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martedì 2 agosto 2016

«.. sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, nella fede della Chiesa universale«



Come scrisse il nostro beneamato Benedetto XVI:


«.. sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, nella fede della Chiesa universale. Dove non esiste né l’unanimità della Chiesa universale né una chiara testimonianza delle fonti, là non è possibile una decisione impegnante e vincolante; se essa avvenisse formalmente, le mancherebbero le condizioni indispensabili e si dovrebbe perciò sollevare il problema circa la sua legittimità»
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PAPALE PAPALE 8-7-16
Stamane hanno portato alla nostra modesta, e a detta di alcuno arcigna, considerazione il brano che segue:
Il brano degli Atti degli apostoli (8, 26-40) proposto nella liturgia odierna presenta in modo chiaro i tre momenti dell’evangelizzazione. «Il primo  è la docilità di Filippo che va ad annunciare Gesù Cristo. (…) Il dialogo è il secondo momento dell’evangelizzazione (…) Ma dialogare non significa dire solo “quello che io penso” e pretendere che l’altro ci creda. Anzi il vero dialogo parte dall’altro: tu che stai leggendo, capisci questo? Insomma l’evangelizzatore coglie dall’altro l’occasione del dialogo, si abbassa, si umilia davanti all’altro. Non va a imporre idee, dottrine dicendo “le cose sono così!”. L’autentico evangelizzatore va incontro all’altro per offrire proprio la salvezza di Gesù e lo fa umilmente con il dialogo. Consapevole che non si può evangelizzare senza il dialogo e che non si può prescindere dal cammino della persona che deve essere evangelizzata (…) Dunque bisogna “perdere tempo” con l’altra persona perché quella persona è quella che Dio vuole che tu evangelizzi, a cui tu devi dare la notizia di Gesù. Ed è ancora importante anche che il dialogo avvenga con la persona “come è adesso” e “non come deve essere”… Così si completa anche il processo dell’evangelizzazione: docilità dell’evangelizzatore, dialogo con la persona e la forza della grazia. E Filippo prende quest’uomo di buona volontà, tanto buono, e lo porta nelle mani di Dio, della sua grazia (da santa Marta 8.5.2014)
Questo quanto si dice nella prospiciente Cappella Santa Marta. Ma qui, Cappella di Santa Maria, abbiamo da fare alcune puntualizzazione. Ovviamente. Ed è nostro dovere di battezzata.
Le espressioni concettualmente espresse, da considerarsi attentamente, sono le seguenti: l’evangelizzazione, il dialogo. Sulla modalità dell’evangelizzazione, nulla da eccepire perché tutti dobbiamo imparare l’arte dell’annunciare Cristo con la carità, perché la prima forma della carità è la verità, ma senza carità si finisce per imporre non quella Verità, ma la nostra opinione assunta a verità. L’umiltà è indispensabile, senza alcun dubbio, ma dicendo le cose come stanno. Mentre: «La parola di Cristo non è mai stata affatto così banale, così zuccherosa e sentimentale come vorrebbe far credere una certa lettura pseudoromantica della figura di Gesù».[1]
Ciò che comincia a stonare è il concetto di dialogo che va a sostituirsi all’annuncio. I due termini – annunciare e dialogare – non sono sinonimi e non significano affatto la stessa cosa. Scriveva D’Annunzio (che pure nella mia adolescenza feci in tempo a conoscere, ospite in una nostra magione di campagna, da quella cariatide ricevendone financo qualche molesta – e inopportuna – attenzione): «nel chiarore del crepuscolo era l’annunzio della prima neve», annunciare perciò vuol dire avvisare di qualcosa che in qualche modo, importante e fondamentale, si è acquisita e si deve portare ad altri. Significa recare una notizia e Nostro Signore infatti comandò perentoriamente: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato…» (Mc.16,15-18): predicare, ordunque, è un sinonimo di annunziare, dialogare no.
Dialogare significa un fra-logos, un discorso alterno fra due persone, un mettere in discussione le proprie opinioni personali e, nel dialogarle, in varia misura mutarle. E visto che Gesù ha detto «prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt.11,29), si capisce bene che il fine del dialogare è ben diverso da quello che si intende da santa Marta, andate a leggere anche Ezechiele 3,16-21.
Pertanto, ricevere l’annuncio del Cristo e rifiutare di credervi, o inserirlo dentro un dialogo facendolo diventare opinabile, è un grave peccato: si rischia la condanna eterna se il destinatario dell’annuncio persiste nel suo rifiuto a credere, anche a causa delle nostre digressioni in campo dottrinale.
La Parola di Domineddio non è opinabile nell’annuncio, “le cose sono così” perché così sono contenute nella Scrittura. Se ciò non fosse vero allora anche quello che esce da santa Marta non dovrebbe più essere preso in considerazione, gli stessi documenti della Santa Sede non avrebbero più alcuna infallibilità dal momento che questa è legata all’annuncio contenuto nella Sacra Scrittura, e non alle libere interpretazioni o al livello dialogico attraverso il quale si vorrebbero definire. Ed è Nostro Signore che afferma che “le cose sono così”, nei suoi famosi “avete inteso che fu detto, ma io vi dico che…”.
