Pubblichiamo un denso e approfondito intervento dell'amico Giovanni Formicola tenuto a Sorrento il 16 ottobre scorso (vedere Mil QUI).
L
1. Il 1978 fu un anno speciale nella
storia della Chiesa e nella storia d’Italia, quindi nella storia universale,
anche in considerazione del carattere esemplare delle vicende della nostra
patria, non da ultimo perché sede della Cattedra di Pietro.
1.1. L’elezione, appunto il 16 ottobre
1978, d’un Papa non italiano dopo quattrocentocinquantacinque anni (Adriano VI,
olandese, 1522-23). Un Papa, per giunta, ch’era suddito dell’impero
socialcomunista sovietico – viveva ed esercitava il suo ministero di vescovo in
partibus infidelium, nel senso del
sistema e del potere –, epperò in una terra speciale, la Polonia, punto di
resistenza per la sua indomabile fedeltà alla Chiesa di Cristo, cattolica nel
proprio midollo, nonostante gli sforzi secolarizzatori del regime comunista,
che certo alla lunga i loro effetti li hanno avuti, ma molto meno che altrove.
1.2. Karol Wojtyła è chiamato dalla
Provvidenza a guidare una Chiesa, nella sua componente umana, in ritirata, complessata, sempre più
silenziosa e silenziata, attraversata dal dubbio e da una crisi dottrinale e
pastorale assai grave, manifestata dalla cosiddetta scelta religiosa. Questa chiedeva al laicato cristiano di
rinunciare, in quanto tale, alla presenza
pubblica, perché essa avrebbe comportato divisioni, polemiche, una pretesa ideologizzazione
del messaggio evangelico, dimenticando così che lo stesso Gesù aveva detto di
sé che avrebbe portato divisione e non
pace, e soprattutto mettendo da parte la regalità anche sociale di Cristo,
ben ricordata al mondo intero dall’enciclica Quas primas di Pio XI, dell’11 dicembre 1925, che fra l’altro
istituisce la solennità di Cristo Re. E infatti, nemmeno tre anni dopo l’inizio
del suo pontificato, il Papa santo dovette amaramente dire che
«Bisogna ammettere realisticamente e con
profonda e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono
smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si sono sparse a piene mani idee
contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate
vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni,
ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia; immersi nel “relativismo”
intellettuale e morale e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati
dall’ateismo, dall’agnosticismo, dall’illuminismo vagamente moralistico, da un
cristianesimo sociologico, senza dogmi definiti e senza morale oggettiva. […]
Oggi bisogna aver pazienza, e ricominciare tutto da capo, dai “preamboli della
fede” fino ai “novissimi”, con esposizione chiara, documentata, soddisfacente» (Discorso Al Convegno nazionale “Missioni
al popolo per gli anni 80”, 6 febbraio 1981).
Va perciò
subito osservato che, alla stregua di tanto, il lungo pontificato di San
Giovanni Paolo II (il terzo della storia, dopo quelli di Pietro e Pio IX)
restituirà autorità alla sacra dottrina con il CCC e il suo alto Magistero, ed
entusiasmo per sé alla Chiesa militante, liberandola da tanti complessi, anche
se solo in parte e, ovviamente, non in modo definitivo.
