Proponiamo con il permesso dell'Autore, teologo, "Priore della Fraternità di san Bonifacio" ( QUI ) un'approfondita riflessione, dalle pratiche valenze pastorali, sulle liturgie che in questi giorni di tragica espansione della pandemia del corona virus vengono necessariamente condivise " sui mezzi di comunicazione offerti oggi dalla tecnologia... con la coscienza che il web - specialmente - offre la possibilità di una reale partecipazione all’atto di salvezza che si compie nell’azione liturgica".
L'Autore mette anche in guardia dal "rischio all’orizzonte di confondere lo “spirituale” con il “virtuale”.
L'Autore mette anche in guardia dal "rischio all’orizzonte di confondere lo “spirituale” con il “virtuale”.
AC
Liturgia... reale o virtuale?
di Padre Francesco Guglietta
Uno dei grandi temi che l’emergenza dovuta al covid-19 ha fatto emergere nella Chiesa cattolica (ma anche nelle altre Chiese e comunità cristiane) è quello della celebrazione. Impedita la possibilità di poter celebrare le liturgie “con il popolo” sono emerse diverse sensibilità su come fare... ma dietro alle diverse “posizioni” soggiace, in realtà, una serie di questioni più significative e sostanziali.
Che raccoglierei in due grandi contenitori:
Che cos’è la liturgia? e come dobbiamo interpretare la “actuosa participatio” di SC 14?
Che importanza ha il “virtuale” nella vita e nella fede cristiana?
Ad primum
Spesso la famosa espressione della Costituzione del Concilio Ecumenico Vaticano II è spesso stata interpretata come “partecipazione attiva” come se actuosus fosse sinonimo di activus.
In realtà la cosa è comprensibile, visto che in italiano dire “partecipazione attuosa” è davvero brutto!
Ma la cosa è importante e significativa.
Perché una cosa è “fare qualcosa” (activus) e un’altra è “essere pienamente e coscientemente partecipi” (actuosus). In italiano potremmo adeguatamente distingue l’attività e l’atto (e qui ci verrebbe tanto in aiuto la teologia di Divo Barsotti!).
La liturgia non è una semplice preghiera che diventa comune (o pubblica come dir si voglia), ma è la partecipazione ad un atto compiuto una volta per sempre da Gesù Cristo nella sua Pasqua. Un atto che viene “ri-presentato” in ogni celebrazione sacramentale e liturgica comunque essa venga attuata. Ora la partecipazione del Popolo di Dio è “attiva” non quando esso “fa qualcosa”, ma se è pienamente consapevole dell’atto che si sta compiendo e a quell’atto assiste, quell’atto vive, da quell’atto si fa totalmente rinnovare e convertire. Tanto che proprio il contesto in cui la famosa espressione è contenuta (e per ben due volte, accompagnata dagli aggettivi plena e conscia) fa riferimento al fatto che il Popolo di Dio deve poter essere formato a comprendere il significato dell’atto che si ri-presenta nella singola azione liturgica e a poter, dunque, viverlo in pienezza.
Sia come persona singola che come corpo comunitario (come societas perfecta come direbbe una teologia di qualche anno fa).
E solo con queste premesse ermeneutiche (mi si permetta qualche “parolaccia” di tanto in tanto!) si può capire anche tutta un’altra serie di espressioni slogan della riforma liturgica, come ad esempio la famosa “definizione” di SC 7 in cui la liturgia è detta il “culto pubblico e integrale” che non si comprende se non alla luce di una giusta interpretazione della actuosa participatio.
Perché, altrimenti, la liturgia null’altro sarebbe che un’azione religiosa, una devozione più importante perché comandata dall’autorità, ma in nulla diversa dal Rosario da un lato o da un sacrificio cruento offerto ad un qualche dio dall’altro.
Stranamente in questo misunderstanding si trovano uniti ultraprogressisti e stratradizionalisti.
I primi confondendo actuosa con activa e i secondi non avendo recepito il profondo spessore teologico a cui la riforma liturgica ha condotto la pratica celebrativa della Chiesa. Da questo derivano diversi accenti che si son letti in questi tempi.
E, curiosamente, quelli più “progressive” sono quelli che meno hanno visto di buon grado la condivisione delle liturgie sui mezzi di comunicazione, rea di non permettere una partecipazione o di impedire la “fisicità” dell’incontro comunitario.
Mentre i più istituzionali sono quelli che con nonchalance - talvolta imbarazzante - non hanno trovato difficoltà se non quella di pensare di farlo e di posizionare lo smartphone o il computer sull’altare (sigh!) Dietro c’è sempre la questione: che cos’è per te la liturgia?