Lo stesso Catechismo non avrebbe più ragione d’essere perché il suo contenuto è quello di “le cose stanno così” e non si discutono, si imparano e si accettano. Lo stesso Diritto Canonico diventerebbe una imposizione insopportabile, perché i suoi articoli non si discutono, non si dialogano, vengono imposti a tutte le chiese. E perché il Diritto Canonico non può essere dialogato e la Scrittura sì? E se è vero che Filippo non va ad imporre le idee (e le dottrine non sono idee, tanto per puntualizzare) dicendo “le cose sono così”, è anche vero che dice all’etiope “come stanno le cose”, e per questo quell’infelice si converte, altrimenti non si sarebbe convertito e l’angelo non avrebbe mandato Filippo a convincerlo.
«Dove non c’è più verità alcuna, si può allora modificare qualsiasi criterio valutativo, e, in ultima istanza, dovunque fare in un modo e nell’esatto suo contrario. L’aver rinunciato alla verità mi pare il vero e proprio nucleo della nostra crisi odierna.» [2]
La prima parola di Gesù all’inizio della sua predicazione è obbligatoria: «Convertitevi…» (Mt.4,17), così come anche sulla questione dell’Eucaristia (Gv.6) e sul matrimonio (Mt.19), il dialogo, se così vogliamo chiamarlo, non è fine a se stesso, ma un varco attraverso il quale Gesù dice come “le cose sono così”, e a chi chiedeva spiegazioni si è sentito anche rispondere: «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv.6,67).
Certo, Nostro Signore rispondeva duramente a coloro che, leggendo nei loro cuori, rettamente ne intendeva la provocazione insolente, ma di certo con nessuno ha dialogato se non con gente scelta con oculatezza, com’è per esempio nel dialogo con Nicodemo, che oseremo dire la prima intervista della storia, certamente l’unica rivolta al Cristo, ma sempre per arrivare a dire come stavano le cose; il resto del popolo lo ammaestrava, insegnava loro, ma non discuteva e non dialogava, agiva con autorità, dicendo come “le cose sono così” (Mt.7,29).
Infatti:
«…la fede non può esimersi dall’offrire indicazioni e precetti riguardanti la dottrina etica e la condotta morale. Ogni tentativo di un’educazione che voglia partire dalla verità del nostro essere finisce allora per essere subito interpretato come un’aggressione contro la libertà e l’autodeterminazione del singolo.»[3]
E’ altresì tristemente vero quanto scrisse l’altrimenti bizzarro gesuita Malachi Martin nel suo “I Gesuiti” del 1987:
«Al posto di una Chiesa gerarchica, i gesuiti mirano a una Chiesa composta di piccole comunità autonome — “il popolo di Dio”, come viene chiamato, o “la Chiesa del popolo” associate fra di loro dalla fede, ma assolutamente non da una autorità centrale e centralizzante quale il papato pretende di essere…», raccontando, appunto dell’attacco, da parte di questa frangia di gesuiti moderni dagli anni cinquanta, contro la dottrina  e di come il tutto sarebbe dovuto rientrare in una forma di dialogo, a seconda della coscienza di ognuno.
Infine, il brano dell’etiope è solo un aspetto di quella prima predicazione; il capitolo citato riferisce, infatti, anche ben altri schemi. C’è il caso di Simon mago, battezzato da Filippo, con il quale l’unico dialogo è l’imposizione, da parte di Pietro, alla conversione e al pentimento per la perversione del suo pensare, e poco prima si legge che mentre Filippo predicava, le folle lo ascoltavano unanimi. La vera evangelizzazione ha senza dubbi diversi aspetti ed ha anche il dialogare con il singolo individuo, ma purtuttavia con un medesmo fine: dire “le cose come stanno” e pregare di trovare, nell’interlocutore, un soggetto umile e predisposto ad accogliere l’annuncio. L’etiope era stato mandato dalla Provvidenza a Filippo, perché egli cercava davvero la Verità: lasciatemi allora la libertà di domandarmi, evangelicamente, da chi mai sia stato mandato Scalfari – che già da tempo immemorabile dispensai dalla frequentazione del mio salotto – a casa santa Marta. Non certo dalla Provvidenza mi pare d’arguire.
Perciò, il dialogare non deve verificarsi, come è stato detto: con la persona “come è adesso” e “non come deve essere”, è proprio l’opposto, il dialogare del vangelo ha come fine ciò che “dobbiamo essere”. E’ ovvio che Gesù “ci prende” come siamo – peccatori – ma per trasformarci in ciò che dobbiamo essere; la sua intenzione non è dunque quella di lasciarci nel come siamo e dialogare all’infinito perché tutto, per la forza dell’inerzia e delle vane parole, resti com’è. L’annuncio e l’evangelizzazione traggono giustificazione e forza motrice proprio dalla nostra condizione, dal “come siamo”, peccatori ovverosia, per di poi essere sospinti verso la Verità, verso Gesù, il Salvatore, e dunque a ciò che dobbiamo essere: convertiti, battezzati, credenti, santi. Certo ci vuole pazienza e tanta umiltà, ma sempre per poter dire come stanno le cose, chiarendo ciò che dobbiamo essere e diventare.  «Proselitismo. È il segno certo dell’autentico zelo.» [4]
Dirà la Santità di N. S. il Papa Benedetto XVI:
«.. sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, nella fede della Chiesa universale. Dove non esiste né l’unanimità della Chiesa universale né una chiara testimonianza delle fonti, là non è possibile una decisione impegnante e vincolante; se essa avvenisse formalmente, le mancherebbero le condizioni indispensabili e si dovrebbe perciò sollevare il problema circa la sua legittimità»[5]
Note
[1] Ratzinger – 365 giorni con Benedetto XVI, pag.254
[2] Ratzinger, ibidem sopra, pag. 39
[3] Ratzinger, ibidem sopra, pag. 257
[5] Ratzinger – Fede, ragione, verità e amore, Lindau 2009