Pubblichiamo un articolo pubblicato sull'ottima rivista statunitense Crisis Magazine (per l'articolo originale VEDI QUI). Ci è stata segnalata e tradotta da alcuni amici.
Il testo contiene considerazioni di buon senso per smontare l'insensatezza, che rimane tale, quale che ne sia la fonte autrice. Il terrorista tunisino Anis Amri è stato GIUSTAMENTE ucciso. Per fortuna quell'arma è stata fabbricata, ed usata legittimamente. Non solo il Vecchio, ma anche il Nuovo Testamento contiene esempi di guerra giusta, uso lecito e doveroso della forza, eliminazione fisica dei cattivi: ne Gli Atti degli Apostoli ricorrono episodi di condanna a morte decretate dal primo Collegio ed eseguite illico et immediate.
Non è vero che storicamente la forza non abbia mai risolto alcun problema, è vero forse il contrario. A meno che non si voglia credere gnosticamente che sia concluso o stia per concludersi l'eone del peccato originale. "[...] la forza dichiarata ha deciso più situazioni nella storia di qualunque altro fattore, ed essere di parere contrario significa illudersi nella maniera più deleteria" (Robert Heinlein, 1907-1988).
L
di Andrew
Latham*
13-12-2016
Nel Messaggio per il 50° anniversario della giornata
mondiale per la pace
e recentemente reso noto, Papa Francesco ha invitato l’umanità ad adottare la
nonviolenza come «stile di una politica
per la pace».
Il Messaggio, con il quale il Santo Padre prosegue una
tradizione inaugurata nel 1968, propone in esordio il quadro di un «mondo frantumato» nel quale l’umanità
si ritrova «alle prese con una terribile guerra mondiale a
pezzi» – un mondo dilaniato da guerre, terrorismo,
criminalità, violenza su donne e bambini, abusi sui migranti, vittime di traffici
umani e devastazione dell’ambiente. La soluzione che il Papa suggerisce è una
politica di nonviolenza. Tale politica dovrebbe cominciare con la purificazione
del cuore, ma anche comportare l’abolizione delle armi nucleari, un’etica di
fraternità e la coesistenza pacifica, la volontà di «affrontare il conflitto di petto»[1]
e risolverlo, nonché un impegno attivo per la costruzione della pace a livello
locale, nazionale ed internazionale.
Alla stregua di altre dichiarazioni del Santo Padre, anche questo
Messaggio incarna quella che potrebbe essere definita, a voler essere benevoli,
una «ambiguità costruttiva». Da un lato, nonostante le pressioni di un sempre
più risoluto movimento pacifista cattolico, Papa Francesco ha preferito non
dire nulla in merito alla dottrina della guerra giusta. Non l’ha fatta propria
né l’ha criticata. Dall’altro, il Santo Padre ha manifestamente fatto proprio
due dei principali punti della nuova piattaforma pacifista: «pace giusta» e la
«nonviolenza evangelica». Il primo punto, un adattamento teologico dell’idea di
«pace positiva» circolato per decenni nei circoli di ricerca sulla pace, si
riferisce alla necessità di concentrarsi sulle cause strutturali della violenza
per conseguire la vera pace. Personalmente, non trovo nulla da eccepire a tale
impostazione nella misura in cui essa esprime l'urgenza per la Chiesa di
promuovere la giustizia, la libertà, la dignità umana, la risoluzione pacifica
dei conflitti e così via; mi limiterò a osservare che un tale approccio tradisce
a volte una notevole ingenuità in merito alla condizione umana dopo il peccato
originale. Il secondo punto, invece, è problematico perché spesso si basa su
una serie di assunti che alla resa dei conti si sono rivelati non validi, e che,
di conseguenza, possono portare a false conclusioni riguardo alla dottrina
consolidata della Chiesa sul quando e sul come sia lecito il ricorso alla forza
armata.
Che cosa intendo dire? Consentitemi di prendere innanzitutto in considerazione
gli assunti di base che sono fatalmente difettosi. Il tema della «nonviolenza
evangelica», riflesso nell’invito del Papa ad adottare la nonviolenza come
stile politico, si fonda sulla convinzione che «Gesù
stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel
cosiddetto Discorso della montagna». Secondo questa prospettiva,
notoriamente denominata «cristologia dal basso» dal teologo Karl Rahner, se si
vogliono comprendere Gesù e i suoi insegnamenti rispetto alla guerra e alla
pace bisogna partire non da «Gesù, il Cristo», ma da «Gesù di Nazareth», un
essere umano in carne ed ossa che, nella storia, si confrontava con i mali del
suo tempo e del suo luogo. Una volta adottata tale prospettiva – spiegano
Rahner e alcuni più recenti assertori della nonviolenza evangelica – il Gesù
che ne emerge è un uomo che avrebbe speso la vita opponendo un’eroica resistenza
ai «poteri in carica».
