Avevamo già pubblicato la recensione al bel libro "Missa in scena" di Luigi Martinelli (autore per altro di "Le forme del sacro" sulla potenza della simbologia sacra della Messa antica): riproponiamo l'intervista rilasciata dall'autore a iTempi.it del 26.08.2017 in merito al suo libro e all'importanza di una "riforma della riforma liturgica" come suggeriva Benedetto XVI.
Roberto
Perché occorre tornare a Messe dove i preti parlino meno e celebrino di più
«Il sentimenti del timore e del sacro sono i sentimenti che
palpiterebbero in noi, e con forte intensità, se avessimo la visione
della Maestà di Dio. Nella misura in cui ci rendiamo conto della
presenza di Dio, dobbiamo avvertirli. Se non li avvertiamo, è perché non
percepiamo che egli è presente». Così il beato cardinale John Henry
Newman mette il cattolico medio di fronte ad una difficoltà
inconfessabile: la (malcelata) distrazione che lo avvolge durante il
rito della Messa. Con il suo secondo saggio sulla performance del rito
romano, Luigi Martinelli rimanda il lettore a ciò che il rito liturgico
per sua essenza dovrebbe essere («mysterium tremendum, shock, vertigine,
pericolo») se solo coloro che concordano sulla diagnosi di una liturgia
cattolica impoverita da una pesante logomachia non dissentissero sulle
terapie da approntare. Il merito di Martinelli è anche questo, aver
squadernato, padroneggiando la più qualificata letteratura scientifica,
un fatto notorio ma silenziato: l’attuazione della riforma non ha dato
gli effetti sperati. Non è riuscita a far passare lo “spirito della
liturgia”, o lo ha fatto solo in minima parte. Non ha educato al senso
religioso. Dopo Le forme del sacro (con entusiastica prefazione
di monsignor Nicola Bux) lo studioso di teatro Luigi Martinelli torna
dunque ad affrontare il tema dell’efficacia del rito liturgico. Lo fa
con un saggio in uscita in questi giorni, Missa in scena (Cavinato
Editore, 2017, 359 pagine) titolo che, giocando con le parole, accosta
rito e teatro per raccogliere suggestioni e possibili sviluppi pastorali
dall’osmosi dei due mondi. Tempi.it lo ha incontrato.
Martinelli,
ai mali della liturgia riformata lei non propone il rimedio di un
ritorno all’antico, ma insiste sulla presa di coscienza della vera
essenza dell’atto di culto, che concepito non adeguatamente rischia di
perdere la sua efficacia. È così?
Certo. Non sarà la sostituzione del Vetus Ordo al Novus Ordo la soluzione che riporterà la performatività rituale, la centralità del sacrificio e la “pericolosità” del rito nella liturgia cattolica
postconciliare. Credo però che il Novus Ordo debba riformarsi
ulteriormente se vuole tornare ad essere un evento incisivo e
determinante nella vita spirituale dei fedeli cattolici, attingendo
maggiormente agli elementi rituali tradizionali della liturgia
cattolica. Deve riscoprire la centralità del corpo, la forza dei
simboli, l’efficacia della lingua sacra, l’importanza di una musica e di
un canto adatti, ma soprattutto deve ritrovare il primato della forma
sul contenuto, riscoprendo l’importanza della ri-presentazione
performativa sacrificale. Urge attivare seri procedimenti di riflessione
sull’efficacia dell’ars celebrandi.Certo. Non sarà la sostituzione del Vetus Ordo al Novus Ordo la soluzione che riporterà la performatività rituale, la centralità del sacrificio e la “pericolosità” del rito nella liturgia cattolica
Anche se non auspica un semplice ritorno al passato, è però
vero che lei rileva alcune criticità performative nella Messa celebrata
secondo la forma ordinaria del rito romano. Quali esattamente?
