Una interessante analisi, come al solito, di Mons. Livi.
L
La Nuova Bussola 20-7-16
di Francesca Pannuti
Monsignore, la dottrina della giustificazione che rilievo ha in seno alla fede cattolica?
«Si tratta della grazia santificante, l’azione gratuita e misericordiosa di Dio che redime dal peccato originale e consente il progresso della vita cristiana. Il termine “giustificazione” è biblico, perché nella Scrittura “giusto” vuol dire “santo”: l’uomo giusto è colui che si pone nella giusta posizione davanti a Dio, adorandolo per la sua Maestà divina e immensa Bontà, implorando da Lui la salvezza propria e altrui, ringraziandolo per tutti i suoi benefici e obbedendo gioiosamente ai suoi comandamenti, che sono la vera via della felicità. E Dio può e vuole “giustificare” con la sua grazia l’uomo, redimendolo dal peccato originale, restituendogli l’innocenza perduta con il peccato personale (e in tal modo conservandolo nell’amicizia con Dio stesso). La grazia santificante si chiama per questo gratia gratum faciens, nel senso che rende l’uomo giusto e dunque gradito a Dio (perché Dio, come ripete incessantemente la Scrittura, non tollera il peccato: ama l’uomo peccatore, ma proprio perché lo ama lo vuole liberare dal peccato, che è l’unico ostacolo per la sua felicità temporale ed eterna). Secondo la dottrina cattolica, l’anima del peccatore che diventa giusto passa dallo stato di inimicizia con Dio allo stato d’amicizia: la “giustificazione” è dunque un passaggio dallo stato di peccato a quello di grazia. Come definisce il Concilio di Trento, “la giustificazione del peccatore è il passaggio da quello stato in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio [Rm 8, 15] per mezzo del secondo Adamo Gesù Cristo Salvatore nostro” (Decreto sulla giustificazione). L’uomo rinnovato, risanato quindi ed elevato all’ordine soprannaturale, riacquista la realtà dell’amicizia con Dio, è mondato ed elevato anche perché possa in questa vita accedere degnamente al sommo sacramento, l’Eucarestia, ove si unisce con Gesù Cristo stesso, anticipando già in questa vita l’unione perfetta con Dio nella gloria.»
Centrale, infatti, è la consapevolezza, acutamente precisata da sant’Antonio nei suo Sermoni, che il “giusto” è “colui che accusa se stesso”. Tale dottrina coincide con quanto affermano anche i protestanti?
«Che cosa affermino oggi i protestanti non è facile dirlo, perché in quel campo non c’è un vero e proprio magistero, come non c’è una dottrina teologica riconosciuta da tutte le varie comunità “riformate” o “evangeliche”, le quali non si riconoscono nemmeno in un’unica interpretazione del pensiero del Riformatore. Se però ci si riferisce a quelle che sono state le tesi di Martin Lutero, si deve dire che con la sua “riforma” la dottrina cattolica sulla grazia santificante ne è risultata stravolta e rinnegata nella sua verità più profonda ed essenziale. Lutero, innanzitutto, ha creduto di poter dedurre dalla Lettera ai Romani una concezione della fede come fides fiducialis, ossia come mera fiducia nei meriti di Cristo redentore, la cui grazia non renderebbe giusto il peccatore ma si limiterebbe a “coprirne” i peccati, non imputandoglieli e sottraendolo così al giusto castigo divino».
Ma non si tratta di una palese contraddizione?