2. Intanto
nella storia nazionale si registra l’approvazione della nefanda legge 22 maggio
1978 n. 194, che legalizza e finanzia
integralmente l’aborto, in modo sostanzialmente libero nei primi tre mesi di
gestazione e con qualche pretesto nei mesi successivi. È il punto, fino ad
allora, di maggiore apostasia da parte dello stato italiano – e poi da parte
della stessa nazione, che confermerà nel 1981 con un voto plebiscitario
l’aborto libero e gratuito – dalla propria tradizione e identità cristiane. In
un certo senso un compimento di quella che altro non è se non la Rivoluzione anti-cristiana
in Italia. Il diritto alla vita è conculcato dai pubblici poteri, che ne fanno cosa loro; il secondo albero del Genesi
è attaccato. Questo terribile evento legislativo (dire legge è corrompere il
termine), ch’è sottoscritto solo da esponenti della Dc – dal presidente della
Repubblica ai membri del governo, il presidente del consiglio e i titolari dei
ministeri competenti –, succede immediatamente al rapimento (16-3-1978) e poi
uccisione (9-5-1978) da parte dei comunisti delle Brigate Rosse, del presidente
della Dc, Aldo Moro, che durante il dibattito parlamentare aveva detto che la
Dc non avrebbe fatto dell’aborto una questione politica, sì da interferire con
il processo di formazione d’una nuova maggioranza parlamentare che includesse
il Pci. E infatti, a latere, o
dentro, questa drammatica vicenda si situa il voto di fiducia del Pci – proprio
il giorno del rapimento di Moro, che con l’enfatizzazione dell’emergenza nazionale diede l’ultima spinta al governo di, cosiddetta, solidarietà nazionale – al quarto
governo Andreotti. Così il Pci fa il suo reingresso nell’area di governo
trentun’anni dopo la sua estromissione nel 1947. E se qualcuno opina che questo
fu effetto del compimento non d’un altro momento della Rivoluzione in Italia,
ma del processo di democratizzazione
e occidentalizzazione del Pci, per
meglio capire può essere sufficiente ricordare che Enrico Berlinguer, allora
segretario generale del Pci e mito della sinistra mondiale, ancora nel 1977, in un discorso all’assemblea degli
operai comunisti lombardi (Milano, 30-1-77), rispondeva «no», «a chi vuol portarci a negare quello che è
stato la Rivoluzione
di ottobre […], il ruolo che esercitano l’Unione Sovietica e
gli altri paesi socialisti […]; a chi
vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che
esistono in quei paesi» (E.
Berlinguer, Austerità. Occasione
per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 59). E di quale
segno fosse la trasformazione d’Italia di cui l’austerità imposta dalla crisi petrolifera poteva essere occasione, lo stesso non esitava a dirlo:
«introdurre […] alcuni elementi, fini, valori, criteri propri dell’ideale socialista»
(p. 25). Insomma, il socialismo reale era ancora per il Pci il mondo migliore, il paradiso in terra
verso cui far marciare tutti i popoli che ancora non avevano la fortuna di
appartenervi. E tutto questo mentre il Muro era ancora solido, i vopos
sparavano su chi tentasse di passarlo, il GULAG triturava la vita di milioni di
sventurati, e la catastrofe politica, economica e soprattutto antropologica
provocata dal socialcomunismo, sia come ideologia che come sistema e potere, in
pieno corso. E a chi eccepisse che si tratta di cose ormai passate, invito ad
osservare come il comunismo sia crollato sul mondo, con le sue pesantissime
macerie che ancora lo schiacciano e ci costringono a muoverci tra le rovine del
relativismo e del nichilismo, che ne sono l’intima essenza. Divorzio e aborto
in Italia, sono stati voluti, votati e sostenuti nei due confronti referendari
del 1974 e 1981 da Pci e dalla sua potente macchina
da guerra propagandistica.
Insomma, nel 1978, si
era sulla soglia dell’Italia rossa e la Chiesa era, storicamente e
sociologicamente parlando, all’angolo.
3. Il pontificato di
san Giovanni Paolo II diede una svolta a questa storia, e l’impero rosso lo capì
presto, tanto che dopo la visita pontificia in Polonia, che inspirò coraggio al
popolo cattolico e fu l’inizio della fine per il regime locale e per l’inte-ro
sistema sovietico, intensificò la repressione in Polonia, però senza riuscire
ad arginare il risveglio popolare e il suo rifiuto del comunismo, ed ordì un
piano per uccidere il Papa, che culminò nell’attentato del 13 maggio (Madonna
di Fàtima!) 1981. Ma la santa Vergine portoghese
era lì, e deviò la pallottola. Ma la svolta principale fu culturale e
psicologica, oltre che ovviamente, spirituale.
San Giovanni Paolo II,
in sintesi, consolidò quel che traballava e iniziò la ricostruzione di quel
ch’era stato demolito. In particolare con le tre encicliche quadro del pontificato.
Veritatis splendor (1993), Evangelium vitae (1995) e Fides et ratio (1998).
