: “I decreti della
Sacra Congregazione insistono nel ribadire fortemente il materiale del camice,
cioè il puro lino, combattendo ogni consuetudine contraria; anche le altre
prescrizioni devono pertanto essere seguite, e come l'amitto copre
accuratamente la parte del collo, così il camice stesso deve scendere sino ai
piedi.”.
Replica L'indice generale della
collezione autentica, nella stessa pag. 9 in cui riporta i due decreti di cui
l'autore dà notizia nel proprio articolo iniziale, ne riferisce anche altri
due:
-
una speciale grazia al
Vicariato Apostolico di Sichuan, che viene esonerato dall'uso del lino
con approvazione della consuetudine già invalsa di usare la tela ricavata dall'Urtica
nivea, materiale molto apprezzato nella Cina meridionale (D. n. 3995, 27
giugno 1898, vol. III della collezione, pag. 347);
-
ma soprattutto, un
decreto generale che prescrive l'uso del lino o della canapa,
vietando l'uso di altri materiali, sebbene li emulino per candore e robustezza,
e in particolare quello del cotone, che ne esce come la bestia nera del momento
(D. n. 2600, 15 maggio 1819, vol. II, pagg. 187-8).
Il commento ufficiale (vol. IV della collezione,
pagg. 192-3) spiega che con ciò si è inteso ristabilire l'antica disciplina,
dirimendo una vivace controversia tra teologi e liturgisti, dove non mancavano
i favorevoli all'uso del cotone (gossipium).
Considerato che la canapa, oltre a non essere affatto un
materiale nobile, certamente non figura nell'Esodo, eppure il decreto
riferisce anche ad essa (sembra per il candore del tessuto) i significati simbolici,
per giunta dichiarandola in uso fin dagli albori della Chiesa (!), il minimo
che si può dire è che la disciplina vigente nel rito romano non offre alcun
supporto alla tesi di una continuità tra il precetto cerimoniale giudaico e la
Liturgia odierna.
5 - Il pizzo dal ginocchio in giù snatura il
camice
Tesi Stanti le premesse fin qui esposte, “il camice finisce
là dove finisce il lino: la parte di pizzo è decorazione che non fa parte del
camice. Dunque, se un piccolo bordo di merletto alla fine delle maniche e
dell'orlo può essere una decorazione accettabile per ingentilire il camice
(...), un pizzo che scende dal ginocchio snatura il camice rendendolo una
tunichetta, e non è pertanto accettabile per compiere la Santa Azione.”.
Replica In primo luogo, confesso la mia
profonda ignoranza: non ho mai sentito prima il termine “tunichetta”, almeno
non in ambito liturgico. Conosco la “tunicella”, che però è fatta in altro
modo; il “rocchetto”, che tuttavia non è nemmeno una veste liturgica
propriamente detta; la “cotta”, che mi sembra troppo corta per essere
assimilabile ad un camice decorato, ma che, per esclusione, forse è ciò che si
voleva indicare. Nel qual caso, basterà osservare che, se anche il nostro
autore ammette l'uso del pizzo nelle cotte (come sembrerebbe di capire), una
volta caduta la sua tesi che fa del camice la veste sacrificale, riprende luogo
la legittima analogia con la cotta, che è una sua riduzione dalla simbologia
pressoché identica, come abbiamo visto.
Tantomeno, poi, gli giova sostenere che la decorazione non
faccia parte del vestito. Secondo questa singolare logica, infatti l'orlo di
bisso (o le frange: osservo en passant che il Rocci riporta entrambi i
significati) non farebbe parte della tunica sacerdotale dell'Esodo; ma
mi sembra evidente che essa sia stata concepita come un insieme armonico di
diverse parti.
Altro, invece, è affermare che la decorazione non deve
predominare: questo è un principio su cui concordano tutti, proprio perché
altrimenti si snaturerebbe la veste. Ma, come l'autore stesso mostra di sapere,
generalmente si ritiene che il pizzo dal ginocchio in giù non snaturi il
camice; riporto comunque qualche voce autorevole in tal senso, perché torna
utile al seguito dell'argomentazione.
