Ringraziando l'amico Giovanni per la traduzione per MIL, da NLM (VEDI QUI).
L
Dirigatur, Domine, oratio mea, sicut incensum in
conspectu tuo. Salga la mia preghiera, Signore, come incenso al tuo cospetto (Salmo 140 [ 141 ] : 2 ).
di Peter Kwasniewski
San Tommaso d'Aquino, nel
quarto libro del suo Commento alle
Sentenze di Pietro Lombardo, afferma: "Le figure che indicano quello
che dovrebbe sempre essere fatto non devono cessare, come succede per esempio riguardo
l’uso dell’incenso, che simboleggia la devozione [1]”. Nel testo citato, San
Tommaso sta discorrendo del fatto che la circoncisione sarebbe dovuta cessare
una volta che il battesimo subentrò al suo posto, ma quello che mi ha colpito qui
è la sua dichiarazione, come dato di fatto, detto senza alcun timore di smentita,
che l'uso dell’incenso è proprio uno dei quei segni che saranno sempre
utilizzati nei nostri riti, che dovranno sempre essere presenti, dal momento
che simboleggia la devozione.
A questo punto del testo,
i curatori dell'edizione di Parma dell’Aquinate hanno deciso di inserire una
lunga nota, il che è piuttosto insolito. Evidentemente hanno pensato che i
lettori volessero
sapere quando e come l'incenso venne utilizzato per esprimere devozione:
sapere quando e come l'incenso venne utilizzato per esprimere devozione:
“nell'antichità, in
Italia, l'incenso non fu utilizzato nei riti sacri dei pagani. Ognuno era
solito offrire agli dei quello che aveva a portata di mano: il miele, il vino,
il latte, ma per lo più la frutta o le primizie dei frutti; in seguito divenne
abitudine offrire quei prodotti derivanti dai cereali, come farro e Liba (dolci). Tuttavia, dopo che l’incenso
cominciò a venire importato dall'Arabia in Grecia e in Italia, nonostante
giungesse a Roma con grandi spese, le persone di ogni ceto, anche i più poveri,
ne acquistavano facilmente un po' per usarlo come offerta. Il povero offriva
tre grani di incenso con le tre dita. L'uso di incenso nel culto del vero Dio è
estremamente antica. Perciò Henry Cannegieter [1691-1770] deve essere biasimato
per aver sostenuto le seguenti proposizioni: 1) I cristiani aborrivano l'uso
dell'incenso nei Sacri Riti e nella Santa Messa; 2) Non si usavano thymiamata (resine composte da incenso)
nella Chiesa “primitiva” [2].
Se da una parte Henry
Cannegieter mise in dubbio l'uso dell'incenso nella Chiesa antica e nella Santa
Messa, considerandolo un abominio, dall’altra G. W. F. Hegel nella “Fenomenologia dello spirito” considerò
tale uso un sintomo della "Coscienza Infelice", che, per lui,
“è solo un avvicinamento
al pensiero”, e così sarebbe la devozione. La sua visione al riguardo non consiste
in altro che nel tintinnio caotico delle campane, o nube nella d'incenso
fumante, o un discorso melodico che non raggiunge la Nozione (o Concetto), che
rappresenta invece l'unica, obiettiva e immanente modalità del pensiero. Quello
che abbiamo qui, dunque, lo definisce come movimento interiore del cuore puro verso
sé stesso, ma come agonizzante essendo diviso in sé, ovvero movimento di un
desiderio infinito. Allo stesso tempo, questa essenza sarebbe l'irraggiungibile,
ciò che nell’atto di afferrarlo sfugge, o meglio è già volato via [3].