Esse sono le encicliche
che restaurano la cosa principale ch’era stata, se non perduta – in realtà non
può perdersi mai definitivamente –, dimenticata. La visione metafisica e non
storicistica del mondo. Le cose sono,
più che divengono. E quindi la storia non tritura e partorisce verità relative,
e perciò non è irreversibile nel suo preteso senso. Può esserci sempre un’alba
dopo un tramonto, ch’è piuttosto un’eclissi. Così i princìpi della vita non mutano
e per quanto non rispettati da molti o dai più, rimangono là, come luci che
orientano il cammino, e attendono solo chi le prenda di nuovo sul serio. Allora
si riteneva che il senso della storia fossero il comunismo e la modernizzazione
– secolarizzazione – etica. E molti uomini di Chiesa, molti, moltissimi, fedeli
si regolavano di conseguenza. Bisognava trovare un modus vivendi, e perciò eliminare dal campo chi, troppo rigido e poco incline a piegarsi al
vento della storia, ostacolasse questo gigantesco compromesso. L’ostpolitik vaticana, la relativizzazione
del dogma, della morale e la sostanziale secolarizzazione della liturgia, erano
le risposte prevalenti nella Chiesa a questa supposta sorpresa di Dio, a questa nuova rivelazione data dai segni dei tempi storici, cioè umani, e
quindi con fonte immanente e non più divina, trascendente la storia e le
sensibilità soggettive.
Ma san Giovanni Paolo
II si oppose e gridò ai cattolici, in realtà a tutto il mondo, non abbiate paura! Soprattutto non
abbiate paura d’essere impopolari, sforzatevi di essere salutari, nel senso
della salute eterna, vivendo e dicendo le verità di sempre per dare gloria alla
Verità eterna.
4. Stasera ricordiamo in modo speciale
l’enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana, Evangelium vitae [E.V.], del 25 marzo 1995.
Anzitutto essa rammenta che, «Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo
sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non
senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge
naturale scritta nel cuore il valore sacro della vita umana dal primo inizio
fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere
rispettato questo suo bene primario» [n. 2].
Questa dimensione «naturale» della questione
del diritto alla vita e della vita, dal momento del suo inizio a quello della
sua fine, che comprende anche il «modo» in cui essa riceve l’inizio, la rende
«questione politica». Infatti, essa è comprensibile ad ogni uomo, quale che sia
il suo orizzonte religioso, e persino se non abbia un orizzonte religioso;
inoltre, è questione umana per eccellenza, che interpella ogni uomo, e «di
fronte alla quale» ogni uomo deve sentirsi posto. E considerata l’umana vocazione
sociale, non può che riflettersi nell’ordinamento della città dell’uomo, della polis, e raggiungere appunto una
dimensione «politica». L’E.V. ricorda che «sul
riconoscimento di tale diritto si fonda l’umana convivenza e la stessa comunità
politica» [n. 2], principio che la
parte III dell’Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede [CDF], Il rispetto della vita umana nascente e la
dignità della procreazione, Donum
vitae [D.V.], del 22 febbraio 1987, aveva già così definito: «Il diritto inviolabile
alla vita di ogni individuo umano innocente, i diritti della famiglia e
dell’istituzione matrimoniale […] sono elementi costitutivi della società
civile e del suo ordinamento».
La dimensione politica della
questione è riconosciuta anche da parte di chi ha una concezione diversa ed
erronea del diritto alla vita e della vita, tanto che «larghi strati dell’opinione pubblica giustificano
alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e,
su tale presupposto, ne pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione
da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con
l’intervento gratuito delle strutture sanitarie» [E.V. n. 4].
D’altra
parte, è anche vero, da un lato, che «la
legislazione civile di numerosi Stati conferisce oggi agli occhi di molti una
legittimazione indebita di certe pratiche» [D.V., p. III]; e dall’altro,
che «nella […] società altamente complessa le decisioni politiche permeano ogni
settore della vita, e concorrono spesso ad indirizzare verso stili di vita
sempre più lontani dal senso cristiano. […] Una fede socialmente irrilevante non sarebbe più la fede esaltata
dagli Atti degli Apostoli e dagli scritti di Paolo e Giovanni» [san
Giovanni Paolo II ai vescovi dell’Emilia Romagna in visita «ad limina
apostolorum», 1 marzo 1991]. Perciò, se si negasse ogni rilevanza politica e culturale
della fede cristiana e di un’etica naturale, allora «si aprirebbe la strada ad un’anarchia morale che non potrebbe mai
identificarsi con nessuna forma di legittimo pluralismo. La sopraffazione del
più forte sul debole sarebbe la conseguenza ovvia di questa impostazione»
[CDF, Nota Dottrinale circa
alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici
nella vita politica (Nota),
n. 6].