1.
“The use of lace, though permitted, ought never to lose the
character of a pure decoration. Albs, with lace reaching above the knees, are
not, strictly speaking, en règle, though there is a special decree of
16 June, 1893, tolerating albs with lace below the cincture for
canons at Mass, on solemn feast days. Formerly a decree of the
Congregation of Rites prohibited any coloured lining behind the flounce, or
cuffs, or lace with which the alb might be decorated, but a more recent decree (12
July, 1892) sanctioned the practice.” (The
Catholic Encyclopedia, s.v. Alb);
2.
“Nessun ornato è
prescritto; si può quindi seguire l'uso invalso di applicarvi dei merletti
intorno al collo, alle estremità delle maniche, e dell'orlo inferiore. I c.
fatti di soli merletti non sono permessi; sono invece tollerati i fondi di
vario colore da sottoporsi al merletto delle maniche e della frangia;
rappresentando essi il colore della sottana del celebrante.” (E. Dante,
s.v. Camice, in Enciclopedia
Cattolica vol. III, Città del Vaticano 1949, coll. 436-7);
3.
L. Trimeloni, Compendio di Liturgia
Pratica, ed. 1962, §265 (ed. 2007, pag. 252) così riassume le regole sulla
foggia del camice, con puntuali richiami in nota ai corrispondenti decreti
della S.R.C.: “Il fondo e l'estremità delle maniche possono essere ornat[i]
o con ricamo o con pizzo. Questi devono essere un puro ornamento e non
costituire la parte preponderante del camice, che dev'essere una veste di tela
bianca e non di ricamo. Sono assolutamente esclusi i camici tutto pizzo. E' a
stento tollerato che il pizzo di fondo arrivi fin sotto il cingolo.”.
4.
E prima di tutti loro,
X. Barbier de Montault, Le costume et les
usages ecclésiastiques selon la tradition romaine, Parigi 1899, t. II, pagg. 234-5, descrivendo la pratica
romana (cfr. anche la figura che correda il testo) afferma: “Les parements
des manches sont en dentelle large, de même que la
partie inferieure […] la pratique romaine […] n'autorise que la
dentelle comme décor”.
L'autore è padronissimo di trovare eccessivo anche il pizzo
fino al ginocchio, ci mancherebbe. Mi sembra, però, assai meno libero di
spacciare il proprio gusto personale per parametro di “liturgicità”,
specialmente quand'esso non collima né con la prassi generale né con l'opinione
comune. Promuova un mutamento in questa, faccia mutare quella; ma, fino ad
allora, sarebbe di gran lunga preferibile se presentasse le proprie posizioni
come personali e passibili di libera discussione, perché ciò, ben lungi
dall'indebolirle, sarebbe un apprezzabilissimo segno di correttezza e di
obiettività.
6 - “Femminilizzazione”
Tesi Il Nostro formula un rilievo collaterale secondo cui l'ingentilimento
della veste “non dovrebbe trasformarsi in una femminilizzazione, visto che
in molti paesi il pizzo è parte esclusiva dell'abbigliamento muliebre”; si
tratta, in verità, di un argomento su cui egli tende a tornare con una certa
insistenza.
Replica Non seguo minimamente le mode, ma non ricordo di aver visto
pizzi, andando in giro per strada, né indosso a uomini né indosso a donne; mi
sembra proprio caduto in disuso, nella moda contemporanea.
Aggiungerei che mi sembra assai limitato il rischio che,
più in generale, le vesti sacre vengano assimilate alle profane, vista se non
altro la notevole diversità di foggia.
In ogni caso, il rischio “femminilizzazione” può
essere, al massimo, un problema contingente di opportunità, da risolversi con
norme contingenti e prudenziali; gli usi “antiliturgici” sono un'altra
cosa.
