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giovedì 16 febbraio 2017

Papa Francesco e il Gesù pacifista





Pubblichiamo un articolo pubblicato sull'ottima rivista statunitense Crisis Magazine (per l'articolo originale VEDI QUI). Ci è stata segnalata e tradotta da alcuni amici.
Il testo contiene considerazioni di buon senso per smontare l'insensatezza, che rimane tale, quale che ne sia la fonte autrice. Il terrorista tunisino Anis Amri è stato GIUSTAMENTE ucciso. Per fortuna quell'arma è stata fabbricata, ed usata legittimamente. Non solo il Vecchio, ma anche il Nuovo Testamento contiene esempi di guerra giusta, uso lecito e doveroso della forza, eliminazione fisica dei cattivi: ne Gli Atti degli Apostoli ricorrono episodi di condanna a morte decretate dal primo Collegio ed eseguite illico et immediate.
Non è vero che storicamente la forza non abbia mai risolto alcun problema, è vero forse il contrario. A meno che non si voglia credere gnosticamente che sia concluso o stia per concludersi l'eone del peccato originale. "[...] la forza dichiarata ha deciso più situazioni nella storia di qualunque altro fattore, ed essere di parere contrario significa illudersi nella maniera più deleteria" (Robert Heinlein, 1907-1988).
L

di Andrew Latham*
 13-12-2016
Nel Messaggio per il 50° anniversario della giornata mondiale per la pace e recentemente reso noto, Papa Francesco ha invitato l’umanità ad adottare la nonviolenza come «stile di una politica per la pace».
Il Messaggio, con il quale il Santo Padre prosegue una tradizione inaugurata nel 1968, propone in esordio il quadro di un «mondo frantumato» nel quale l’umanità si ritrova «alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi» – un mondo dilaniato da guerre, terrorismo, criminalità, violenza su donne e bambini, abusi sui migranti, vittime di traffici umani e devastazione dell’ambiente. La soluzione che il Papa suggerisce è una politica di nonviolenza. Tale politica dovrebbe cominciare con la purificazione del cuore, ma anche comportare l’abolizione delle armi nucleari, un’etica di fraternità e la coesistenza pacifica, la volontà di «affrontare il conflitto di petto»[1] e risolverlo, nonché un impegno attivo per la costruzione della pace a livello locale, nazionale ed internazionale.
Alla stregua di altre dichiarazioni del Santo Padre, anche questo Messaggio incarna quella che potrebbe essere definita, a voler essere benevoli, una «ambiguità costruttiva». Da un lato, nonostante le pressioni di un sempre più risoluto movimento pacifista cattolico, Papa Francesco ha preferito non dire nulla in merito alla dottrina della guerra giusta. Non l’ha fatta propria né l’ha criticata. Dall’altro, il Santo Padre ha manifestamente fatto proprio due dei principali punti della nuova piattaforma pacifista: «pace giusta» e la «nonviolenza evangelica». Il primo punto, un adattamento teologico dell’idea di «pace positiva» circolato per decenni nei circoli di ricerca sulla pace, si riferisce alla necessità di concentrarsi sulle cause strutturali della violenza per conseguire la vera pace. Personalmente, non trovo nulla da eccepire a tale impostazione nella misura in cui essa esprime l'urgenza per la Chiesa di promuovere la giustizia, la libertà, la dignità umana, la risoluzione pacifica dei conflitti e così via; mi limiterò a osservare che un tale approccio tradisce a volte una notevole ingenuità in merito alla condizione umana dopo il peccato originale. Il secondo punto, invece, è problematico perché spesso si basa su una serie di assunti che alla resa dei conti si sono rivelati non validi, e che, di conseguenza, possono portare a false conclusioni riguardo alla dottrina consolidata della Chiesa sul quando e sul come sia lecito il ricorso alla forza armata.
Che cosa intendo dire? Consentitemi di prendere innanzitutto in considerazione gli assunti di base che sono fatalmente difettosi. Il tema della «nonviolenza evangelica», riflesso nell’invito del Papa ad adottare la nonviolenza come stile politico, si fonda sulla convinzione che «Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna». Secondo questa prospettiva, notoriamente denominata «cristologia dal basso» dal teologo Karl Rahner, se si vogliono comprendere Gesù e i suoi insegnamenti rispetto alla guerra e alla pace bisogna partire non da «Gesù, il Cristo», ma da «Gesù di Nazareth», un essere umano in carne ed ossa che, nella storia, si confrontava con i mali del suo tempo e del suo luogo. Una volta adottata tale prospettiva – spiegano Rahner e alcuni più recenti assertori della nonviolenza evangelica – il Gesù che ne emerge è un uomo che avrebbe speso la vita opponendo un’eroica resistenza ai «poteri in carica».
