Il Sacco di Roma: un castigo misericordioso
di Roberto
de Mattei da Corrispondenza Romana del 02.12.2015
La Chiesa vive un’epoca di sbandamento dottrinale e morale. Lo
scisma è deflagrato in Germania, ma il Papa non sembra rendersi
conto della portata del dramma. Un gruppo di cardinali e di vescovi
propugna la necessità di un accordo con gli eretici. Come sempre
accade nelle ore più gravi della storia, gli eventi si succedono con
estrema rapidità. Domenica 5 maggio 1527, un esercito calato dalla
Lombardia giunse sul Gianicolo.
L’imperatore
Carlo V, irato per l’alleanza politica del papa Clemente VII con il
suo avversario, il re di Francia Francesco I, aveva mosso un esercito
contro la capitale della Cristianità. Quella sera il sole tramontò
per l’ultima volta sulle bellezze abbaglianti della Roma
rinascimentale. Circa 20 mila uomini, italiani, spagnoli e tedeschi,
tra i quali i mercenari Lanzichenecchi, di fede luterana, si
apprestavano a dare l’attacco alla Città Eterna. Il loro
comandante aveva concesso loro licenza di saccheggio.
Tutta
la notte la campana del Campidoglio suonò a storno per chiamare i
romani alle armi, ma era ormai troppo tardi per improvvisare una
difesa efficace. All’alba del 6 maggio, favoriti da una fitta
nebbia, i Lanzichenecchi mossero all’assalto delle mura, tra
Sant’Onofrio e Santo
Spirito. Le Guardie svizzere si schierarono
attorno all’Obelisco del Vaticano, decise a rimanere fedeli fino
alla morte al loro giuramento. Gli ultimi di loro si immolarono
presso l’altar maggiore della Basilica di San Pietro. La loro
resistenza permise al Papa di riuscire a mettersi in fuga, con alcuni
cardinali.
Attraverso
il Passetto del Borgo, via di collegamento tra il Vaticano e Castel
Sant’Angelo, Clemente VII raggiunse la fortezza, unico baluardo
rimasto contro il nemico. Dall’alto degli spalti il Papa assisté
alla terribile strage che cominciò con il massacro di coloro che si
erano accalcati alle porte del castello per trovarvi riparo, mentre i
malati dell’ospedale di Santo Spirito in Saxia venivano trucidati a
colpi di lancia e di spada.
La
licenza illimitata di rubare e di uccidere durò otto giorni e
l’occupazione della città nove mesi. «L’inferno
è nulla in confronto colla veste che Roma adesso presenta»,
si legge in una relazione veneta del 10 maggio 1527, riportata da
Ludwig von Pastor (Storia
dei Papi, Desclée,
Roma 1942, vol. IV, 2, p. 261).
I
religiosi furono le principali vittime della furia dei
Lanzichenecchi. I palazzi dei cardinali furono depredati, le chiese
profanate, i preti e i monaci uccisi o fatti schiavi, le monache
stuprate e vendute sui mercati. Si videro oscene parodie di cerimonie
religiose, calici da Messa usati per ubriacarsi tra le bestemmie,
ostie sacre arrostite in padella e date in pasto ad animali, tdombe di
santi violate, teste degli apostoli, come quella di sant’Andrea,
usate per giocare a palla nelle strade. Un asino fu rivestito di
abiti ecclesiastici e condotto all’altare di una chiesa. Il
sacerdote che rifiutò di dargli la comunione fu fatto a pezzi. La
città venne oltraggiata nei suoi simboli religiosi e nelle sue
memorie più sacre (si veda anche André Chastel, Il
Sacco di Roma,
Einaudi, Torino 1983; Umberto Roberto, Roma
capta. Il
Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Laterza,
Bari 2012).
Clemente
VII, della famiglia dei Medici non aveva raccolto l’appello del suo
predecessore Adriano VI ad una riforma radicale della Chiesa. Martin
Lutero diffondeva da dieci anni le sue eresie, ma la Roma dei Papi
continuava ad essere immersa nel relativismo e nell’edonismo. Non
tutti i romani però erano corrotti ed effeminati, come sembra
credere lo storico Gregorovius. Non lo erano quei nobili, come Giulio
Vallati, Giambattista Savelli e Pierpaolo Tebaldi, che inalberando
uno stendardo con l’insegna “Pro
Fide et Patria”,
opposero l’ultima eroica resistenza a Ponte Sisto, né lo erano gli
alunni del Collegio Capranica, che accorsero e morirono a Santo
Spirito per difendere il Papa in pericolo.