«Per questo Lutero immagina che il cristiano sia allo stesso tempo peccatore e giustificato («homo simul iustus et peccator»). Insomma, colui al quale sono imputati i meriti di Cristo - e che sarebbe quindi un “giusto” - non per questo è rinnovato dalla grazia santificante, non è un “homo novus”, ma è una “carogna” (il termine è dello stesso Lutero) avvolta dal manto immacolato dei meriti di Cristo; egli quindi, senza abbandonare il suo peccato, può essere un giustificato. In questa prospettiva non c’è più spazio per la dottrina spirituale cattolica che esige da ogni fedele l’impegno ascetico, in modo che, sostenuto dalle “grazie attuali”, egli abbia sempre la disponibilità alle rinunce e ai sacrifici, ossia a quella “lotta interiore” che serve a evitare il peccato o a emendarsene. La concezione di una radicale corruzione dell’uomo dopo il peccato originale ha portato Lutero alla teorizzazione di una salvezza “sola fide”, una “fede” la cui nozione - che ha oggi invaso il mondo cattolico - è falsa, perché non è la fede dogmatica, per cui è essenziale l’adesione ai contenuti della Rivelazione, ma la fede-fiduciale in cui quel che conta è l’aspetto per così dire “sentimentale”. Quindi, dice Lutero, “pecca fortemente, ma credi ancor più fortemente” (“pecca fortiter, sed crede fortius”), ovvero quanto più l’uomo continua a peccare tanto più dimostra la propria assoluta fiducia nei meriti di Cristo, che hanno il potere divino di salvare indipendentemente dal libero arbitrio del credente. Quel che è peggio è che, in questa concezione luterana della giustificazione, i mezzi stabiliti da Dio per concedere la sua grazia, che sono i Sacramenti di Cristo, vengono privati a uno a uno del loro significato propriamente teologico, e alla fine vengono del tutto aboliti, salvo (apparentemente) il Battesimo. Data la gravità di queste interpretazioni eretiche, disastrose per la salvezza delle anime secondo il progetto misericordioso di Dio, la Chiesa ha dovuto condannare come eretica la dottrina luterana sulla giustificazione, e lo ha fatto con precisi e inequivocabili “canoni” o “anatematismi” nel Concilio di Trento (Sessione VI, 13 gennaio 1547)».
C'è stato un riavvicinamento tra le due posizioni nei tempi recenti?
«Premetto che di “due posizioni” non si può parlare. Infatti, la posizione della Chiesa cattolica - che ha un Magistero e una dottrina ben definita, fissata in formule dogmatiche - non si può in alcun modo confrontare con la miriade di varianti interpretative e di sviluppi teoretici delle idee di Lutero, visto che la proliferazione di denominazioni nell’ambito della Riforma, rendono praticamente impossibile individuare una dottrina comune. Ciò nonostante, c’è stata una serie di tentativi di dialogo interreligioso, nell’ambito della quale una commissione di teologi cattolici (designati dalla Santa Sede) ha discusso con una commissione di teologi luterani (designati dalle diverse autorità religiose di ispirazione luterana) la possibilità di trovare dei punti d’incontro tra il dogma cattolico e quello che tale commissione ritiene possa dirsi oggi la dottrina di Lutero. Ma tale convegno di studio, animato da intenzioni più politiche che scientifiche, ha elaborato un documento finale (pubblicato il 31 ottobre 1997) nel quale, con discorsi estremamente ambigui, i luterani hanno presentato gli sviluppi della loro dottrina sulla giustificazione in modo che non assomigli più a ciò che il Concilio di Trento aveva condannato, e i cattolici hanno fatto finta di credere che così non ci sono più divergenze dottrinali tra la Chiesa e le comunità nate dalla Riforma. La stessa Santa Sede (con un documento congiunto della Congregazione per la dottrina della fede e del Segretariato per l’unità dei cristiani) ha negato che le conclusioni raggiunte nel convegno di studi abbiano risolto alcun problema (cfr la Risposta della Chiesa Cattolica alla dichiarazione congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione luterana mondiale circa la dottrina della giustificazione, 25 giugno 1998). Per arrivare a dire che la Chiesa ha finalmente riconosciuto che Lutero aveva ragione e che essa ha sbagliato (perché avrebbe interpretato male le tesi del Riformatore o perché era ancora legata a una teologia tomista che oggi sarebbe superata) bisognerebbe che ciò fosse affermato formalmente, non da una qualsiasi commissione di teologi, ma da un Concilio ecumenico a carattere esplicitamente dogmatico che abolisse gli “anatematismi” del Concilio di Trento. Ma questo è proprio impossibile. Anche quando c’è una riforma nella Chiesa, essa non riguarda mai il dogma, ossia ciò che è stato “definito” semel pro semper ed è quindi irreformabile: riguarda piuttosto aspetti riformabili (accidentali) della dottrina, della morale e della prassi pastorale, e anche in questi ambiti una riforma promossa dal Magistero va interpretata – lo ha spiegato bene papa Benedetto XV – come “riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. E il “soggetto-Chiesa”, aggiungo io, è Gesù in Persona, il quale è l’unico Maestro e non può smentire se stesso, perché la proclamazione della sua verità salvifica ha delle esigenze assolute, infinitamente superiori a ogni esigenza relativa, diplomatica o pastorale, presente nel “dialogo interreligioso”!».