Tale eroica resistenza dell’uomo-Gesù avrebbe assunto, in quest’ottica, non la forma di una ribellione armata o di una guerra di liberazione, ma di un’opposizione nonviolenta alle forme di ingiustizia e oppressione operanti nella Palestina del secolo I. Le implicazioni pratiche ed etiche di ciò sembrano ovvie tanto a Papa Francesco quanto ai membri d’istituzioni come Pax Christi e le altre che hanno partecipato al Convegno “Nonviolenza e Pace giusta”, tenutosi a Roma nell’aprile scorso: così come la vita di Gesù è normativa per i cristiani, lo sarebbe altrettanto la pratica della nonviolenza evangelica.
In realtà, su questa cristologia dal basso ci sarebbe molto da dire. Penso si possa quantomeno affermare che, dal Concilio Vaticano II, questa forma di cristologia sia stata preferita, come fonte del pensiero sociale cattolico, a quella giovannea «dall’alto» o al diritto naturale. A tal proposito, l’enfasi del Santo Padre sulle beatitudini come manuale per «i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo» non è poi così sorprendente. Nondimeno, questo approccio – specialmente se applicato alle questioni di guerra o pace – ha ovvi limiti. Tanto per cominciare, seguire Gesù non vuol dire, ovviamente, essere Gesù o cercare di vivere esattamente come lui. Se così fosse, i cristiani avrebbero dovuto rinunciare sia al matrimonio che alla prole e, così, contravvenire a quei precetti biblici che invitano a crescere e a moltiplicarsi. In ogni caso, pur ammettendo di dover sempre seguire in tutto l’esempio dato da Gesù, quale sarebbe concretamente quello in merito alla violenza e alla guerra?
Forse quello che ci ha lasciato cacciando violentemente i cambiavalute dal tempio (Gv 2,14)? O quello del passo in cui ai discepoli dice: «Chi non ha una spada venda il suo mantello e ne compri una» (Lc 22,36)? O forse quello in cui Gesù dichiara «Non pensiate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace ma una spada» (Mt 10,34). E cosa dovremmo dedurre dal fatto che Gesù avalla in modo pressoché integrale il Vecchio Testamento, intriso di sangue e costellato di «guerre sante»? Quali insegnamenti dovremmo trarre dalla sua lode sperticata al centurione romano incontrato sulla via di Cafarnao (Mt 8,5-13)? Ciò che intendo affermare è che, se pure accettassimo la premessa fondamentale che l’esempio e gli insegnamenti di Gesù di Nazareth siano normativi, non saremmo in alcun modo tenuti a concludere che il vero discepolato necessariamente comporti il pacifismo. L’immagine di Gesù tratteggiata nel Nuovo Testamento è complessa, ben distante da quella di un pacifista assoluto o di un pacificatore senza riserve. Il quadro che emerge è in realtà quello di un Gesù che prevede l’uso legittimo della forza nel pieno senso della parola.
Ma c’è un altro problema, ancora più profondo, nel fondare una «nonviolenza evangelica» su una «cristologia dal basso». Per farla semplice, tale argomento, per essere logicamente valido, necessariamente presuppone che gli insegnamenti di Gesù riguardanti il discepolato cristiano regolino non soltanto le azioni dei singoli, ma anche quelle dei pubblici ufficiali nell’assolvimento delle pubbliche funzioni. In altre parole andrebbe superata la distinzione tra sfera personale e moralità politica. Una semplice lettura del Vangelo, tuttavia, rivela che Gesù non compie tale elisione. I suoi insegnamenti sul discepolato cristiano sono pertinenti unicamente alle azioni dei singoli e alle loro relazioni interpersonali; nulla dicono, di fatto, in merito alla moralità dello Stato e dei suoi funzionari. Per metterla in modo leggermente diverso, nei Vangeli gli insegnamenti etici di Gesù sono precisamente questo: insegnamenti etici. Trattano della moralità dell’adulterio, del divorzio, del fare elemosine e altri standard della condotta personale, o specificano come rispondere all’insulto o all’ingiuria personale. Non sono dottrine politiche – infatti tacciono totalmente sui precetti legislativi o di governo.
Capito questo, conseguiamo la chiave interpretativa che ci permette di accedere al corretto significato di testi chiave per i pacifisti cristiani come il Discorso della montagna. In base all’interpretazione pacifista del brano di Matteo che racconta l’episodio – e il Messaggio di Papa Francesco per la giornata mondiale per la pace ne contiene vari echi – Gesù prima dichiara che gli «operatori di pace» sono beati, poi aggiunge tre precetti che, nel loro insieme, costituirebbero un divieto assoluto dell’utilizzo della forza. Il primo dei tre ribadisce la proibizione del Vecchio Testamento dell’omicidio, poi aggiunge una nuova dimensione alla legge proibendo gli atti individuali di collera. Il secondo mette al bando la vendetta personale e invita i cristiani che hanno subito un torto a non compiere atti di rivalsa ma, anzi, a «porgere l’altra guancia». Il terzo ingiunge ai cristiani di amare non solo il proprio prossimo ma anche i propri nemici. Presi tutti insieme, questi insegnamenti vengono utilizzati dai pacifisti cristiani per abrogare la legge del taglione come espressa nel Vecchio Testamento («Occhio per occhio, dente per dente») ed introdurre con decisione una nuova etica cristiana di nonviolenza da applicare a entrambe le sfere, la personale e la pubblica.
