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sabato 21 marzo 2020

E' l'uomo che si autolede

di Enrico Salvi

Con un intervento precedente (“È l’uomo la causa del virus”) evidenziammo come la causa prima di malattie, morte, terremoti, tsunami, guerre e quant’altro sia stato il Peccato Originale, cioè la Caduta dei nostri Progenitori, la quale ha provocato il primo e tragico trauma del rapporto fra Dio e l’Uomo. Trauma che da quel momento prese a ripercuotersi su tutte le generazioni e sulla natura. Del resto, il ricorso alla Sacra Scrittura è un passaggio obbligato, posto che nessuna indagine scientifica potrà mai spiegare il perché (da non confondere con il come) del germe della malattia e della morte che insidia e pone fine alla vita umana, nonché degli sconvolgimenti della natura. 

Volendo entrare un poco più nel merito della questione, notiamo come il Padre Eterno sia … eterno, ovvero trascendente ogni tempo e ogni spazio e quindi ognora PRESENTE ad ogni tempo e ad ogni spazio con la Sua giustizia, cioè col Suo jus, la Sua Legge. 

Essendo eterno il Padre, eterno è il Suo jus, eterna è la Sua giustizia, da ciò derivandone che anch’essa è ognora PRESENTE, ognora IN ATTO, e quindi precedente ogni pensiero, parola e atto dell’Uomo che necessariamente si svolgono nel tempo e nello spazio, ma sono IMMEDIATAMENTE passati al vaglio dello Jus divino nel momento stesso del loro esprimersi. Non così la giustizia umana che giunge dopo il reato. Ovvero: l’Occhio divino è lo Sguardo eterno che comprende ieri, oggi e domani; è lo Specchio di fronte al quale nessun pensiero, nessuna parola e nessun atto possono nascondersi, e perciò immediatamente si riflettono in Esso ed in consonanza o meno con lo Jus divino. 

La giustizia umana è cristallizzata nei codici e prende ad applicarsi soltanto in seguito ad un reato e soltanto se questo viene scoperto; la Giustizia divina, pur essendo anche scritta, è soprattutto quella del Dio Vivente a cui nulla sfugge, ed è ATTIVA ATTIMO PER ATTIMO, prima di ogni peccato, quest’ultimo essendo immediatamente e divinamente giudicato, non, si badi, per una sentenza positiva che Dio emette di volta in volta, ma, non lo si ripeterà mai abbastanza, per la non corresponsione allo Jus divino del pensiero, della parola e dell’atto espressi liberamente dall’Uomo. Lo si ribadisce ancora: lo Jus divino è operante ab aeterno, quindi NEL PRESENTE, nei confronti del comportamento di ciascun essere umano. Insomma, l’Uomo sa bene che il fuoco brucia e dovrebbe guardarsi bene dal porvi la mano sopra, ma se ve la pone, l’ustione non sarà certamente da considerare come una punizione del fuoco bensì come una sventatezza o un azzardo dell’Uomo. E non è che debba essere la paura del fuoco a far sì che non vi si metta la mano sopra, bensì la consapevolezza che il fuoco brucia. E tra paura e consapevolezza la differenza è abissale. «Dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti»: nel medesimo tempo il Progenitore fu reso consapevole della conseguenza della sua eventuale disobbedienza e libero di compierla o meno. Nessun spauracchio, pertanto, da parte di Dio, bensì uno Jus da liberamente rispettare o liberamente violare. 

L’episodio biblico della mela, liberamente mangiata nonostante il divieto divino (divieto che pose in essere il libero arbitrio), illumina quanto appena osservato: il divieto di Dio, cioè lo Jus divino, precede la libera decisione dei Progenitori di infrangerlo e di subirne le conseguenze, trovandosi conferma di ciò nell’episodio dell’invitato alle nozze: «Ora il re entrò per vedere quelli che erano a tavola e notò là un uomo che non aveva l'abito di nozze. E gli disse: “Amico, come sei entrato qui senza avere un abito di nozze?” E costui rimase con la bocca chiusa. Allora il re disse ai servitori: “Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti”. Poiché molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti». Anche qui non è il re che punisce l’invitato, bensì è l’invitato che liberamente e sfrontatamente si presenta senza l’idoneo abito nuziale pur sapendo che l’evento lo richiede. È quindi l’invitato che col suo comportamento si pone da se stesso nella condizione di essere escluso sia dal banchetto nuziale sia (e non è poco) dalla schiera degli eletti. 

Qui è bene precisare come, grazie al libero arbitrio, l’Uomo (l’invitato) pur essendo fatto ad immagine e somiglianza di Dio (del Re), non si preoccupi di indossare l’abito nuziale per somigliare al Re vestito del suo abito regale. Infatti, che libero arbitrio sarebbe quello condizionato dalla prospettiva di una punizione o di un premio? L’Uomo dovrebbe evitare di trasgredire lo Jus divino soltanto per paura della punizione? Oppure dovrebbe osservarlo soltanto in vista di un premio? Ma così sarebbe davvero libero questo arbitrio? Non sarebbe un arbitrio goffamente condizionato? Invece, non dovrebbe l’invitato essere premuroso di indossare l’abito nuziale onde onorare il re col somigliargli e non per paura che il re lo faccia cacciar via? Cosa vuole l’invitato? Liberamente somigliare al re o liberamente infischiarsene e fare il proprio comodo? È davvero sincera un’osservanza dello Jus divino fondata sul do ut des fra l’invitato e il re, cioè fra Dio l’Uomo? È davvero cristallina un’osservanza che nasca dalla paura di ricevere una punizione (così Dio non mi dà …) o in vista di ricevere un premio (così Dio mi dà …) e non per un puro, disinteressato, incontenibile slancio amoroso? 