7 - Il pizzo dal ginocchio in giù è solo tollerato
Tesi “Un decreto della
Sacra Congregazione del 16 giugno 1893 ammette (tolerari posse) che
un camice possa avere il pizzo dalla cintura in giù: si tratta nondimeno di un
palese caso di decadenza liturgica del tardo Ottocento”. Insomma, si tratterebbe di un abuso solamente tollerato, come
comproverebbe appunto il decreto Goana, D. 3804, 12, 16 giugno 1893,
vol. III della collezione autentica, pagg. 250-1. Inoltre, “Poiché il quesito
infatti riguardava una prassi dei Canonici dell'Arcidiocesi di Goa, si potrebbe
arguire che la concessione, di per sé antiliturgica, non sia estendibile ad
altre occasioni.”. Ne beneficerebbero, in altri termini, solo i
Canonici dell'allora capitale dell'India portoghese.
Replica Vorrei anzitutto osservare che va rispettata anche la
consuetudine solo tollerata, appunto perché nel senso della tolleranza va
il giudizio del legislatore, il solo che ne potrebbe comandar l'eliminazione
(cfr. Benedetto XIV, De Synodo
Dioecesana, Lib. IX, §9.7). Ma non ho bisogno di insistere particolarmente
sul punto, perché la prova ex auctoritate addotta dal Nostro non
supporta le sue conclusioni.
Il citato decreto Goana, ben noto anche agli autori
da me citati supra, §5, tollera infatti il pizzo dal cingolo
in giù. E volerne estrapolare, contro l'opinione comune e l'uso generale,
un divieto riferito anche al pizzo dal ginocchio in giù – pur evidentemente
meno vistoso - mi sembra, come minimo, azzardato... tanto più che, nel caso
deciso, la formulazione del quesito evidenzia proprio la lunghezza del pizzo,
anziché la sua mera presenza.
Neppure è accettabile la tesi di una concessione non
estensibile in similibus. A parte il fatto che la tolleranza non
equivale ad una grazia, e a parte anche il rilievo che tutti i decreti inseriti
nella collezione si intendono generali, questo impiega la clausola Declaravit,
che “dice
che il decreto interpreta autenticamente la legge”; e “se qualche decreto, emanato in risposta ad un quesito particolare,
dichiara il senso di una legge generale, di una Rubrica, ecc., questa
dichiarazione costituisce una interpretazione autentica della legge stessa, ed
ha forza di legge” (A. Carinci, op. cit.). Del resto,
l'indice, che ha forza di legge quanto la stessa collezione di cui fa parte, ne
segnala il contenuto in termini generali, senza impiegare clausole come “ex
gratia speciali” (usata, invece, per il vicino D. 3995).
Da ciò, tuttavia, non si deve desumere che tutti possano
tranquillamente sfoggiare un pizzo fino alla cintola: come specificano sia
l'indice sia il testo del decreto, quest'indubbio eccesso di decorazione è
tollerato nei Canonici per i giorni di festa più solenni; non vale, quindi, né
per i non Canonici né per le festività minori, giacché la tolleranza, in quanto
eccezione a una regola generale, non è passibile di interpretazioni estensive
(tranne forse quelle a fortiori, p.es. in favore dei Vescovi o dei
Cardinali), per il noto principio Exceptio firmat regulam in casibus non
exceptis.
La regola in questione,
però, non è il preteso divieto del pizzo, che non risulta da nessuna
parte, bensì il limite del medesimo al ginocchio.
Il che, fermo quanto detto finora, risulta indirettamente
anche dalle altre forme di decorazione che sono state, invece, esplicitamente
permesse:
·
il decreto Syren.
5 dicembre 1868 (n. 3191, 5, vol. II della collezione autentica, pag. 384) autorizza, e non semplicemente tollera, una
forma decorativa per certi versi anche più vistosa, come l'aggiunta di “veli
trasparenti che rappresentino Croci, Ostensori, Calici con l'Ostia, figure di
Angeli e altri simili oggetti sacri”.
·
A sua volta, il decreto
12 luglio 1892 (Romana – Resolutionis dubiorum, formula tipica dei
decreti generali, D. 3780, 5) permette l'uso del fondo colorato sotto il
pizzo, senza minimamente far cenno alla pretesa illiceità del
medesimo.