Tale eroica resistenza dell’uomo-Gesù avrebbe assunto, in
quest’ottica, non la forma di una ribellione armata o di una guerra di
liberazione, ma di un’opposizione nonviolenta alle forme di ingiustizia e
oppressione operanti nella Palestina del secolo I. Le implicazioni pratiche ed
etiche di ciò sembrano ovvie tanto a Papa Francesco quanto ai membri d’istituzioni
come Pax Christi e le altre che hanno
partecipato al Convegno “Nonviolenza e Pace giusta”,
tenutosi a Roma nell’aprile scorso: così come la vita di Gesù è normativa per i
cristiani, lo sarebbe altrettanto la pratica della nonviolenza evangelica.
In realtà, su questa cristologia dal basso ci sarebbe molto da
dire. Penso si possa quantomeno affermare che, dal Concilio Vaticano II, questa
forma di cristologia sia stata preferita, come fonte del pensiero sociale cattolico,
a quella giovannea «dall’alto» o al diritto naturale. A tal proposito, l’enfasi del Santo Padre sulle beatitudini come
manuale per «i leader politici e religiosi, per i
responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei
media di tutto il mondo» non è poi così sorprendente.
Nondimeno, questo approccio – specialmente se applicato alle questioni di
guerra o pace – ha ovvi limiti. Tanto per cominciare, seguire Gesù non vuol dire, ovviamente, essere Gesù o cercare di vivere esattamente come lui. Se così fosse,
i cristiani avrebbero dovuto rinunciare sia al matrimonio che alla prole e,
così, contravvenire a quei precetti biblici che invitano a crescere e a
moltiplicarsi. In ogni caso, pur ammettendo di dover sempre seguire in tutto
l’esempio dato da Gesù, quale sarebbe concretamente quello in merito alla
violenza e alla guerra?
Forse quello che ci ha lasciato cacciando violentemente i
cambiavalute dal tempio (Gv 2,14)? O quello
del passo in cui ai discepoli dice: «Chi
non ha una spada venda il suo mantello e ne compri una» (Lc 22,36)? O forse quello in cui Gesù
dichiara «Non pensiate che io sia venuto a
portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace ma una spada»
(Mt 10,34). E cosa dovremmo dedurre dal
fatto che Gesù avalla in modo pressoché integrale il Vecchio Testamento,
intriso di sangue e costellato di «guerre sante»? Quali insegnamenti dovremmo
trarre dalla sua lode sperticata al centurione romano incontrato sulla via di
Cafarnao (Mt 8,5-13)? Ciò che intendo
affermare è che, se pure accettassimo la premessa fondamentale che l’esempio e
gli insegnamenti di Gesù di Nazareth siano normativi, non saremmo in alcun modo
tenuti a concludere che il vero discepolato necessariamente comporti il
pacifismo. L’immagine di Gesù tratteggiata nel Nuovo Testamento è complessa,
ben distante da quella di un pacifista assoluto o di un pacificatore senza
riserve. Il quadro che emerge è in realtà quello di un Gesù che prevede l’uso
legittimo della forza nel pieno senso della parola.
Ma c’è un altro problema, ancora più profondo, nel fondare una «nonviolenza
evangelica» su una «cristologia dal basso». Per farla semplice, tale argomento,
per essere logicamente valido, necessariamente presuppone che gli insegnamenti di
Gesù riguardanti il discepolato cristiano regolino non soltanto le azioni dei
singoli, ma anche quelle dei pubblici ufficiali nell’assolvimento delle
pubbliche funzioni. In altre parole andrebbe superata la distinzione tra sfera
personale e moralità politica. Una semplice lettura del Vangelo, tuttavia,
rivela che Gesù non compie tale elisione. I suoi insegnamenti sul discepolato
cristiano sono pertinenti unicamente alle azioni dei singoli e alle loro
relazioni interpersonali; nulla dicono, di fatto, in merito alla moralità dello
Stato e dei suoi funzionari. Per metterla in modo leggermente diverso, nei
Vangeli gli insegnamenti etici di Gesù sono precisamente questo: insegnamenti etici. Trattano della
moralità dell’adulterio, del divorzio, del fare elemosine e altri standard della condotta personale, o
specificano come rispondere all’insulto o all’ingiuria personale. Non sono dottrine
politiche – infatti tacciono
totalmente sui precetti legislativi o di governo.
Capito questo, conseguiamo la chiave interpretativa che ci
permette di accedere al corretto significato di testi chiave per i pacifisti
cristiani come il Discorso della montagna. In base all’interpretazione
pacifista del brano di Matteo che racconta l’episodio – e il Messaggio di Papa
Francesco per la giornata mondiale per la pace ne contiene vari echi – Gesù
prima dichiara che gli «operatori di pace» sono beati, poi aggiunge tre
precetti che, nel loro insieme, costituirebbero un divieto assoluto dell’utilizzo
della forza. Il primo dei tre ribadisce la proibizione del Vecchio Testamento
dell’omicidio, poi aggiunge una nuova dimensione alla legge proibendo gli atti
individuali di collera. Il secondo mette al bando la vendetta personale e invita
i cristiani che hanno subito un torto a non compiere atti di rivalsa ma, anzi, a
«porgere l’altra guancia». Il terzo ingiunge ai cristiani di amare non solo il proprio
prossimo ma anche i propri nemici. Presi tutti insieme, questi insegnamenti
vengono utilizzati dai pacifisti cristiani per abrogare la legge del taglione
come espressa nel Vecchio Testamento («Occhio per occhio, dente per dente») ed
introdurre con decisione una nuova etica cristiana di nonviolenza da applicare
a entrambe le sfere, la personale e la pubblica.