Ove si accetti, invece, che il Discorso della montagna riguarda l’etica personale e non la sfera politica, la messa fuoco mostra un quadro del tutto diverso. Da questo punto di vista, piuttosto che un divieto rivolto alla pubblica autorità di usare la forza, il Discorso dà indicazioni ai singoli che subiscono insulti o ingiurie personali. Al tempo di Gesù, era un problema molto serio e avvertito: la gente non solo esigeva punizioni sproporzionate, ma tendeva a farsi giustizia con le proprie mani anziché rivolgersi a magistrati o altre autorità pubbliche. Nei tre precetti sopra esposti, Gesù insegna con chiarezza a chi lo stava ad ascoltare come reagire all’insulto e all’ingiuria personale e, più in generale, come i singoli dovrebbero comportarsi nella sfera interpersonale. Proprio nulla, invece, viene detto riguardo al modo in cui i pubblici ufficiali dovrebbero eseguire la legge del taglione. Né tantomeno si accenna alla più ampia questione del quando l’esercizio della forza da parte di uno Stato possa dirsi appropriato. Né, infine, Gesù proibisce ai cristiani di brandire la spada al servizio di queste autorità. L’assunto che il Discorso della montagna sia una sorta di capolavoro della scienza politica, semplicemente, è sbagliato.
Questo ci porta al secondo problema della pacifista cristologia dal basso: non solo è sbagliato il presupposto che il personale è politico (almeno in questo caso), ma la confusione tra le due sfere porta inevitabilmente a un rigetto della costante dottrina della Chiesa in tema di guerra e pace. Secondo tale dottrina, il conflitto violento è un’inevitabile realtà nel nostro mondo post peccatum, per cui c’è bisogno di principi per stabilire quando un determinato conflitto sia lecito e accettabile (quando non addirittura moralmente necessario) e quando non lo sia. Affondando le radici nel Vecchio Testamento, nel Nuovo e nella vita di Cristo, e con una storia che si estende dai Padri della Chiesa fino al Catechismo della Chiesa Cattolica attualmente in vigore (CCC 2309), la dottrina della guerra giusta specifica le condizioni che devono verificarsi per muovere guerra (autorità legittima, giusta causa, nobile intento) ed i mezzi accettabili per condurla. (CCC 2312-2314). Per un millennio e mezzo, tale dottrina non solo è stata un elemento fondamentale della teoria cattolica delle relazioni internazionali, ma anche il fondamento del contemporaneo Diritto internazionale umanitario.
In un mondo imperfetto, questa dottrina fornisce un modello ampiamente sperimentato per effettuare complicate valutazioni morali in merito alla guerra e alla pace. La difettosa cristologia dal basso porta logicamente a rifiutarla: da questa, infatti, discende l’illegittimità e l’immoralità di un qualunque uso della forza. Essa comporta, quindi, l’accantonamento di una tradizione forte di quindici secoli di pensiero riguardante la giustizia e la giustizia in guerra, a favore di una non provata alternativa pacifista che ci lascerebbe privi di validi strumenti intellettuali circa il giusto utilizzo della forza in un mondo in cui il conflitto, la violenza e la guerra sono, purtroppo, realtà durature e pervasive.
Di sicuro, la dottrina della guerra giusta non è priva di punti deboli. E l’im-pegno attivo per il consolidamento della pace è certamente qualcosa che deve essere abbracciato dalla Chiesa, così come va abbracciata l’etica della nonviolenza evangelica nell’ambito della morale individuale. Ma abbandonare la teoria della guerra giusta sulla base di una spuria cristologia dal basso e di una lettura tendenziosa del Discorso della montagna sembra non solo ingiustificato, ma addirittura pericoloso. Io prego che non sia questo l’intento del Santo Padre. Sebbene il suo Messaggio in occasione del 50° anniversario della giornata mondiale per la pace faccia apparire plausibile questa eventualità.



* Andrew Latham è da vent’anni docente di Scienze politiche presso il Macalester College di Saint Paul, in Minnesota. Fra le sue opere più recenti, vi è Theorizing Medieval Geopolitics: War and World Order in the Age of the Crusades, pubblicato da Routledge nel 2012
[1] Si tratta di una citazione dal testo inglese dell’Evangelii Gaudium che, al n. 227, contiene l’espressione to face conflict head on. Il testo corrispondente nel testo italiano dell’Esortazione Apostolica - «sopportare il conflitto» - appare meno perspicuo (ndT).