·
e il successivo Minoricen.,
D. 4047, 7 del 24 novembre 1899 lo richiama sic et simpliciter per
estendere il permesso – che non è mera tolleranza – al fondo colorato sotto il
velo trasparente. Viene con ciò superato il precedente decreto contrario del 17
agosto 1833, n. 4718 (o 4569) nella
collezione precedente, che peraltro, almeno per come è formulato il quesito,
sembra implicare che allora l'uso del fondo rosso fosse un privilegio
particolare di Italia, Spagna e altri luoghi (cfr. W. Műhlbauer, Decreta authentica
Congregationis Sacrorum Rituum et instructio clementina ex actis ejusdem
collecta ab Aloisio Gardellini: ordine alphabetico concinnata, t. I, Monaco di Baviera 1865, pag. 13; sulla materia dei
paramenti cfr. amplius, nello stesso PDF, il t. II, pagg. 629-31).
Con tutto questo, però, e con buona pace dell'intento
dell'autore di ricondurre il decreto Goana ad un “palese [sic]
caso di decadenza liturgica del tardo Ottocento”, non si rinviene alcun
divieto del pizzo, neanche nella collezione anteriore, che invece lo
riporta ad es. per un tipico vezzo settecentesco come la parrucca (cfr. i
riferimenti in W. Műhlbauer, op. cit., t. II, pag. 655). In effetti, la
testimonianza di Mons. Barbier de Montault mi fa supporre che il pizzo fosse
già entrato nell'uso legittimo, a Roma, prima della stessa riforma di S. Pio V
e che perciò la S.R.C. non se ne sia mai dovuta occupare come di una novità. E
del resto, se anche un divieto vi fosse mai stato, sarebbe caduto con il
mancato inserimento nella collezione autentica di Leone XIII.
Più in generale, dalla disamina dei decreti sembra
tranquillamente ammessa una varietà anche notevole di fogge e decorazioni del
camice, con largo spazio anche alle mode. E come si è affermato il pizzo, se
non perché a suo tempo è diventato di moda?
Questo margine di flessibilità e libertà spiace senza
dubbio all'autore, che preferirebbe normare la prassi secondo l'Esodo;
ma a me sembra tanto più rimarchevole il fatto che esso venga riconosciuto
pacificamente, perfino in un contesto normativo in cui il margine lasciato al
libero sviluppo di prassi locali era tendenzialmente nullo.
8
- Decorazioni consentite: gli aurifregi
Tesi A
parte un'ulteriore polemica contro i camici a fondo colorato – che tralascio,
perché non mi sembra che apporti dati significativi - anche per le decorazioni
l'autore si rifarebbe al prediletto modello dell'Esodo, propugnando
perciò il ritorno agli aurifregi.
Replica Nulla
contro gli aurifregi come tali, ci mancherebbe... ma delle due l'una: o la
materia delle decorazioni è normata dalla consuetudine oppure è libera.
Nel primo
caso, è evidente che in Italia l'aurifregio è ammesso solo a Milano e dintorni,
e anche lì, forse, più in concorso con il pizzo che in alternativa ad esso (se
la sua foto del fu Mons. Amodeo è indicativa). Come del resto è normale, posto
che il pizzo è invalso un po' dappertutto.
Se invece vi è
libertà, l'autore può avvalersi tranquillamente della propria e produrre o
consigliare tutti gli aurifregi che vuole... ma non pretenda di bandire il
pizzo.
9 - Conferma dagli sticari bizantini
Tesi Non
manca un argomento di rincalzo, desunto dalla tradizione orientale: “Gli sticari bizantini, poi, sono usualmente decorati con un
leggero bordo aurifregiato sul fondo, giammai con pizzi o altri vezzi che a un
occhio orientale appaiono quanto mai femminili. Gli aurifregi sono una forma di
decorazione del camice rispettosa della tradizione e delle prescrizioni sacre,
non muliebre ed esteticamente piacevole, che dovrebbe più largamente essere
recuperata in Occidente.”.
Replica Prendo
atto con soddisfazione dell'apertura dell'autore ad un'evoluzione della “autentica
tradizione liturgica”; osservo però che le consuetudini bizantine hanno ben
poco di romano e che il diritto consuetudinario non si applica per analogia
fuori delle terre che gli sono proprie.