E che senso ha la “partecipazione attiva” del Popolo di Dio (1).
(1)tralascio qui un’altra questione non meno chiave che è quella di capire di che cosa parliamo quando parliamo di “Popolo di Dio”.
Ad secundum
Ma un’altra questione ancora più importante è quella che riguarda il rapporto che c’è tra reale e virtuale.
Un aspetto che è stato già pensato e anche tematizzato da diversi autori (anche sotto un profilo teologico), ma che si trova oggi, con questa questione, ad una sorta di banco di prova nella pratica della vita di fede.
La fede cristiana e la vita della Chiesa hanno costituito una critica radicale ad una sorta di immanentismo totalizzante.
Come credenti abbiamo da sempre rivendicato la possibilità di una realtà altra, alternativa a quella “sperimentabile”, a quella data dai fenomeni.
Perché una cosa è “fare qualcosa” (activus) e un’altra è “essere pienamente e coscientemente partecipi” (actuosus). In italiano potremmo adeguatamente distingue l’attività e l’atto (e qui ci verrebbe tanto in aiuto la teologia di Divo Barsotti!).
La liturgia non è una semplice preghiera che diventa comune (o pubblica come dir si voglia), ma è la partecipazione ad un atto compiuto una volta per sempre da Gesù Cristo nella sua Pasqua. Un atto che viene “ri-presentato” in ogni celebrazione sacramentale e liturgica comunque essa venga attuata. Ora la partecipazione del Popolo di Dio è “attiva” non quando esso “fa qualcosa”, ma se è pienamente consapevole dell’atto che si sta compiendo e a quell’atto assiste, quell’atto vive, da quell’atto si fa totalmente rinnovare e convertire. Tanto che proprio il contesto in cui la famosa espressione è contenuta (e per ben due volte, accompagnata dagli aggettivi plena e conscia) fa riferimento al fatto che il Popolo di Dio deve poter essere formato a comprendere il significato dell’atto che si ri-presenta nella singola azione liturgica e a poter, dunque, viverlo in pienezza.
Sia come persona singola che come corpo comunitario (come societas perfecta come direbbe una teologia di qualche anno fa).
E solo con queste premesse ermeneutiche (mi si permetta qualche “parolaccia” di tanto in tanto!) si può capire anche tutta un’altra serie di espressioni slogan della riforma liturgica, come ad esempio la famosa “definizione” di SC 7 in cui la liturgia è detta il “culto pubblico e integrale” che non si comprende se non alla luce di una giusta interpretazione della actuosa participatio.
Perché, altrimenti, la liturgia null’altro sarebbe che un’azione religiosa, una devozione più importante perché comandata dall’autorità, ma in nulla diversa dal Rosario da un lato o da un sacrificio cruento offerto ad un qualche dio dall’altro.
Stranamente in questo misunderstanding si trovano uniti ultraprogressisti e stratradizionalisti.
I primi confondendo actuosa con activa e i secondi non avendo recepito il profondo spessore teologico a cui la riforma liturgica ha condotto la pratica celebrativa della Chiesa. Da questo derivano diversi accenti che si son letti in questi tempi.
E, curiosamente, quelli più “progressive” sono quelli che meno hanno visto di buon grado la condivisione delle liturgie sui mezzi di comunicazione, rea di non permettere una partecipazione o di impedire la “fisicità” dell’incontro comunitario.
Mentre i più istituzionali sono quelli che con nonchalance - talvolta imbarazzante - non hanno trovato difficoltà se non quella di pensare di farlo e di posizionare lo smartphone o il computer sull’altare (sigh!) Dietro c’è sempre la questione: che cos’è per te la liturgia?
E che senso ha la “partecipazione attiva” del Popolo di Dio (1).
(1)tralascio qui un’altra questione non meno chiave che è quella di capire di che cosa parliamo quando parliamo di “Popolo di Dio”.
Ad secundum
Ma un’altra questione ancora più importante è quella che riguarda il rapporto che c’è tra reale e virtuale.
Un aspetto che è stato già pensato e anche tematizzato da diversi autori (anche sotto un profilo teologico), ma che si trova oggi, con questa questione, ad una sorta di banco di prova nella pratica della vita di fede.
La fede cristiana e la vita della Chiesa hanno costituito una critica radicale ad una sorta di immanentismo totalizzante.
Come credenti abbiamo da sempre rivendicato la possibilità di una realtà altra, alternativa a quella “sperimentabile”, a quella data dai fenomeni.