La riforma liturgica degli anni Sessanta ha riformato il rito riferendosi quasi esclusivamente al legòmenon, cioè alle parole, ai testi, alle traduzioni, alle semplificazioni linguistiche e comunicative. Tuttavia il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, ma solo più povere. L’attuale rito è caratterizzato da un certo razionalismo, che si traduce nell’eccessivo verbalismo, nella sovraesposizione fonetica. In esso hanno sempre più importanza le parole, i discorsi, le esortazioni, i ragionamenti mentre le azioni i gesti e i movimenti sono ridimensionati. Penso alle genuflessioni, agli inchini, alle prostrazioni, all’innalzamento degli occhi e delle braccia, ai segni di croce, ai baci; a tutto ciò che il Servo di Dio don Eugenio Bernardi definiva come attività che «agiscono sulle facoltà interiori aumentandone le potenzialità». Il rito liturgico postconciliare non è più vissuto come esperienza ma come conoscenza, è divenuto un fatto cognitivo più che un fatto performativo.
La riforma liturgica degli anni Sessanta ha riformato il rito riferendosi quasi esclusivamente al legòmenon, cioè alle parole, ai testi, alle traduzioni, alle semplificazioni linguistiche e comunicative. Tuttavia il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, ma solo più povere. L’attuale rito è caratterizzato da un certo razionalismo, che si traduce nell’eccessivo verbalismo, nella sovraesposizione fonetica. In esso hanno sempre più importanza le parole, i discorsi, le esortazioni, i ragionamenti mentre le azioni i gesti e i movimenti sono ridimensionati. Penso alle genuflessioni, agli inchini, alle prostrazioni, all’innalzamento degli occhi e delle braccia, ai segni di croce, ai baci; a tutto ciò che il Servo di Dio don Eugenio Bernardi definiva come attività che «agiscono sulle facoltà interiori aumentandone le potenzialità». Il rito liturgico postconciliare non è più vissuto come esperienza ma come conoscenza, è divenuto un fatto cognitivo più che un fatto performativo.
E
la famosa “actuosa partecipatio” alla liturgia, quella “partecipazione
attiva” che deve coinvolgere i fedeli e con cui nel postconcilio sono
cresciuti i sacerdoti di tutto il mondo?
È, appunto, soltanto un mito. La cosiddetta “partecipazione attiva” coinvolge i fedeli solo a livello razionale, e ciò fa sì che sia la preghiera a soffrirne, perché richiede più sforzo mentale (da qui la distrazione e quindi la noia). Su questo dato, che è empiricamente sperimentabile, sono d’accordo praticamente tutti. Potrei citare gli studi dei più stimati liturgisti contemporanei, da Roberto Tagliaferri ad Aldo Natale Terrin, da Loris dalla Pietra a Jakob Baumgartner, come quelli di illustri esponenti del clero cosiddetto progressista. Valutando gli esiti della riforma, per esempio, perfino il primate belga Godfried Danneels ha lamentato una liturgia «esclusivamente orientata verso l’intelletto», in cui «bisogna ammettere che la lingua e gli orecchi sono i soli organi utilizzati nella liturgia».
È, appunto, soltanto un mito. La cosiddetta “partecipazione attiva” coinvolge i fedeli solo a livello razionale, e ciò fa sì che sia la preghiera a soffrirne, perché richiede più sforzo mentale (da qui la distrazione e quindi la noia). Su questo dato, che è empiricamente sperimentabile, sono d’accordo praticamente tutti. Potrei citare gli studi dei più stimati liturgisti contemporanei, da Roberto Tagliaferri ad Aldo Natale Terrin, da Loris dalla Pietra a Jakob Baumgartner, come quelli di illustri esponenti del clero cosiddetto progressista. Valutando gli esiti della riforma, per esempio, perfino il primate belga Godfried Danneels ha lamentato una liturgia «esclusivamente orientata verso l’intelletto», in cui «bisogna ammettere che la lingua e gli orecchi sono i soli organi utilizzati nella liturgia».
In effetti nella prospettiva del suo saggio appaiono molto
interessanti le parole del cardinal Dannels, soprattutto se si pensa che
sono pronunciate da chi che ha parlato pubblicamente e con una certa
soddisfazione della “mafia di San Gallo”.
Decisamente. Sbaglierebbe chi pensasse che solo Benedetto XVI indicasse e si addolorasse per i gravi problemi liturgici attuali. D’altronde è ancora il cardinale Dannels a riconoscere che – sono ancora parole sue – «la liturgia non è né il luogo e né il momento adatto per la catechesi». Ripeto: il rito è stato usato come un contenitore di dottrine e di verità ortodosse a dispetto della sua specifica vocazione di produrre esperienza religiosa. La riforma liturgica sembra aver promosso una liquefazione dei riti per elargire i contenuti. Per comunicare utilizza quasi esclusivamente la parola. È un rito verbale in cui vi è strutturalmente una mortificazione e un impoverimento del rituale, la sproporzione tra la durata della liturgia della parola e quella della liturgia eucaristica, del resto, è lì a dimostrarlo. Non viene lasciato tempo sufficiente all’immaginazione, all’elemento affettivo, all’emozione, alla bellezza, al mistero.