Dunque, come ebbe solennemente a dire il cardinale
Joseph Ratzinger nel suo intervento al Concistoro Straordinario che si svolse
nella Città del Vaticano dal 4 al 7 aprile 1991, «non si tratta più di una problematica di morale
semplicemente individuale, ma di una problematica di morale sociale, a partire
dal momento in cui degli Stati e perfino delle organizzazioni internazionali,
si fanno garanti dell’aborto o dell’ eutanasia, votano delle leggi che le
autorizzano e pongono i mezzi a loro disposizione al servizio di coloro che li
eseguono» [II], insegnamento ripreso
e confermato da E.V., n. 17, in cui si parla dei «cattivi maestri» che hanno
avuto «il maggior successo possibile»,
sino a far sì che le minacce contro la vita non consistano più nei «Caino» che
uccidono gli «Abele», ma che si debba parlare «di minacce programmate in maniera scientifica e sistematica. «Il
ventesimo secolo verrà considerato un’epoca di attacchi massicci contro la vita».
5. Sembra
ormai chiaro il principio.
– La
questione del rispetto dovuto alla vita ha di per sé dimensione pubblica, tanto
che si può dire che una delle ragioni per le quali gli individui naturalmente
si associano, si consorziano in comunità sempre più ampie, costituendo le loro
«città» (termine il cui senso può essere esteso fino a descrivere con esso una
compagine [governo, meglio impero] universale), è proprio per ottenere il
rispetto e la tutela della propria incolumità, ed in ultima analisi della loro
vita e della possibilità di condurla quanto più serenamente possibile fino al
suo termine naturale.
Ed anche
il fatto.
– È
innegabile che quello della vita sia tema dominante e preoccupante, tanto che,
per esempio, negli Stati Uniti[1]
è uno di quelli che caratterizzano le campagne elettorali: la questione della
vita non è solo un problema di morale individuale, o, come si dice, «di
coscienza», ma anche di «morale sociale», come affermato dal cardinale Ratzinger,
quindi politica, quindi giuridica, se è vero – come è vero – che ubi societas (ed a fortiori, ubi civitas),
ibi ius.
6. Il
Catechismo della Chiesa Cattolica è il secondo ufficiale promulgato in duemila
anni di storia (!), sebbene ve ne sia anche uno antichissimo, la Didachè, risalente al tempo fra la fine
del I secolo e l’inizio del II, scoperto nel 1875, che già insegnava che «vi sono due vie, una della vita e l’altra
della morte…[…] Non ucciderai, non farai
perire il bambino con l’aborto né l’ucciderai dopo che è nato»). Esso, dal
numero 2259 al 2283 tratta del rispetto dovuto alla vita umana, e quindi
dichiara gravemente contrari alla legge morale, ma anche alla legge naturale
cui si dovrebbe informare la legge civile, le pratiche dell’aborto e
dell’eutanasia; dal numero 2373 al 2379, si occupa delle tecniche di
procreazione artificiale, dichiarando anche queste immorali e contrarie
all’ordine ed alla legge naturali. Tali principi sono ricavati – o sono stati
confermati ed approfonditi – da altri documenti del Magistero, in particolare
dalle già citate Istruzione Donum vitae
ed enciclica Evangelium vitae. In
modo speciale, poi, datata 24 novembre 2002, ma recentemente pubblicata con
l’approvazione del Sommo Pontefice che così l’ha fatta propria, è stata messa a
disposizione dei fedeli la Nota
Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno
e il comportamento dei cattolici nella vita politica, anch’essa già
ricordata, che riassume e sintetizza, adattandolo alle esigenze del tempo
presente, il Magistero su una vocazione che ha il senso di favorire la rilevanza
pubblica della Fede, senza la quale questa rischia di trovare un terreno culturale,
sociale e storico mal disposto, realizzazione «ambientale» della parte negativa
dell’evangelica parabola del seminatore.
Ora, la Nota ricorda che vi sono materie che non
tollerano pluralismo alcuno, ed esigono l’unità dei cattolici. Tra quelli indicati
dalla Nota vi è «il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia (da non
confondersi con la rinuncia
all’accani-mento terapeutico, la quale è, anche moralmente, legittima),
che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento
fino al suo termine naturale. Allo stesso modo occorre ribadire il dovere
di rispettare e proteggere i diritti dell’embrione umano» [n. 4].
