per il rinnovamento liturgico della Chiesa, nel solco della Tradizione - a.D. 2008 . - “Multa renascentur quae iam cecidere”
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venerdì 12 maggio 2017
Si può accedere all'Eucarestia solo se purificati
Un'altro approfondimento sulle problematiche relative alla S. Conunione in Amoris Letitia.
L
La Nuova Bussola Quotidiana, 19-4-2017, Riccardo Barile
«(Voi mariti e mogli) non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera» (1Cor 7,3). A partire da qui, san Gerolamo († 420) - notoriamente un “patito” della verginità e della vedovanza, tanto che i suoi avversari lo accusavano di intrattenere più amicizie femminili che maschili (all’epoca era un’accusa; oggi potrebbe essere un complimento di... non essere quello che in idioma felsineo si definisce un “busone”!) - San Gerolamo, dicevo, a partire da qui prosegue: «Che cosa è più grande: pregare o ricevere il corpo di Cristo? Certamente ricevere il corpo di Cristo. Ma se ciò che è di meno (= pregare) è impedito dall’unione carnale, ciò che è di più (= ricevere il corpo di Cristo) ne sarà molto di più impedito» (Lettera 49,15 A Pammachio; cf anche Contro Gioviniano I,7).
Mai sostenuta in documenti magisteriali di primaria importanza, l’idea e la conseguente prassi che l’accostarsi all’Eucaristia comportasse al meglio l’astensione dai rapporti coniugali in quel giorno o in un lasso di giorni precedenti, divenne un fiume carsico di notevole consistenza, ribadita anche in un lettera da un pastore mite come san Gregorio Magno († 604). Questo “consiglio” fu “anche” uno dei fattori che nella tarda antichità e nel Medioevo contribuì a diradare la pratica della comunione. Con molta attenuazione e con eleganza secentesca francese, anzi savoiarda, è presente ancora in san Francesco di Sales († 1622), che consiglia a una buona signora (e al di lei marito): «È cosa poco conveniente, benché non sia un grande peccato, chiedere la soddisfazione del debito coniugale nel giorno in cui si è fatta la comunione; ma non è sconveniente, anzi direi che è meritorio, renderlo» (Filotea II,20).
Certo che a leggere questi testi l’impressione è di trovarsi in un mondo e in una Chiesa alla rovescia rispetto alle problematiche attuali: altro che comunione ai divorziati risposati e ai conviventi! Ma di che cosa di trattava? Di Vangelo o di cultura?
Per rispondere è utile un salto al 1847. Giuseppe Verdi a Parigi rincontrò stabilmente la prima interprete femminile del Nabucco, Giuseppina Strepponi, ed iniziò con lei una relazione “coniugale” stabile trasferendosi a Busseto, dove però la coppia fu oggetto di critiche e disapprovazioni, soprattutto per la Strepponi, già madre a seguito di due libere relazioni. Tutto si attenuò un poco quando i due si sposarono il 20 agosto 1859 non a Busseto ma in una cittadina della Savoia. La valutazione negativa e scandalosa da dove nasceva? Dalla mentalità cattolica? Forse in gran parte, ma non totalmente.
Un secolo dopo, nel 1946 Nilde Iotti iniziò una relazione stabile con Palmiro Togliatti, regolarmente sposato e che dunque abbandonò la moglie. Il che non fu ben visto da una parte di quelli che allora contavano nel Partito comunista italiano. Ma non si può presupporre che le riserve partissero dalla fedeltà al Vangelo e alla dottrina della Chiesa: erano chiaramente riserve culturali o morali/culturali.
Pochi anni dopo, il 18 aprile 1963 a Milano nella clinica Mangiagalli nacque Massimiliano, figlio “naturale” di Mina e dell’attore Corrado Pani “sposato”. Qui le reazioni furono diverse: mentre alcuni giornali condannarono non la nascita ma la relazione che l’aveva originata e mentre la televisione di stato diradò la presenza di Mina sul piccolo schermo casalingo, una parte crescente di opinione pubblica dimostrò invece una benevola solidarietà e approvazione non dando rilevanza alla relazione “illecita”, tanto che Mina commenterà più tardi: «La gente non si è lasciata condizionare da questo fatto, l’ha superato». Ciò che non era capitato nei due esempi precedenti.