10 - “Là dove è il tuo tesoro, ivi è pure
il tuo cuore”
Tesi “La considerazione finale è che aver provocato tanto
scandalo in nome della liturgia non può che aver fatto piacere. Fu pure la
parola di Nostro Signore a portare scandalo, del resto. Solamente rende molto
tristi, al di là dell'astio nei commenti che sono una costante del poco
caritatevole mondo 'tradizionalista' che bazzica su certi siti, notare che tale
putiferio si sia scatenato attorno a dei pizzi. A quanto pare, abbiamo toccato
nel cuore certa gente. E siccome 'là dove è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo
cuore', abbiamo scoperto che per molti il tesoro della Chiesa non sono la sua
Fede apostolica e la sua Divina Liturgia, ma del brutto tessuto femminilmente
agghindato... Dio liberi!”.
Replica Anzitutto, sono costretto ad osservare che l'argomento “là
dove è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore”, pur validissimo, si può
ribaltare in mezzo secondo netto: ah, quelli che perseverano nel doppio
maggiore, che si impiccano a un'arundine, che venerano le pianete plicate, che
si aggrappano agli stoloni quasi fossero un articulus stantis aut cadentis
Ecclesiae... e che scambiano la propria opinione sulla miglior forma
liturgica per una legge superiore a quella della Chiesa!
Per il resto,
non ho l'abitudine di pensare il peggio dal mio prossimo, quindi sarei propenso
a credere che il riscontrato “astio nei commenti
che sono una costante del poco caritatevole mondo 'tradizionalista' che bazzica
su certi siti” non si debba al fatto che molti tengono più ai pizzi
che alla Fede o alla Grazia, ma più semplicemente ai paragoni ben poco
lusinghieri che i fautori dei pizzi subiscono nei primi paragrafi
dell'articolo. A questo proposito, anzi, aggiungerei che deplorare questa
scarsa carità – magari a ragione – e però rispondervi con i toni usati nella
replica (il “'pizzomerlettari' criticoni” del titolo è, purtroppo,
indicativo) è veramente privo... non di carità e nemmeno di giustizia, ma di
un'altra dote, davvero rara ai giorni nostri: l'eleganza.
Postilla:
il pizzo come simbolo di “papismo”
Debbo
anzitutto ringraziare l'autore, nonché il suo amico Mr. Robinson, per avermi
fatto scoprire il simpatico E.L. Mascall, teologo e poeta con una vena di
umorismo tipicamente inglese.
Tuttavia, la
scelta di citarlo in esergo, quasi a conferma e suggello dell'antiliturgicità
del pizzo, mi sembra veramente poco appropriata rispetto agli scopi perseguiti.
In primo
luogo, Mascall era un anglicano. Anche se non dell'ala liberal.
Fatto più
importante, nel mondo della Chiesa d'Inghilterra, almeno ai tempi, il pizzo
era un contrassegno dei “papisti”, o almeno di quella singolarissima genia
di chierici – gli Anglo-Papalist – che usavano il Messale di S. Pio V
invece del Book of Common Prayer, aderivano ai dogmi di Trento e anche
del Vaticano I, non però alla “Apostolicae Curae”... e spesso erano
sposati.
Lo stesso
Mascall, invero, nel medesimo volumetto di versi dove i canonici di Salisbury (Sarum)
restano scioccati dal pizzo ostentato dal vescovo anglicano, offre una divertentissima
descrizione di codesto tipo umano, che esordisce con: “Io sono un
Ultra-Cattolico – non “Anglo”, vi prego! / Non troverete alcuna traccia di
eresia in quel che vi insegno io”.
E, guarda
caso, il personaggio non si limita a proclamare fieramente di fare catechismo
usando il testo approvato dai Vescovi Cattolici, “spiegando ai bambini come
la Chiesa d'Inghilterra versi in eresia e scisma”: quando tratta
dell'abbigliamento afferma che, sopra la veste di ricco satin nero, “Il
mio camice è ornato agli orli con il pizzo più esteso”.
Come mai
questo dettaglio?