A
quella ecatombe l’istituto ecclesiastico romano deve il titolo di
“Almo”. Clemente VII si salvò e governò la Chiesa fino al 1534,
affrontando dopo lo scisma luterano quello anglicano, ma assistere al
saccheggio della città, senza nulla poter fare, fu per lui più duro
della morte stessa. Il 17 ottobre 1528 le truppe imperiali
abbandonarono una città in rovina.
Un
testimone oculare, spagnolo, ci dà un quadro terrificante della
città un mese dopo il Sacco: «A
Roma, capitale della cristianità, non si suona campana alcuna, non
sì apre chiesa non si dice una Messa, non c’è domenica né giorno
di festa. Le ricche botteghe dei mercanti servono per stalle per i
cavalli, i più splendidi palazzi sono devastati, molte case
incendiate, di altre spezzate e portate via le porte e finestre, le
strade trasformate in concimaie. È orribile il fetore dei
cadaveri: uomini
e bestie hanno la medesima sepoltura; nelle chiese ho visto cadaveri
rosi da cani. Io non so con che altro confrontare questo, fuorché
con la distruzione di Gerusalemme. Ora riconosco la giustizia di Dio,
che non dimentica anche se viene tardi. A Roma si commettevano
apertissimamente tutti i peccati: sodomia, simonia, idolatria
ipocrisia, inganno; perciò non possiamo credere che questo non sia
avvenuto per caso. Ma per giudizio divino»
(L. von Pastor, Storia
dei Papi, cit.,
p. 278).
Papa
Clemente VII commissionò a Michelangelo il Giudizio universale nella
Cappella Sistina quasi per immortalare il dramma o che subì, in
quegli anni, la Chiesa di Roma. Tutti compresero che si trattava di
un castigo del Cielo. Non erano mancati gli avvisi premonitori, come
un fulmine che cadde in Vaticano e la comparsa di un eremita,
Brandano da Petroio, venerato dalle folle come “il pazzo di
Cristo”, che nel giorno di giovedì santo del 1527, mentre Clemente
VII benediceva in San Pietro la folla, gridò: «bastardo
sodomita, per i tuoi peccati Roma sarà distrutta. Confessati e
convertiti, perché tra 14 giorni l’ira di Dio si abbatterà su di
te e sulla città».
L’anno
prima, alla fine di agosto, le armate cristiane erano state disfatte
dagli Ottomani sul campo di Mohacs. Il re d’Ungheria Luigi II
Jagellone morì in battaglia e l’esercito di Solimano il Magnifico
occupò Buda. L’ondata islamica sembrava inarrestabile in Europa.
Eppure l’ora del castigo fu, come sempre l’ora della
misericordia. Gli uomini di Chiesa compresero quanto stoltamente
avessero inseguito le lusinghe dei piaceri e del potere. Dopo il
terribile Sacco la vita cambiò profondamente.
La
Roma gaudente del Rinascimento si trasformò nella Roma austera e
penitente della Contro-Riforma. Tra coloro che soffrirono nel Sacco
di Roma, fu Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, ma che allora
risiedeva a Roma. Imprigionato dagli assedianti giurò che non
avrebbe mai abbandonato la sua residenza episcopale, se fosse stato
liberato. Mantenne la parola, tornò a Verona e si dedicò con tutte
le sue energie alla riforma della sua diocesi, fino alla morte nel
1543.
San
Carlo Borromeo, che sarà poi il modello dei vescovi della Riforma
cattolica si ispirerà al suo esempio. Erano a Roma anche Carlo
Carafa e san Gaetano di Thiene che, nel 1524, avevano fondato
l’ordine dei Teatini, un istituto religioso irriso per la sua
posizione dottrinale intransigente e per l’abbandono alla Divina
Provvidenza spinto al punto di aspettare l’elemosina, senza mai
chiederla. I due cofondatori dell’ordine furono imprigionati e
torturati dai Lanzichenecchi e scamparono miracolosamente alla morte.
Quando
Carafa divenne cardinale e presidente del primo tribunale della Sacra
romana e universale Inquisizione volle accanto a sé un altro santo,
il padre Michele Ghislieri, domenicano. I due uomini, Carafa e
Ghislieri, con i nomi di Paolo IV e di Pio V, saranno i due Papi per
eccellenza della Contro-Riforma cattolica del XVI secolo. Il Concilio
di Trento (1545-1563) e la vittoria di Lepanto contro i Turchi (1571)
dimostrarono che, anche nelle ore più buie della storia, con l’aiuto
di Dio è possibile la rinascita: ma alle origini di questa rinascita
ci fu il castigo purificatore del Sacco di Roma. (Roberto de Mattei)
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