Decisamente. Sbaglierebbe chi pensasse che solo Benedetto XVI indicasse e si addolorasse per i gravi problemi liturgici attuali. D’altronde è ancora il cardinale Dannels a riconoscere che – sono ancora parole sue – «la liturgia non è né il luogo e né il momento adatto per la catechesi». Ripeto: il rito è stato usato come un contenitore di dottrine e di verità ortodosse a dispetto della sua specifica vocazione di produrre esperienza religiosa. La riforma liturgica sembra aver promosso una liquefazione dei riti per elargire i contenuti. Per comunicare utilizza quasi esclusivamente la parola. È un rito verbale in cui vi è strutturalmente una mortificazione e un impoverimento del rituale, la sproporzione tra la durata della liturgia della parola e quella della liturgia eucaristica, del resto, è lì a dimostrarlo. Non viene lasciato tempo sufficiente all’immaginazione, all’elemento affettivo, all’emozione, alla bellezza, al mistero.
Nel suo saggio lei riporta riflessioni sul postconcilio del
cardinal Martini che potrebbero interrogare molti. Ad esempio questa:
«Tutto doveva essere chiaro, intellegibile, le preghiere dovevano essere
intese dalla gente, tutto doveva essere regolato dalle leggi della
comunicazione sociale, ma l’uomo ha una dimensione misteriosa, ci sono
delle esplosioni interne della fede che nella liturgia precedente,
attraverso il mistero, erano tutte meglio presenti». Se sono tutti
d’accordo sulla diagnosi, se cioè tutte le diverse sensibilità
ecclesiali indicano gli stessi problemi di fondo, come mai il rito
cattolico oggi conosce la sorte da lei descritta?
Perché il postconcilio, nel suo mood anarchico di fondo, non è stato all’altezza del Concilio. In altre parole perché i sostenitori della riforma liturgica se da una parte ne riconoscono i limiti dall’altra continuano a sbagliare la terapia. Per risolvere i problemi vorrebbero andare ulteriormente oltre la riforma del Vatinano II, con esiti e proposte incerte, multiformi, differenziate, sincretiste, iper-creative, postmoderne. Non è un caso che si vociferi sull’esistenza di una commissione mista di cattolici, luterani e anglicani intenta a mettere a punto una messa a cui far partecipare i fedeli di tutte e tre le confessioni. Come scrive Roberto Tagliaferri, docente di antropologia e liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di S.Giustina a Padova, a oltre 50 anni dal Concilio Vaticano II «la questione della forma rituale in quanto performance rimane un problema ecclesiale assolutamente disatteso». Occorrerebbe una decisa presa di posizione, ma nella giusta direzione.
Perché il postconcilio, nel suo mood anarchico di fondo, non è stato all’altezza del Concilio. In altre parole perché i sostenitori della riforma liturgica se da una parte ne riconoscono i limiti dall’altra continuano a sbagliare la terapia. Per risolvere i problemi vorrebbero andare ulteriormente oltre la riforma del Vatinano II, con esiti e proposte incerte, multiformi, differenziate, sincretiste, iper-creative, postmoderne. Non è un caso che si vociferi sull’esistenza di una commissione mista di cattolici, luterani e anglicani intenta a mettere a punto una messa a cui far partecipare i fedeli di tutte e tre le confessioni. Come scrive Roberto Tagliaferri, docente di antropologia e liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di S.Giustina a Padova, a oltre 50 anni dal Concilio Vaticano II «la questione della forma rituale in quanto performance rimane un problema ecclesiale assolutamente disatteso». Occorrerebbe una decisa presa di posizione, ma nella giusta direzione.
Si è chiesto da dove venga quell’eccesso di verbalismo che la sua analisi descrive come “soffocante” il rito cattolico?