E abbiamo anche rivendicato il legame essenziale di questa realtà altra con quella di cui facciamo esperienza: abbiamo sempre predicato che c’è un mondo spirituale che è il vero orizzonte della vita del creato e dell’uomo.
L’incarnazione, in realtà, ci “costringe” a questo legame imprescindibile tra “esperienza” e “spiritualità”.
Necessariamente mantenendo i due poli come essenziali, come co-essenziali.
Tanto che a noi non piace il positivismo come non ci piace lo spiritualismo.
Necessariamente mantenendo i due poli come essenziali, come co-essenziali.
Tanto che a noi non piace il positivismo come non ci piace lo spiritualismo.
Non ci piace né chi riduce tutto a ciò che si può esperire, né chi rimanda tutto unicamente ad un altro mondo ideale e bello. In questa questione, che poi ha segnato tutta la modernità e segna anche la post modernità, è entrato a gamba tesa il mondo virtuale.
Che è... che cosa?
Che è... che cosa?
Dove lo collochiamo?
L’idea generale è che questo mondo sia una cosa “virtuale”, appunto.
Quindi “non reale”.
Ma ormai... dillo tu a un ragazzo bullizzato che quelle sono solo prese in giro “virtuali”!
La realtà virtuale è sempre più reale e sempre meno virtuale.
Ci troviamo davanti ad una sorta di modo di essere e di esistere che somiglia molto a quello per il quale noi cristiani ci siamo battuti finora: un mondo che non si può “toccare”, ma che è lì non meno reale di quello fisico.
Così che, come Chiesa, abbiamo tutta una serie di categorie di pensiero che ci permettono, più di altri contesti culturali, di approcciare positivamente il mondo dei social e della realtà virtuale.
Non mi meraviglia, dunque, che nessuna signora della parrocchia abbia il minimo sconcerto nel vedere il proprio parroco celebrare la Messa sul suo telefonino.
Il problema ce l’ha semmai l’intellettuale “cristiano”(?) che per anni ha criticato la fede devozionale di chi dice il Rosario o i retaggi apotropaici delle processioni, delle reliquie e delle indulgenze.
Il problema ce l’ha semmai l’intellettuale “cristiano”(?) che per anni ha criticato la fede devozionale di chi dice il Rosario o i retaggi apotropaici delle processioni, delle reliquie e delle indulgenze.
Non capisce... perché dei due elementi (l’esperienza e la spiritualità) ha eliminato la seconda e ha aderito ad una costruzione teorica in cui tutta la fede (persino la vita spirituale!) si riduce a ciò che posso toccare o “provare” empiricamente.
Certo, c’è anche un rischio all’orizzonte!
Certo, c’è anche un rischio all’orizzonte!
Che è quello di confondere lo “spirituale” con lo “virtuale”.
Occorre che impariamo bene a distinguere che nonostante le molte somiglianze e le tante dinamiche che possono essere analoghe, siamo davanti a due cose totalmente diverse.
Perché se il virtuale è una realtà oltre la realtà, siamo ancora a qualcosa che nasce dall’uomo e rimane nel campo della creazione.
Mentre la vita spirituale è quella che ha per attore e autore Dio stesso.
Mentre la vita spirituale è quella che ha per attore e autore Dio stesso.
Questo è il “lavoro” teologico e spirituale che ci si presenta davanti nei prossimi anni.
... per cui
Con la coscienza che il web - specialmente - offre la possibilità di una reale partecipazione all’atto di salvezza che si compie nell’azione liturgica.
Con la coscienza che il web - specialmente - offre la possibilità di una reale partecipazione all’atto di salvezza che si compie nell’azione liturgica.
Quando - come in questi giorni per tutti o per tanti altri motivi in altre occasioni per diverse persone - la presenza fisica è impedita, unirsi con la mente, con il cuore e anche con il corpo, la voce e i gesti, all’azione liturgica realmente genera una comunione del Popolo di Dio.
E anche i frutti spirituali di questa azione sono reali, veri.
Forse scopriremo che avere persone che fanno cose nella liturgia talvolta è pura illusione di partecipazione e serve solo a perpetuare una religiosità che di cristiano ha, talvolta, solo una vaga patina esteriore.
E magari scopriremo di avere persone che, anche se a distanza e davanti ad un qualche tipo di schermo, vivono con chi mette in atto la liturgia l’atto della salvezza di Gesù Cristo: questo ci permette di essere costituiti come il Popolo di Dio, come la Chiesa vivente che sparsa in luoghi diversi con una sola voce fa memoria del Signore, lo celebra come il Vivente e lo attende, Sposo che viene ad amarci.
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