Secondo Hegel, la
devozione indica un pensiero abortito, un tentativo tendente alla chiarezza
concettuale, senza raggiungerla. Nella devozione il suono delle campane e le nuvole
di incenso sostituiscono il pensiero rigoroso; ci si perde nella musica
piuttosto che nella scienza. Quello che trovo così deliziosamente strano è che
Hegel ha descritto non una imperfezione, ma, al contrario, una ragione
importante per cui il cristiano è superiore a un mero logico o ad uno
scienziato: il fatto che il cristiano sia in possesso di un desiderio infinito
per il divino, e questo è un dono della grazia di Dio! Egli è agonizzante e
combattuto in sé stesso, poiché si riconosce per la creatura decaduta che è
effettivamente: vede sia lo spirito rinnovato che appartiene a Cristo sia il
vecchio Adamo che si aggrappa tenacemente alla terra. Ed è proprio tramite la
virtù della devozione che egli stesso si innalza ancora e ancora, come incenso,
a Dio, come a Colui che non solo è ineffabile e inaccessibile, ma allo stesso
tempo anche più vicino a me di quanto lo sia io stesso, presente in tutte le
cose come Colui che le mantiene in essere e assegna loro forme, proprietà,
forze e scopi. Solo per l’incredulo l'oggetto del culto sfugge o è già volato
via, solo per lui è l’irraggiungibile al di là di tutto.
Il santo è diventato
incenso che brucia salendo a Dio e, così facendo diffonde tra uomini il dolce
profumo dei doni divini. Egli è la fiamma che nell'intensità del suo desiderio
di mantenere la combustione e accendere altre fiamme, consuma tutto ciò che osa
opporsi, cioè gli ultimi residui di preoccupazioni egoistiche e di preferenze.
In sintonia con tutte le voci della tradizione cattolica, San Tommaso insegna
che la santità - che in un luogo egli definisce come "la purezza
consacrata a Dio" [4] - è giudicata rigorosamente in termini di carità,
per cui un uomo è davvero sé stesso quando si consegna, si cede, si consacra
interamente.
Possiamo imparare molto riflettendo
sulla ristrettezza mentale di Cannegieter e Hegel. Cannegieter pensa che l'uso
dell'incenso sia superficialità o idolatria; Hegel lo taccia come uso primitivo
e prefilosofico. Per il primo è una forma di eccesso, per il secondo è un
difetto o ritardo. Quello che entrambi non sembrano cogliere è il regno del
simbolo come simbolo, e l'uomo come homo
liturgicus il cui percorso tra la creazione e l'eternità è disseminato di
segni che possono indirizzarlo o condurlo fuori strada. Non possiamo non essere
immersi in un mondo di segni; la nostra unica scelta è di quali segni
circondarci e cosa fare di loro. In definitiva, il risultato dell’iconoclastia
e del minimalismo è la sensazione anti-trinitaria di vuoto, di freddo e di sterilità,
come abbiamo visto e sentito in troppe chiese e in troppe liturgie moderne.
Per la gente degli anni
sessanta e settanta era di moda parlare dei cattolici come “persone che erano
cresciute" (o che dovevano crescere ... con un dito agitato verso chi
ostinatamente si aggrappava alle vecchie abitudini), e, quindi, avevano superato
la necessità di superstizioni medievali e fronzoli da barocco di corte. Ma
questi discorsi tradiscono un modo del tutto superficiali di pensare, una
fusione delle imbecillità di Cannegieter e Hegel. In realtà, l'uomo matura
crescendo sia all’esterno della propria anima, tramite le cose che ama e i
segni con cui comunica, sia all’interno, il che risulta più reale e più
importante del mondo effimero e transitorio che ci circonda.
Questo è il tipo di cristiano
educato (e creato, in un certo senso), dalla liturgia tradizionale. Tale
liturgia, inoltre, si è sviluppata lungo vari secoli, espandendo la sua forma
esteriore fino ad includere tutti i simboli che poteva raggiungere, e al
contempo crescendo all’interno, sviluppando pienamente le sue potenzialità
interiori, diventando così sempre più sé stessa [5]. Questa liturgia segna e
forma l’uomo a sua immagine. La sua ricchezza di segni diviene, nel tempo, il
nostro linguaggio di segni. Noi pensiamo e sentiamo con le immagini, le parole
e i gesti che essa ci offre e che inculca in noi.
Rammentiamo, con S.