Le correnti teologiche oggi più influenti sono in grado di ben armonizzare tra loro temi come la grazia e la natura, la salvezza e la perdizione, il divino e l’umano?
«Se si guarda al panorama della teologia attuale in termini di sociologia della cultura e di sociologia religiosa, non possiamo non constatare che quella “dittatura del relativismo” che Benedetto XVI tanto deprecava e dalla quale voleva liberare la Chiesa è oggi più opprimente che mai. E parte di questa dittatura è proprio l’egemonia politico-ecclesiastica della teologia di ispirazione luterana, la quale ha tra i suoi rappresentanti più influenti, tra gli accademici, Karl Rahner e Hans Küng, e tra i cardinali di Curia Walter Kasper. Questa teologia ripropone sostanzialmente la tesi fideistica sulla giustificazione, e quindi mette in ombra il ruolo primario dei sacramenti della grazia santificante, a cominciare dalla Penitenza e dall’Eucaristia».
Questa teologia ha influenzato anche il Sinodo sulla famiglia?
«Anche il dibattito nei due Sinodi sulla famiglia a proposito dello “stato di peccato”, in cui versano i battezzati che hanno mancato alla fedeltà coniugale e hanno instaurato una convivenza adulterina, ha messo in evidenza come questa mentalità abbia reso molti padri sinodali insensibili alla necessità della riconciliazione di quelle persone con Dio e con la Chiesa mediante il sacramento della Penitenza, che conferisce la grazia di Cristo a condizione che il penitente eserciti il suo libero arbitrio con gli “atti” che il rito cattolico da sempre prescrive (anche dopo la riforma liturgica di Paolo VI), ossia l’esame di coscienza, il pentimento sincero ed efficace, l’accusa dei peccati con il proponimento di non più commetterli, la “soddisfazione” o riparazione. Ottenuta dal ministro sacro – che è proprio, per esplicito mandato di Cristo, giudice delle debite disposizioni del penitente - l’assoluzione sacramentale, il fedele è nelle condizioni di poter accedere al sacramento dell’Eucaristia, che è molto più di un mero simbolo della presenza spirituale di Cristo nella comunità orante, ma è, in virtù della transustanziazione, la possibilità di un incontro personale con Gesù presente fisicamente («in corpo, sangue, anima e divinità») sotto le apparenze del pane e del vino. È il dogma della “presenza reale” – che Lutero disconosce espressamente e i filo-luterani di oggi tendono a sottovalutare o addirittura a relegare tra le inutili astruserie – ciò che deve sollecitare gli operatori della pastorale dei “divorziati risposati” ad adoperarsi, in spirito di autentica misericordia, perché queste persone possano accedere alla Comunione eucaristica con le debite disposizioni, ossia già riconciliati e in “stato di grazia”, evitando di profanare il corpo e il sangue del Signore e di tramutare così in “motivo di condanna” ciò che Dio ha disposto per la loro salvezza e santificazione (si veda Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a cura di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2016)».