Quest’insegnamento – che è fondato sui principi del
diritto naturale, come tale vigente in ogni tempo ed in ogni luogo abitato
dall’uomo – esclude che, ancorché sia stato posto democraticamente, il
cattolico possa accettare «il diritto contro la vita», cioè la legalizzazione
di pratiche abortive, eutanasiche o che vìolino il mistero della nascita e
della formazione della vita, manipolandone le origini, gli esiti o utilizzando
l’uomo all’inizio della sua esistenza, cioè allo stato di embrione, per
finalità persino le più nobili, ma che comunque lo riducano al livello di
«strumento».
Dunque, nemmeno la democrazia ha la capacità
taumaturgica di sanare il male morale, trasformandolo in bene mediante le sue
procedure. «[…] la democrazia non può essere mitizzata fino a farne
un surrogato della moralità o un toccasana dell’im-moralità. Fondamentalmente
essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo
carattere “morale” non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge
morale a cui, come ogni altro comportamento umano deve sottostare: dipende cioè
dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. […] il
valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove»
[E.V., n. 70].
Viene così condannata la «religione democratica» ed
il suo postulato culturale, cioè il relativismo etico, che discende dalla negazione
della verità per effetto dell’e-mancipazione della ragione da ogni autorità e
tradizione, che induce ad un soggettivismo esasperato, travestito da primato
della libertà e della coscienza: «Ogni volta che la libertà, volendo
emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze
primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e
sociale, la persona finisce con l’assumere come unico e indiscutibile riferimento
per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva
e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio» [E.V. n. 19].
Ritenere
invece che «[…] l’alleanza fra democrazia e relativismo etico» [Veritatis splendor]
sia assolutamente inevitabile, significa giungere all’«esito nefasto» di un
diritto che «cessa di essere tale, perché
non è più solidamente fondato sull’inviolabile dignità della persona, ma viene
assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle
sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non
è più la “casa comune” dove tutti possono vivere secondo principi di
uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che
presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non
ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà,
che l’interesse di alcuni. Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della
legalità, almeno quando le leggi che permettono l’aborto o l’eutanasia vengono
votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità siamo di fronte
solo a una tragica parvenza di legalità» [E.V. n. 20].
Questo «sostanziale totalitarismo»
conduce ad «un aumento prometeico di
potere sulla natura umana, al punto che il codice genetico umano stesso viene
misurato in termini di costi e benefici» [san Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla plenaria della
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001), n. 3].
Allora, l’uomo, viepiù convinto dalla
protezione e dalla malleveria delle leggi civili, «[…] chiuso nel ristretto
orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a “una cosa” e non
coglie più il carattere “trascendente” del suo “esistere come uomo”. […] Egli si preoccupa solo del “fare” e,
ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare, controllare e
dominare la nascita e la morte» [E.V., n. 21]. Pretende così di sfuggire
alla «domanda angosciante» sul senso dell’esistenza, sul senso di ogni
esistenza umana, della sua, di quella degli altri, di quella ventura e di
quella al tramonto, assicurandosi «un
dominio quanto più completo possibile su questi due momenti chiave della vita,
che cerca di trasferir[e] nella zona
del fare. In tal modo l’uomo si illude di possedere se stesso, godendo di una
libertà assoluta: egli potrebbe essere fabbricato secondo un calcolo che non
lascia nulla all’incerto, nulla al caso, nulla al mistero» [card. J.
Ratzinger, al Concistoro straordinario, V, 1]. «Si tratta […] di assicurarsi
un dominio completo della procreazione, che respinge persino l’idea di un
figlio non programmato» [V, 2].
«Le
visioni di Huxley divengono decisamente realtà: l’essere umano non deve essere
più generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente. Ma dell’uomo come
prodotto dispone l’uomo. Gli esemplari imperfetti vanno scartati, per tendere
all’uo-mo perfetto, sulla via della pianificazione e della produzione. La
sofferenza deve scomparire, la vita deve essere solo piacevole. Tali visioni
radicali sono ancora isolate, per lo più in molte maniere attenuate, ma il
principio di comportamento, secondo cui è lecito all’uomo fare tutto ciò che è
in grado di fare, si afferma sempre di più. […] così nascono nuove
oppressioni, e nasce una nuova classe dominante. Ultimamente, del destino degli
altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro
che amministrano i mezzi». [card. J. Ratzinger, discorso al seminario
«Ambrosetti» a Cernobbio, settembre 2001].