Tommaso, il profondo simbolismo dell’incenso, che dovrebbe stare di fronte ai
nostri occhi, riempendoci le narici, velando l’immaginazione e portando in
raccoglimento la nostra mente. Il suo bruciare verso l’alto, sprigionando soffi
di fumo e di fragranza, indica l’offerta del nostro cuore a Dio come soave
sacrificio che ci solleva in adorazione al suo trono. Costituisce l’espressione
esterna della nostra interiore devozione, e sebbene esso non compia ciò che
simbolizza, nondimeno agisce su ciò che pervade.
NOTE
[1] In IV Sent., d. 1, q. 2, art. 5, qa. 1, obj. 3: “Praeterea, figuralia quae significant id quod semper faciendum est, non debet cessare, sicut de thurificatione, quae significat devotionem, patet.”
[2] Ciò in Italia “non erat antiquitus adhibitum in Sacris Deorum Gentilium. Quisque ad Deos ferebat quod obvium erat, mel, vinum, lac, plerique vero fruges, aut frugum primitias; deinde dabant quae ex frugibus his fiebant, farra et liba. Verum posteaquam Thus ex Arabia in Graeciam, atque in Italiam advectum est, quanquam magnis impensis Romam asportabatur, facile tamen tantillum inde comparabant cujusque fortunae homines etiam tenuissimi, quod Deo libarent. Pauperes tribus digitis tria grana thuris offerebant. Sed thuris usus in cultu veri Dei antiquissimus est. Unde reprobandus est Henricus Cannegieter asserens propositiones sequentes: 1. Christiani abhorruerunt a thuris usu in sacris; 2. Thymiamata ex thure in vetere Ecclesia nulla fuerunt.”
[3] Phenomenology of Spirit, trad. A. V. Miller (Oxford: Oxford University Press, 1977), §217, p. 131.
[4] “Sanctitas enim importat puritatem consecratam deo” (Super ad Heb. 7, lec. 4). Nella Summa theologiae II-II, q. 81, a. 8, S. Tommaso nota che la parola sanctus potrebbe derivare da sanguine tinctus, cosparso col sangue. Questa consacrazione purificante e purità consacrata non deriva da noi, ma solo da Cristo (cf. Heb. 9:14–15; Heb. 10:19; Jn. 1:12–13; 1 Th. 4:3).
[5] Nota bene, sempre più sé stessa: è precisamente su questo punto che ci si deve interrogare nei riguardo lo strano bizantinismo innestato al rito romano con la riforma liturgica.
[1] In IV Sent., d. 1, q. 2, art. 5, qa. 1, obj. 3: “Praeterea, figuralia quae significant id quod semper faciendum est, non debet cessare, sicut de thurificatione, quae significat devotionem, patet.”
[2] Ciò in Italia “non erat antiquitus adhibitum in Sacris Deorum Gentilium. Quisque ad Deos ferebat quod obvium erat, mel, vinum, lac, plerique vero fruges, aut frugum primitias; deinde dabant quae ex frugibus his fiebant, farra et liba. Verum posteaquam Thus ex Arabia in Graeciam, atque in Italiam advectum est, quanquam magnis impensis Romam asportabatur, facile tamen tantillum inde comparabant cujusque fortunae homines etiam tenuissimi, quod Deo libarent. Pauperes tribus digitis tria grana thuris offerebant. Sed thuris usus in cultu veri Dei antiquissimus est. Unde reprobandus est Henricus Cannegieter asserens propositiones sequentes: 1. Christiani abhorruerunt a thuris usu in sacris; 2. Thymiamata ex thure in vetere Ecclesia nulla fuerunt.”
[3] Phenomenology of Spirit, trad. A. V. Miller (Oxford: Oxford University Press, 1977), §217, p. 131.
[4] “Sanctitas enim importat puritatem consecratam deo” (Super ad Heb. 7, lec. 4). Nella Summa theologiae II-II, q. 81, a. 8, S. Tommaso nota che la parola sanctus potrebbe derivare da sanguine tinctus, cosparso col sangue. Questa consacrazione purificante e purità consacrata non deriva da noi, ma solo da Cristo (cf. Heb. 9:14–15; Heb. 10:19; Jn. 1:12–13; 1 Th. 4:3).
[5] Nota bene, sempre più sé stessa: è precisamente su questo punto che ci si deve interrogare nei riguardo lo strano bizantinismo innestato al rito romano con la riforma liturgica.
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