Viene – lo dico con dolore – da una sfiducia nel rito. È questo il motivo per cui si tende a spiegare, legittimare e persino “scusare” il rito con l’ausilio delle parole: non si crede più nell’efficacia dell’azione rituale in quanto tale. Perfino nella splendida liturgia della veglia pasquale il sacerdote spiega a profusione l’autoevidente significato dell’accensione e spegnimento delle candele. Il cardinal Kasper, che non è esattamente un lefebvriano, scriveva che «abbiamo preti che parlano troppo ma celebrano poco». L’ossessione di dare significato ai riti distrugge l’azione liturgica nella sua essenza pragmatica, e soprattutto ne limita il potenziale mistagogico di introdurre i fedeli in una nuova esperienza religiosa. Per Francois Cassingena-Trevedy, monaco benedettino e liturgista, i sacramenti, e di conseguenza la liturgia, non dipendono dalla sfera dell’intellettuale ma coinvolgono l’ambito fisico. Operano cioè un’assunzione integrale del sensibile, perché – molto semplicemente – si inseriscono nell’“economia dell’incarnazione”.
Viene – lo dico con dolore – da una sfiducia nel rito. È questo il motivo per cui si tende a spiegare, legittimare e persino “scusare” il rito con l’ausilio delle parole: non si crede più nell’efficacia dell’azione rituale in quanto tale. Perfino nella splendida liturgia della veglia pasquale il sacerdote spiega a profusione l’autoevidente significato dell’accensione e spegnimento delle candele. Il cardinal Kasper, che non è esattamente un lefebvriano, scriveva che «abbiamo preti che parlano troppo ma celebrano poco». L’ossessione di dare significato ai riti distrugge l’azione liturgica nella sua essenza pragmatica, e soprattutto ne limita il potenziale mistagogico di introdurre i fedeli in una nuova esperienza religiosa. Per Francois Cassingena-Trevedy, monaco benedettino e liturgista, i sacramenti, e di conseguenza la liturgia, non dipendono dalla sfera dell’intellettuale ma coinvolgono l’ambito fisico. Operano cioè un’assunzione integrale del sensibile, perché – molto semplicemente – si inseriscono nell’“economia dell’incarnazione”.
Lei sostiene che col sostegno epistemologico del
razionalismo, una certa teologia abbia spezzato il legame tra rito ed
evento così come ce l’ha insegnato la Bibbia e la tradizione
mistagogica. Quale sarebbe allora la vera funzione del rito?
Rispondo con una domanda: come fare a trasmettere quel senso di gravità, di pericolosità, di vertigine tipiche di un rito sacrificale (come dovrebbe essere la messa) solo attraverso le parole? Il rito è e deve tornare ad essere “pericoloso”, perché è trasformativo della realtà e delle persone, perché ribalta la vita normale trasportandola in un’altra dimensione. Lo smarrimento dei linguaggi del corpo, dei segni e dei simboli all’interno della liturgia ha reso il rito più rassicurante, tranquillizzante, lo ha ammorbidito. Ma un rito che non sia, appunto, pericoloso, abitato da vertigine e mistero, non solo diventa noioso, ma rinuncia totalmente alla sua prerogativa di innovazione del mondo. È dalla natura “traumatica” che deriva il fascino del rito, un gioco d’azzardo in cui scommettere tutto per ritrovare un mondo diverso, un “io” diverso.
Rispondo con una domanda: come fare a trasmettere quel senso di gravità, di pericolosità, di vertigine tipiche di un rito sacrificale (come dovrebbe essere la messa) solo attraverso le parole? Il rito è e deve tornare ad essere “pericoloso”, perché è trasformativo della realtà e delle persone, perché ribalta la vita normale trasportandola in un’altra dimensione. Lo smarrimento dei linguaggi del corpo, dei segni e dei simboli all’interno della liturgia ha reso il rito più rassicurante, tranquillizzante, lo ha ammorbidito. Ma un rito che non sia, appunto, pericoloso, abitato da vertigine e mistero, non solo diventa noioso, ma rinuncia totalmente alla sua prerogativa di innovazione del mondo. È dalla natura “traumatica” che deriva il fascino del rito, un gioco d’azzardo in cui scommettere tutto per ritrovare un mondo diverso, un “io” diverso.