«Dimmi, o amore dell’anima mia, 

dove vai a pascolare le greggi, 

dove le fai riposare al meriggio, 

perché io non debba vagare 

dietro le greggi dei tuoi compagni? 

Se non lo sai tu, bellissima fra le donne, 

segui le orme del gregge 

e pascola le tue caprette 

presso gli accampamenti dei pastori. 

Alla puledra del cocchio del faraone 

io ti assomiglio, amica mia. 

Belle dono le tue guance fra gli orecchini, 

il tuo collo tra i fili di perle» 

Dove sono, in questi splendidi versi del Cantico la paura e l’aspettativa? Non c’è piuttosto un intenso reciproco cercarsi grazie ad un amore che si nutre soltanto di se stesso? Paure e aspettative annichiliscono l’umano ma non possono influire sull’ardente aspirazione dell’unione mistica. 

Pertanto il Peccato Originale è stato il primo libero atto privo d’amore, quindi egocentrico e auto-lesivo, responsabile di tutti i peccati e tutte le afflizioni cui sono soggetti il Genere umano e la Natura. Da ciò conseguendone che concepire le malattie, la morte e gli sconvolgimenti della natura come un “punizione” o “castigo” di Dio è decisamente fuori luogo. 

Allo stesso modo, il miracolo di una guarigione umanamente impossibile sarebbe un premio dato positivamente da Dio? O non piuttosto la divina sospensione degli effetti patologici e mortali da cui e afflitta la natura umana a causa del Peccato Originale compiuto liberamente dai Progenitori? Non è forse il miracolo un “fatto contrario alle leggi della natura e prodotto per potenza sovrannaturale” (etimo.it)? Nel miracolo non c’è nessun premio bensì, semplicemente e divinamente, e seppur temporaneo data la caducità della vita umana (anche Lazzaro a un certo punto morì sebbene resuscitato), il ripristino della perfezione edenica che, è bene ripetere, fu liberamente infranta dai Progenitori. E se il miracolo non è premio, il non verificarsi di esso non è una punizione. Il miracolo, a ben vedere, apre uno spiraglio sulla vita dell’Uomo prima della Caduta. 

In breve, è la Grazia di Dio, cioè la Rugiada stillante dall’Albero della Vita, precluso all’Uomo liberamente disobbediente, l’antidoto per il virus dell’orgoglio che affligge l’Uomo esiliato dall’Eden: «Stillate rugiada, o cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto». Dice “il Giusto”, cioè lo Jus divino. 

Si propongono a questo punto i versi iniziali di una bella poesia di Agostino Cagnoli (1810-1846). 

«Di purpureo tramonto incoronava 

Tutto l’Eden il sole, e de la sera 

Purissime scendean l’aure beate 

Su l’eterna verdura, allor che i nostri 

Padri infelici primamente usciro 

Del giardin di natura. E già dal riso 

E dal vergin profumo delle rose 

Venian solinghi per l’arida polve* 

Spinti ne’ dumi* de l’umana vita». 

_______________
* polvere 
* spine 

Dunque il vagare per l’«arida polve» e fra i «dumi» della vita umana sarebbe una punizione di Dio? O non, piuttosto, la conseguenza dell’orgoglio auto-lesivo dell’Uomo, che per il libero arbitrio di cui è dotato si è fatto (e continua a farsi) Dio? Il non mangiare più dell’Albero della Vita sarebbe un castigo di Dio o non è piuttosto dovuto all’incaponimento dell’Uomo che vuol continuare a mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male? 

Ma quando e da cosa la coscienza dell’Umanità sarà scossa dal torpore in cui si dibatte dal momento della Caduta? Sembra che neanche l’attuale virus possa farlo. “Vincere insieme”, “insieme ce la faremo” sono gli lo slogans del momento. “Insieme” per salvare la pelle e vincere “insieme” per fare che? Per riprendere “insieme” la solita vita da trascorrere in “santa pace” per mangiare, bere, divertimento, sesso sfrenato e promiscuo, ateismo, false spiritualità, ipocriti altruismi, velenose filosofie e teologie, umanitarismo, ecologismo panteista, corruzione, arrivismo e altre montagne di banalità in cui continuerà a perdersi l’Uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio? E dell’abito nuziale necessario per partecipare alla festa del Re, chi davvero se ne preoccuperà?


1 commento:

  1. Splendido ed ottimo articolo, di grande chiarezza e sostanza riguardo al problema del male e della sofferenza nel mondo; una piccola ma fondamentale puntualizzazione che ritengo essenziale: le catastrofi, i disordini e le ferite della Natura vi erano ben prima che l'uomo comparisse sulla terra (basti pensare ai dinosauri ed alla loro estinzione...); motivo per il quale tutti i disastri che vediamo nel mondo sono da addebitarsi non solo al nostro Peccato Originale ma certamente ed ancor di più alla disobbedienza ribelle di Lucifero e dei suoi accoliti: da lì, in ultima istanza, hanno avuto origine la corruzione della natura, degli animali ed infine di noi uomini sedotti dal Tentatore..

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