Oltre a Mina si potrebbero portare tanti altri esempi, comunque più o meno dagli anni ’60 cominciò a imporsi un movimento teso a sdoganare da vincoli morali e sociali il rapporto affettivo tra uomo e donna, lasciandolo esclusivamente alla loro scelta. Oggi questo processo è culminato tracimando da uomo/donna ed estendendosi anche a uomo/uomo, donna/donna, adulto/bambino e financo a uomo/animale.
Prima che un problema morale è un problema di cultura e quindi di percezione. La gente “media” percepisce una differenza più o meno giuridica tra chi è sposato in chiesa o in comune e chi non lo è, ma percepisce sempre meno la valenza morale di questi vincoli. Anche il buon fedele che viene in chiesa, se non è oggetto di una catechesi attenta e aggiornata, rischia di restare culturalmente indifferente a fronte dei diversi tipi di vincolo, che, sia nel linguaggio come nella prassi, sono legittimati senza discriminazioni di sorta. Questa è una novità pastorale che esige una precisa reazione al momento in cui la Chiesa incontra le persone.
Ma torniamo all’Eucaristia, ricordando l’Eucaristia da poco celebrata lo scorso Giovedì Santo, all’inizio del triduo pasquale. Quella Eucaristia ha rimandato più di altre alla memoria del Cenacolo, l’Ultima Cena e la prima Eucaristia di Gesù. In essa ci fu un protagonista - Gesù -, ma anche due estremi di partecipanti: da una parte i discepoli preparati e dall’altra Giuda. Così nella prima Eucaristia ci fu la prima comunione “santa” e la prima comunione “sacrilega” e peccaminosa: lo abbiamo mai notato?
Che la comunione di Giuda fosse peccaminosa e sacrilega va da sé e non esige altre spiegazioni. Che la comunione dei restanti discepoli fosse preceduta da una preparazione (peraltro estesa anche a Giuda) da parte di Cristo, lo si evince dal fatto che furono chiamati a seguire per alcuni anni il Maestro nella sua predicazione e fatti oggetto più di una volta di insegnamenti rivolti direttamente a loro. Ma risulta anche dalla lavanda dei piedi, a patto di comprenderla nella sua pienezza. Un certo numero di santi padri - e sant’Ambrogio ne è un testimone autorevole - per la lavanda dei piedi parlavano di “exemplum humilitatis” ma anche di “mysterium sanctificationis”.
Ora ciò che è presente e divulgato nella pastorale attuale è l’esempio di umiltà, cioè il servizio di Gesù e di riflesso dei futuri pastori della Chiesa e di tutti i cristiani. Ciò è vero ma non è tutta la verità. Gv 13,6-10 spiega che lasciarsi lavare i piedi da Gesù è condizione per aver parte con Lui; soprattutto parla di purezza, di purificazione, del fatto che non tutti i presenti sono puri. Per cui la lavanda dei piedi è anche da parte di Gesù un mistero di santificazione, con il quale purifica i discepoli in vista di prendere parte all’Eucaristia. Così una tradizione - oggi scarsamente divulgata nella pastorale spicciola - ha visto nella lavanda dei piedi la figura del Battesimo e delle successive purificazioni per accedere all’Eucaristia.
È determinante che già da parte di Gesù e già nella prima Eucaristia siano presenti la messa in guardia da una comunione sacrilega e il rifiuto di prendere la gente “così come è”, insieme all’offerta di un cammino di purificazione necessario per arrivare all’Eucaristia.
Perché non pensare tutto questo anche in relazione alla mentalità presente circa i rapporti affettivi tra uomo e donna dei quali abbiamo parlato e anche in relazione a tutto il resto del messaggio cristiano, compresa, in questa luce, la parte di verità di 1Cor 7,3, di san Gerolamo, di san Francesco di Sales ecc.?
La Chiesa deve certamente partire dalla gente così come è, ma non può ammetterla all’Eucaristia “così come è”, “così come pensa”, “così come vive”. La Chiesa portando all’Eucaristia non può limitarsi a lavare i piedi nel senso di servire il mondo (degli uomini) offrendo la salvezza, ma deve anche lavare i piedi nel senso di purificare il mondo da ciò che impedisce di arrivare alla Eucaristia.