In Missa in scena cita spesso antropologi come
Victor Turner, massmediologi come McLuhan. Un ruolo di riguardo però lo
riserva al grande commediografo Antonin Artaud. Qual è il ruolo
specifico del teatro nel suo studio sulla liturgia?
Anche il teatro occidentale per un certo periodo della sua storia, prevalentemente dall’umanesimo fino al teatro borghese ottocentesco, aveva ripiegato sul razionalismo, ma nel Novecento, grazie a maestri come Artaud, Copeau, Mejerchol’d, Grotowski, Barba e molti altri, ha riscoperto le sue origini rituali valorizzando il ruolo del corpo, dei simboli, degli attori. Si è riscoperto come evento tridimensionale, in cui parola, corpo e azione si amalgamano tra loro per permettere agli spettatori di vivere un’esperienza irripetibile nell’hic et nunc. La liturgia, proprio come ha fatto il teatro, dovrebbe dunque tornare a mettere in primo piano la dimensione scenica rituale. L’operazione è possibile solo se si restituisce al rito il suo linguaggio proprio, che è “pragmatico”. Ha ragione Tagliaferri a proporre alla liturgia il Teatro della Crudeltà di Artaud come esempio per rinnovarsi, per emanciparsi da una deriva che ha reso il rito sempre più predica, parenesi, didascalia, lettura biblica. Un ripetuto invito all’edificazione e niente più.
Anche il teatro occidentale per un certo periodo della sua storia, prevalentemente dall’umanesimo fino al teatro borghese ottocentesco, aveva ripiegato sul razionalismo, ma nel Novecento, grazie a maestri come Artaud, Copeau, Mejerchol’d, Grotowski, Barba e molti altri, ha riscoperto le sue origini rituali valorizzando il ruolo del corpo, dei simboli, degli attori. Si è riscoperto come evento tridimensionale, in cui parola, corpo e azione si amalgamano tra loro per permettere agli spettatori di vivere un’esperienza irripetibile nell’hic et nunc. La liturgia, proprio come ha fatto il teatro, dovrebbe dunque tornare a mettere in primo piano la dimensione scenica rituale. L’operazione è possibile solo se si restituisce al rito il suo linguaggio proprio, che è “pragmatico”. Ha ragione Tagliaferri a proporre alla liturgia il Teatro della Crudeltà di Artaud come esempio per rinnovarsi, per emanciparsi da una deriva che ha reso il rito sempre più predica, parenesi, didascalia, lettura biblica. Un ripetuto invito all’edificazione e niente più.
Nel precedente saggio aveva analizzato la ritualità cattolica
comparando sinotticamente la celebrazione della Messa secondo le due
forme del rito romano (ordinaria e straordinaria). Il punto di vista era
quella di un regista teatrale, il quale, dal banco di una chiesa invece
che dal più usuale golfo mistico, assistendo alle due forme del rito,
esamina criticamente ciò che vede e che vive. Il risultato vedeva il
rito antico vittorioso. È ancora di questo parere?
Ne sono sempre più convinto, pur restando uno strenuo sostenitore del biformalismo liturgico. Un grande esempio di come la liturgia può essere in grado di generare trascendenza attraverso i linguaggi del simbolo e della gestualità rituale ci viene dato dalla Messa celebrata secondo la forma straordinaria del rito romano. Forma riportata in auge dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. In essa, grazie all’utilizzo della lingua sacra, la parola viene liberata dall’urgenza di significare; i corpi del celebrante e dei fedeli mettono in atto una gamma notevole di gesti; il simbolo ha un grande spazio; il canto gregoriano, che la Costituzione liturgica del Vaticano II raccomandava, favorisce la contemplazione e l’apertura al trascendente; il silenzio – indispensabile per l’ascolto del linguaggio divino come non smette di ricordarci il prefetto della congregazione per il Culto divino cardinal Sarah – è “attivo”, svolgendosi infatti nei momenti del rito in cui l’azione liturgica si dispiega in tutta la sua pregnanza di significante e di significato. Tutto questo genera l’esperienza del sacro, un’esperienza che l’uomo contemporaneo ricerca disperatamente, e che se non trova nel rito cattolico cercherà altrove, anche in un altrove antitetico al cristianesimo.