Ove si accetti, invece, che il Discorso della montagna riguarda
l’etica personale e non la sfera politica, la messa fuoco mostra un quadro del
tutto diverso. Da questo punto di vista, piuttosto che un divieto rivolto alla
pubblica autorità di usare la forza, il Discorso dà indicazioni ai singoli che
subiscono insulti o ingiurie personali. Al tempo di Gesù, era un problema molto
serio e avvertito: la gente non solo esigeva punizioni sproporzionate, ma
tendeva a farsi giustizia con le proprie mani anziché rivolgersi a magistrati o
altre autorità pubbliche. Nei tre precetti sopra esposti, Gesù insegna con
chiarezza a chi lo stava ad ascoltare come reagire all’insulto e all’ingiuria
personale e, più in generale, come i singoli dovrebbero comportarsi nella sfera
interpersonale. Proprio nulla, invece, viene detto riguardo al modo in cui i
pubblici ufficiali dovrebbero eseguire la legge del taglione. Né tantomeno si
accenna alla più ampia questione del quando l’esercizio della forza da parte di
uno Stato possa dirsi appropriato. Né, infine, Gesù proibisce ai cristiani di
brandire la spada al servizio di queste autorità. L’assunto che il Discorso
della montagna sia una sorta di capolavoro della scienza politica,
semplicemente, è sbagliato.
Questo ci porta al secondo problema della pacifista cristologia dal
basso: non solo è sbagliato il presupposto che il personale è politico (almeno
in questo caso), ma la confusione tra le due sfere porta inevitabilmente a un rigetto
della costante dottrina della Chiesa in tema di guerra e pace. Secondo tale
dottrina, il conflitto violento è un’inevitabile realtà nel nostro mondo post peccatum, per cui c’è bisogno di
principi per stabilire quando un determinato conflitto sia lecito e accettabile
(quando non addirittura moralmente necessario) e quando non lo sia. Affondando
le radici nel Vecchio Testamento, nel Nuovo e nella vita di Cristo, e con una
storia che si estende dai Padri della Chiesa fino al Catechismo della Chiesa
Cattolica attualmente in vigore (CCC 2309), la dottrina della guerra giusta
specifica le condizioni che devono verificarsi per muovere guerra (autorità legittima,
giusta causa, nobile intento) ed i mezzi accettabili per condurla. (CCC 2312-2314).
Per un millennio e mezzo, tale dottrina non solo è stata un elemento fondamentale
della teoria cattolica delle relazioni internazionali, ma anche il fondamento
del contemporaneo Diritto internazionale umanitario.
In un mondo imperfetto, questa dottrina fornisce un modello ampiamente
sperimentato per effettuare complicate valutazioni morali in merito alla guerra
e alla pace. La difettosa cristologia dal basso porta logicamente a rifiutarla:
da questa, infatti, discende l’illegittimità e l’immoralità di un qualunque uso
della forza. Essa comporta, quindi, l’accantonamento di una tradizione forte di
quindici secoli di pensiero riguardante la giustizia e la giustizia in guerra,
a favore di una non provata alternativa pacifista che ci lascerebbe privi di
validi strumenti intellettuali circa il giusto utilizzo della forza in un mondo
in cui il conflitto, la violenza e la guerra sono, purtroppo, realtà durature e
pervasive.
Di sicuro, la dottrina della guerra giusta non è priva di punti
deboli. E l’im-pegno attivo per il consolidamento della pace è certamente
qualcosa che deve essere abbracciato dalla Chiesa, così come va abbracciata
l’etica della nonviolenza evangelica nell’ambito della morale individuale. Ma
abbandonare la teoria della guerra giusta sulla base di una spuria cristologia
dal basso e di una lettura tendenziosa del Discorso della montagna sembra non
solo ingiustificato, ma addirittura pericoloso. Io prego che non sia questo l’intento
del Santo Padre. Sebbene il suo Messaggio in occasione del 50° anniversario
della giornata mondiale per la pace faccia apparire plausibile questa eventualità.
*
Andrew Latham è da vent’anni docente di Scienze
politiche presso il Macalester College di Saint Paul, in Minnesota. Fra le sue
opere più recenti, vi è Theorizing Medieval Geopolitics: War and World Order
in the Age of the Crusades,
pubblicato da Routledge nel 2012
[1] Si tratta di una citazione dal testo inglese
dell’Evangelii Gaudium che, al n.
227, contiene l’espressione to
face conflict head on. Il testo corrispondente nel testo
italiano dell’Esortazione Apostolica - «sopportare
il conflitto» - appare meno perspicuo (ndT).