Perché le
vesti molto sobrie - e in genere ridotte alla semplice cotta – erano
caratteristica della controparte protestantizzante, la Low Church.
Stiamo
attenti, dunque, a favorire quello che magari non vuol affatto essere
minimalismo liturgico, ma rischia tanto di sembrarlo.
Chi venera il
Sacrificio dell'Altare adorando in esso Colui che È aggiungerà sempre il massimo dello sfarzo e dello
splendore sia alle vesti sia alle cerimonie. Certo, con ordine e secondo i
tempi e luoghi: una maggior sobrietà, ad
esempio, sarà certo raccomandabile in un ambiente monastico (come Le Barroux,
che merita per questo le lodi dell'autoreegli ). Ma appunto per questo non può
esservi la regola fissa che pretenderebbe... e soprattutto, la tendenza
generale è verso il “di più”, non il “di meno”.
Il già citato
Mascall, infine, ci offre anche un promemoria sconfortante di come
l'Anglicanesimo, restaurato da Elisabetta per tener un po' tutti dentro la Established
Church e disinnescare la mina del conflitto religioso, abbia finito, in
ragione delle congenite divisioni dottrinali, per non trovarsi più unito
neppure sul rispetto di quelle norme cerimoniali e disciplinari che pure erano
legge dello Stato.
La Chiesa di
Roma, nell'ultimo mezzo secolo, ha percorso a rotta di collo la medesima china.
Noi però, che
ambiamo a conservar l'integrità della retta dottrina, dobbiamo con essa
mantenere o recuperare, se non una piena uniformità
disciplinare, che potrebbe non essere neppure praticabile al momento, certo
almeno il principio che la Liturgia ha carattere giuridico e non va
lasciata all'arbitrio di nessuno.
Oggi è in atto un movimento, che posso solo definire
sovversivo, volto a ridefinire il concetto stesso di diritto per farlo
dipendere in tutto e per tutto dal mutevole capriccio di ciascuno (lo vediamo
fin troppo bene nelle varie gender-follie); ma, checché si voglia
pensare della sua praticabilità concreta quanto al diritto positivo in
generale, esso è intrinsecamente inconciliabile con i rapporti tra il singolo
ed Entità superiori, come Dio e, per partecipazione, la Chiesa.
Ebbene, noi che crediamo che l'ordine sovrannaturale
preceda e fondi quello naturale, che solo la Grazia sani, perfezioni ed elevi
la Natura, dobbiamo tener saldo il criterio del culto, primo mezzo di
santificazione, affinché esso possa, in virtù dell'azione divina, purificare le
anime e ristabilire anche l'ordine naturale.
E così Dio ci aiuti.
Genova, 4
luglio 2020
Guido
Ferro Canale
Ass.ne
“Beato Ottaviano Vescovo”
Presidente
emerito
Gent.mi, belle precisazioni, ma dovete comprendere l'autore dello scritto di "Traditio Marciana". A quanto risulta è dottissimo, ma molto giovane... in quest'ottica si possono giustificare certe rigidità di vedute, altrimenti incomprensibili.
RispondiEliminaAttenzione, però: se va rispettata anche la consuetudine solo tollerata, allora andrebbe rispettata anche la Comunione sulla mano...
RispondiEliminaInfatti è quello che dovete fare
EliminaVeramente la comunione sulla mano è un indulto, e prima della concessione di questa era un abuso
EliminaE la sua diffusione ha provocato solo danni, visto che la realtà che si vede quotidianamente nelle parrocchie è ben diversa da ciò che san Cirillo (citato a sproposito) esortava nelle sue mistagogie
Ringrazio di cuore l'autore per il dotto ed articolato contributo che ho letto (e leggerò di nuovo) con vivissimo interesse. Mi sento però a disagio verso un approccio troppo legalistico. Sul pur dovuto rispetto dell'autorità han fatto scientemente leva i vari Bugnini passati e presenti ed oggi siamo arrivati al culto della Pachamama nel quasi totale silenzio di cardinali e vescovi.
RispondiEliminaL'autore delle precisazioni mi sembra, però, poco caritatevole verso l'autore dello scritto di Traditio mMrciana.
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