Ne sono sempre più convinto, pur restando uno strenuo sostenitore del biformalismo liturgico. Un grande esempio di come la liturgia può essere in grado di generare trascendenza attraverso i linguaggi del simbolo e della gestualità rituale ci viene dato dalla Messa celebrata secondo la forma straordinaria del rito romano. Forma riportata in auge dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. In essa, grazie all’utilizzo della lingua sacra, la parola viene liberata dall’urgenza di significare; i corpi del celebrante e dei fedeli mettono in atto una gamma notevole di gesti; il simbolo ha un grande spazio; il canto gregoriano, che la Costituzione liturgica del Vaticano II raccomandava, favorisce la contemplazione e l’apertura al trascendente; il silenzio – indispensabile per l’ascolto del linguaggio divino come non smette di ricordarci il prefetto della congregazione per il Culto divino cardinal Sarah – è “attivo”, svolgendosi infatti nei momenti del rito in cui l’azione liturgica si dispiega in tutta la sua pregnanza di significante e di significato. Tutto questo genera l’esperienza del sacro, un’esperienza che l’uomo contemporaneo ricerca disperatamente, e che se non trova nel rito cattolico cercherà altrove, anche in un altrove antitetico al cristianesimo.
"Non sarà la sostituzione del Vetus Ordo al Novus Ordo la soluzione che riporterà la performatività rituale, la centralità del sacrificio e la “pericolosità” del rito nella liturgia cattolica". Mi meraviglio che questo Blog dia voce a una posizione di questo genere, che credo non sia condivisa da una buona percentuale dei suoi lettori. Ma davvero nella attuale situazione abbiamo bisogno di diffondere affermazioni come questa?
RispondiEliminaLa rumorosa 'logomania' del NO, che si manifesta in un continuo strillare, quando non si arriva al teatrino, non solo del sacerdote ma anche dei fedeli, trova la sua causa nella ideologia che volle sostituire alla dottrina della celebrazione 'in persona Christi' del sacerdote, l'assemblea di popolo del quale la SC raccomanda la più ampia,( ed equivoca !), partecipazione. E' necessario tornare alla fede del 'santo ed immacolato sacrificio' e non perdersi a disquisizioni sul valore di questa o quella esteriorità.
RispondiEliminapensate a quelli che per necessità (o anche per altri motivi) seguono la trasmissione televisiva della Messa. Sommersi da un torrente di parole, perché al celebrante si aggiunge e si sovrappone il commentatore televisivo, convinto di stare presentando un "evento mediatico" in stile festivaliero.
RispondiEliminaTornare SUBITO al Rito Tridentino!
RispondiEliminaSarebbe bello che qualcuno , con le Instruzioni in mano , facesse una piccola inchiesta per verificare quali verita' vengono propalate nelle Messe televisive , attraverso le trasmissioni televisive , quali comportamenti .
RispondiEliminaAl fine ultimo di invitare alla correzione .
Per esempio : se al mattino si trasmette la Messa in italiano , perche' alla sera non si trasmette la Messa in latino ?
Forse perche' non vogliono farci arricchire ?
Forse c'e' il pericolo che diventiamo troppo santi ?
O forse hanno paura che ci vengano le convulsioni , o che diventiamo tutti verdi , o che ci verra' l'orticaria !?!
Non è che al ritorno del Rito Tridentino si risolvono tutti i problemi che si vedono nelle liturgie odierne; ma la soluzione si trova nello studio delle fonti antiche, nel seguire e interpretare correttamente quanto indicato nei testi del CVII, nel messale attualmente in uso e nei numerosi testi scritti da Ratzinger.
RispondiEliminaIl cosiddetto studio delle 'fonti antiche', psicopatia dell'archeologismo dei riformatori, è stato condotto per giustificare pretestuosamente lo stravolgimento della liturgia. I testi del CVII sono un capolavoro di equivocità come dimostrato da un coacervo di interpretazioni contraddittorie.
RispondiEliminaChe un anonimo delle 16 proponga di salvare le cose con il NO non mi stupisce ma che la redazione sua voce a un articolo come questo mi stupisce eccome.
RispondiEliminaÉ un'intervista interessantissima,piena zeppa di spunti, grazie MiL!!
RispondiEliminaPosso aggiungere che chi si aggrappa ad una sola frase mostra la parte peggiore del "tradizionalismo"? Ormai l'ho detto.. ;-)
P.S.
Grazie infinite anche per i preziosissimi resoconti da Roma!