Anche una mente non cristiana, o da un
certo punto in poi della sua vita «non più» cristiana, ma comunque umanamente
cosciente delle tragedie del nostro tempo, Martin Heidegger, consapevole della
dimensione faustiana («In principio era
l’azione», dichiara Mefistofele), da vero e proprio patto con il diavolo,
del primato della téchne, del «fare»,
dell’azione, affermava nella sua Lettera
sull’umanismo che l’uomo d’oggi piuttosto che chiedersi «che fare» avrebbe
dovuto cominciare a porsi il problema di che cosa «non fare», di che cosa
«lasciare in pace», di rispettare il mistero e la sacralità del creato,
dell’uomo e della vita [cfr. M. Heidegger, Lettera
sull’«umanismo», Adelphi, Milano 2000].
7. Mi
pare ormai chiaro che, se «le varie
tecniche di riproduzione artificiale […] riducono la vita umana a semplice “materiale biologico” di cui poter
liberamente disporre» [E.V. n. 14], e che se aborto ed eutanasia si pongono
in un rapporto di preteso dominio sulla vita e sulla morte, allora un diritto
che non contrasti simili azioni, anche con
«appropriate sanzioni penali» [D.V. p. III], meriti, anzi esiga, da parte
dei cattolici – ma anche da parte di ogni uomo che sappia e voglia bene
intendere e bene volere – l’«obbligo di reagire»: i cattolici hanno «il “preciso obbligo di opporsi” ad ogni
legge che risulti un attentato alla vita umana» [Nota, n. 4], e così servire il Vangelo della vita.
Tale
reazione, ch’è una resistenza attiva, ha come unico fondamento possibile la
concezione secondo la quale «l’intangibilità
della dignità umana dovrebbe diventare il pilastro fondamentale degli
ordinamenti etici, che non dovrebbe essere toccato. Solo se l’uomo si riconosce
come scopo finale e solo se l’uomo è sacro e intangibile per l’uomo, possiamo
avere fiducia l’uno nell’altro e vivere insieme nella pace. Non esiste nessuna
ponderazione di beni che giustifichi di trattare l’uomo come materiale di
esperimento per fini più alti. […] questa
dignità vale per ciascuno che abbia un volto umano e appartenga biologicamente
alla specie umana. […] Anche l’essere
umano sofferente, disabile, non ancora nato è un essere umano. […] a questo deve essere unito anche il rispetto
per l’origine dell’uomo dalla comunione di un uomo e di una donna. L’essere
umano non può divenire un prodotto. Egli non può essere prodotto, può solo
essere generato» [Ratzinger a Cernobbio].
È un servizio che deve inoltre essere
consapevole delle difficoltà del tempo nostro, che importa la necessità di
un’azione tesa a «ottenere su tali punti
essenziali il consenso più vasto possibile nella società, e a consolidarlo
laddove esso rischiasse di essere indebolito e di venir meno» [D.V., p.
III]. Tale consenso oggi certamente non è maggioritario, il che esige da parte
nostra, nel quadro della Opzione
Benedetto, come cattolici, ma non solo, un’instancabile ed ininterrotta
opera di formazione culturale e d’informazione (ma meglio sarebbe dire
«contro-formazione» e «contro-informa-zione») capillare sull’esigenza di riconoscere
i diritti fondamentali di ogni umana convivenza, ed ai quali lo Stato,
l’ordinamento, la città debbono protezione, perché possono solo «riconoscerli»,
mai «concederli» e men che meno negarli o anche solo limitarli. «Fra tali diritti fondamentali bisogna a
questo proposito ricordare: 1. il diritto alla vita e all’integrità fisica
di ogni essere umano dal momento del concepimento alla morte; 2. i
diritti della famiglia e del matrimonio come istituzione e, in questo ambito,
il diritto per il figlio a essere concepito, messo al mondo ed educato dai suoi
genitori» [D.V. p. III]. Il
pluralismo delle opinioni e delle tendenze, che caratterizza la nostra società
postmoderna e culturalmente dis-omogenea, impone inoltre che, in vista del
«bene possibile» (per esempio anche solo emendare una legge contro la vita,
allorché sia ben noto l’impegno integrale per la vita del politico che opera
[E.V. n. 73]), sia «la prudenza
cristiana, che è la virtù propria del politico cristiano, ad indicargli come
comportarsi per non venir meno, da una parte, al richiamo della sua coscienza
rettamente formata, e non mancare, dall’altra, al suo compito di legislatore.
Non si tratta, per il cristiano di oggi, di uscire dal mondo in cui la chiamata
di Dio l’ha posto, ma piuttosto di dare testimonianza della propria fede e di
essere coerente con i propri principi, nelle difficili e sempre nuove
circostanze che caratterizzano l’ambito della politica» [san Giovanni Paolo
II, Giubileo dei politici, n. 4]. Ma la pluralità d’opinioni, ed anche il fatto
che le sue siano minoritarie, non potrà mai impedire – e neppure impedirsi – al cattolico in quanto tale
di avanzare le sue proposte e di battersi per esse. Sia perché egli non è meno
cittadino degli altri, sia perché queste, seppure nutrite e rese più chiare
dalla Fede, non si fondano solo su di essa, ma sull’evidenza razionale dei
diritti dell’uomo e delle esigenze del bene comune, che mai possono tollerare
che l’uomo sia violato e strumentalizzato foss’anche – ma lo è davvero? – a fin
di bene. Nessuno può dire chi è uomo e chi non, quando lo si diventa o quando
si cessa di esserlo, pena il pretendere una signoria sull’umano che solo i
mostruosi Stati totalitari del secolo scorso hanno affermato e praticato. «Nel contempo, invocando ingannevolmente il
valore della tolleranza, a una buona parte dei cittadini — e tra questi ai
cattolici — si chiede di rinunciare a contribuire alla vita sociale e politica
dei propri Paesi secondo la concezione della persona e del bene comune che loro
ritengono umanamente vera e giusta, da attuare mediante i mezzi leciti che
l’ordinamento giuridico democratico mette ugualmente a disposizione di tutti i
membri della comunità politica. La storia del XX secolo basta a dimostrare che
la ragione sta dalla parte di quei cittadini che ritengono del tutto falsa la
tesi relativista secondo la quale non esiste una norma morale, radicata nella
natura stessa del-l’essere umano, al cui giudizio si deve sottoporre ogni
concezione dell’uomo, del bene comune e dello Stato» [Nota, n. 2]. «Coloro che in nome del rispetto della coscienza
individuale volessero vedere nel dovere morale dei cristiani di essere coerenti
con la propria coscienza un segno per squalificarli politicamente, negando loro
la legittimità di agire in politica coerentemente alle proprie convinzioni
riguardanti il bene comune, incorrerebbero in una forma di intollerante laicismo» [Nota, n. 6].
L’impegno dei cattolici in difesa della
vita, dunque, è assolutamente doveroso. Esso è consapevole del fatto che «ogni comunità politica, per sussistere,
deve riconoscere almeno un minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati
tramite convenzioni sociali, ma precedenti ogni regolamentazione politica del
diritto» [Ratzinger al Concistoro, IV, 1]; è fondato sul principio secondo
il quale «ciò che è tecnicamente
possibile non è per ciò stesso moralmente ammissibile» [D.V., Introduzione,
n. 4]; è finalizzato alla tutela del bene comune – di cui l’integrale
riconoscimento del diritto alla vita in ogni suo aspetto è parte assolutamente
imprescindibile – e non di un preteso fine particolare.
Ma l’impegno dei cattolici, la loro
risposta all’«obbligo di reagire» se «il diritto è contro la vita», è anche
nutrito dalla certezza che «la fede nel
Dio creatore è la più sicura garanzia della dignità dell’uomo. Non può essere
imposta a nessuno, ma poiché è un grande bene per la comunità, può avanzare la
pretesa del rispetto da parte dei non credenti» [Ratzinger a Cernobbio].
Perché sappiamo – senza supponenza alcuna, ma sappiamo – che, come ha affermato
Giovanni Reale, il tentativo di fondare un’etica senza Dio equivale a quello di
trarsi fuori dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli (e questo vale certamente
anche per l’elementare etica politica), e che «[…] difendendo l’uomo contro
gli eccessi del suo stesso potere, la Chiesa di Dio gli ricorda i titoli della
sua vera nobiltà» [D. V., Conclusione].
A proposito della Corte Costituzionale italiana e del suo rinvio di decisione a proposito del "suicidio assistito": se la Corte ha valutato che sia illogico permettere il distacco di macchinari salvavita e non permettere l'"eutanasia" di persone non dipendenti da macchinari, perché la presenza di macchinari è un accidente casuale rispetto alla vita umana, la soluzione giusta potrebbe essere non di consentire l' "eutanasia" per tutti, ma di proibire il distacco dei macchinari.
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